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Ryuki [il piccolo Cubone]


Ryuki

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Questa storia la scrissi qualche anno fa, tra l'altro la presentai anche su un'altro forum di pkm. Ora ho provato a rivisitarla, spero che sia migliorata un po' XD

La storia si riferisce alla leggenda secondo cui i cubone indossano il teschio della madre e fa chiari riferimenti alla vicenda dell'uccisione della mamma di cubone nei primi capitoli della saga dei pkm da parte del team rocket a Lavandonia.

Spero che sia decente XD Grazie per l'attenzione ed ecco a voi

IL PICCOLO CUBONE

Era un’altra giornata serena all’entrata del Tunnel Roccioso nella regione di Kanto. Lì, in mezzo alle rocce e alla terra, un gruppo di cuccioli di cubone osservava incuriosito gli avventurieri che si aggiravano per la montagna, ignari dei tanti occhietti che li spiavano.

Benché fossero ancora molto piccoli, conoscevano già  il pericolo che potevano rappresentare gli uomini e, per questo, si tenevano ben nascosti, in silenzio, mentre la loro mamma marowak era alla ricerca di cibo.

Tuttavia, in un angolo della tana sotterranea, un cubone se ne stava da solo, preferendo le profondità  calde e sicure della terra, alla luce chiara del mattino.

Era il più piccolo e gracile della cucciolata e mentre i suoi coraggiosi fratellini si esponevano ormai tranquillamente al di fuori della tana, lui non aveva ancora avuto il coraggio di farlo.

Mentre aspettava pazientemente la madre, a cui era particolarmente legato, cominciò a rompere ciottoli col suo ossicino, un tempo appartenente all’ala di uno zubat, quindi molto sottile.

Dovete sapere che a quei tempi i cubone e i marowak non avevano ancora l’abitudine di coprirsi il capo con un teschio, ed il bel musetto chiaro del cucciolo annusava l’aria in cerca di qualche novità .

Marowak non ci mise troppo a tornare e i suoi cuccioli la seguirono allegri nella tana cercando di vedere cosa trasportasse di buono. La madre aveva procurato una gran quantità  di bacche e piante commestibili. Le preferite del piccolo cubone erano le baccastagne ma questa volta non ne aveva trovate.

Il tempo passò monotono giorno dopo giorno, ed i cuccioli, ormai diventati adulti, cominciarono a lasciare la tana uno dopo l’altro. Cominciava il lungo viaggio che avrebbe potuto portarli anche molto lontani dalla terra natia. Quasi per tutti. Il più giovane dei fratelli, infatti, non voleva saperne di lasciare la tana. La povera madre non sapeva più cosa fare per farlo uscire di lì e, piena del suo amore materno, continuava a procurargli da mangiare. Ma la vecchiaia si faceva sentire sempre più, e nutrire entrambi era sempre più arduo.

Un giorno, però, successe qualcosa che avrebbe sconvolto per sempre la vita del piccolo cubone.

Era una giornata un po’nuvolosa, anche se cubone, sempre rinchiuso sotto terra, non poteva certo saperlo. Probabilmente presto avrebbe cominciato a piovere.

Marowak era uscita come ogni mattina a sgranchirsi le zampe ed il giovane Pokemon si mise a scavare alla ricerca di gustosi vermetti.

Passò del tempo, ma la madre ancora non tornava. Cubone cominciò a preoccuparsi e più il tempo passava più si sentiva solo.

Cominciò a camminare avanti e indietro, mentre il terreno sopra la sua testa si inumidiva, segno che la pioggia era cominciata a scendere.

Cubone non poteva saperlo, perché i Pokemon non portano orologi, ma erano già  passate 5 ore da quando la madre era uscita. Ormai era mezzogiorno inoltrato e lo stomaco cominciò a imporre la sua autorità . Era sempre più spaventato, ma non si azzardava ad uscire per cercare la madre e così passò un intera giornata senza mangiare.

La fame di cubone era a livelli estremi e, prima che se ne accorgesse, il suo musetto si ritrovavò infine sotto il cielo cupo pieno di nuvoloni neri. Spinto dalla fame aveva fatto il primo passo della sua vita fuori dalla tana e l’aria fresca lo rincuorò un poco.

Passata anche la sorpresa per la stranezza che quel paesaggio mostrava, cominciò a tremare per la paura, e l’impulso di tornare nelle calde profondità  della tana si fece tanto intenso che nemmeno lui seppe cosa lo spinse a fare un altro passo.

Ormai nel mondo esterno, volle provare a cercare sua madre: ma da dove cominciare? Come doveva muoversi? Non sapeva nulla di quel mondo così strano e spaventoso, e la pioggia del giorno prima aveva cancellato gli odori, così cubone cominciò a zampettare a caso quà  e là  intorno alla tana, ma senza risultato.

Abbattuto provò ad allontanarsi un po’di più, ancora un po’, ancora un po’, finché non arrivò a Lavandonia.

Cubone subito si chiese cosa fossero quelle alte costruzioni da cui usciva dell’aria nera. E perché il terreno sotto le sue zampe si era fatto improvvisamente così duro?

Provò a scavarlo con gli artigli, ma non riuscì a provocare che qualche graffio al pavimento cementato della strada.

Un‘improvviso trambusto fece sobbalzare il piccolo pokèmon << Al ladro! Al ladro!>> urlò una voce femminile, ed una di quelle costruzioni si aprì. Uno strano essere alto tutto nero uscì di corsa portando in braccio un Pokemon d’erba.

Cubone non aveva mai visto un uomo, ma quello non era un uomo comune: era un membro del Team Rocket, la più grande organizzazione criminale del mondo, ed aveva appena sottratto un povero bulbasaur dalla sua casa. Al suo seguito giunsero altre figure in nero e uno di loro, accortosi del cubone che lo osservava, si diresse verso di lui.

Cubone tentò di fuggire, ma fu subito raggiunto ed acciuffato dal Rocket.

<< Ehi, ne ho trovato un altro!>> urlò ai compagni. Cubone si dimenava, tentando di morderlo e graffiarlo, ma l’uomo lo teneva per la collottola e le sue corte zampette non lo raggiungevano.

<<Ti agiti troppo piccola peste>> gli disse con un ghigno feroce dipinto sul volto, e con la mano libera cominciò a rovistare nella borsa. Ne estrasse una specie di siringa dall’aria sinistra. Il piccolo cubone si agitò terrorizzato, ma l’uomo in nero gli infilò l’ago dietro il collo. Subito tutto cominciò a girare attraverso gli occhi di cubone. In un attimo fu nel mondo dei sogni.

Si risvegliò qualche ora dopo. Quando si abituò al buio capì di essere in un posto molto stretto; una stanzetta buia e umida.

Vide numerose gabbie e sobbalzò quando si accorse di essere egli stesso in una gabbia.

Anche dietro le altre sbarre vi erano dei Pokemon, di ogni genere, tutti stanchi e spaventati, esattamente come lui.

Alcune di quelle povere bestiole giacevano immobili sul fondo freddo delle loro prigioni. Non ce l’avevano fatta a sopportare il freddo, la fame, la solitudine e la paura.

Il piccolo cubone cominciò a piangere sempre più forte chiamando la mamma. I suoi lamenti strazianti rimbombavano tra le strette pareti e sembrava che il dolore potesse fargli esplodere il cuore da un momento all’altro.

Altre voci addolorate si unirono al piccolo pokèmon: il triste ululato di un growlithe, lo stridio di un venosaur, il pigolare di svariati pokèmon uccello e dal fondo della stanza, nella gabbia più grossa, giunse il malinconico canto di un Lapras.

Poco dopo una luce abbagliante pervase la stanza e dalla porta appena aperta entrarono alcuni Rocket.

<< Ah cavoli ne sono andati degli altri!>> disse uno di loro irritato << così non arriveranno mai a destinazione. Partiamo tra 2 giorni e ne vorrei qualcuno ancora vivo!>>

Gli uomini aprirono ad una ad una tutte le gabbie in cui giacevano dei Pokèmon. Ad un tratto il cuore di cubone ebbe una tuffo e sembrò sul punto di sgretolarsi. Tra i pokèmon estratti dalle gabbie riconobbe il musetto vecchio e scolorito della madre, morta pensando al suo piccolo che aveva lasciato solo, senza speranze nella tana sotto il Tunnel roccioso.

Il piccolo cubone cominciò a chiamarla a squarciagola, ma lei non si mosse di un millimetro.

Il pianto aumentò tanto che uno degli uomini tirò un calcio alla gabbia di cubone scaraventandola di sotto.

<<Finiscila o ammazzerai anche quello!>> lo rimproverò un altro.

Sbuffando l’uomo si girò e insieme agli altri uscì dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle.

Cubone scandalizzato ed incredulo a ciò che aveva appena visto si strinse nell’angolo e non emise più un suono per tutto il giorno.

Aveva di fronte il muso ingrigito della dolce madre.

Che scoloriva.

Scoloriva.

Fino a divenire bianco.

Fino a sparire.

Il giorno dopo gli uomini in nero tornarono per portar via altre vittime e cubone ebbe un idea. Si gettò per terra a pancia in su, rilassò tutti i muscoli e i nervi e si finse morto. C’aveva visto giusto. Non ci volle molto che un Rocket lo notasse e lo prendesse con sé.

Cubone venne buttato insieme ai cadaveri in una sorta di fossa comune in mezzo ad un bosco, non troppo lontano dalla base.

Lo spettacolo era raccapricciante, ma non appena vide sua madre spuntare in mezzo ai corpi corse da lei. Aveva da poco cominciato a piovigginare e ciò non faceva altro che aggiungere un senso di malinconia e solitudine alla scena. Cubone cominciò a sussurrare alla madre parole dolci, di gratitudine e di scuse, mentre grosse lacrime gli rigavano le guance e la pioggia lo inzuppava. Tentò di muoverla col musetto ma niente. Sua madre non si muoveva e non l’avrebbe fatto mai più.

Dopo qualche incessante minuto, o forse dopo qualche ora, il pokèmon si alzò e sollevò il corpo immobile di marowak per portarlo via da quell’orribile luogo che odorava di morte.

Trascinò il corpo fino alla tana, impiegandoci una buona mezza giornata. Non seppe mai cosa l’avesse guidato, attraverso un bosco che non conosceva, fino a casa, senza perdersi. Giunto a destinazione cominciò a scavare in un silenzio di tomba e depositò la madre dentro una buca profonda abbastanza da farcela stare appena.

Delicatamente la ricoprì di terra, dopodiché scivolò nel suo di buco, che non vedeva da giorni, ma che a lui sembravano anni. Si rintanò nella zona più profonda e restò in silenzio, cercando di pensare, tuttavia la sua mente era vuota, come un abisso profondo e disperato.

La tana era ancora invasa dal profumo della marowak e se si concentrava riusciva a sentire anche le ultime tracce dei suoi fratellini. Chissà  dov’erano in quel momento. Chissà  come stavano. Magari avevano già  trovato una famiglia o avevano visto meraviglie che lui non immaginava nemmeno… chissà  se si ricordavano della tana. Cubone non riusciva a credere che il tempo potesse essere passato tanto in fretta. Non riusciva a non incolparsi per non aver mai voluto trascorrere del tempo con loro, con la sua famiglia, finché ancora era lì, invece di starsene sempre da solo. Ed ora era veramente solo. Solo come non era mai stato. Solo.

Con questo pensiero scivolò in un sonno popolato da incubi e mostri vestiti di nero.

Passarono altri mesi e cubone non era più uscito dalla tana. Era sopravvissuto cibandosi di vermi, insetti e radici che trovava nel sottosuolo, ma era diventato spaventosamente magro.

Un giorno, quando il sole ancora doveva alzarsi alto nel cielo, udì dei rumori provenire dall’ingresso. Cominciò a ringhiare pronto a sfidare lo straniero, ma rimase stupito nel vedere un musetto identico al suo affiorare da dietro una svolta del tunnel. Lo riconobbe subito grazie all’odore: era uno dei suoi fratelli, che era tornato per un saluto mentre passava di là  e sembrò meravigliato nel constatare che il fratellino più piccolo si trovava ancora li.

Cubone non seppe trattenere la gioia e corse a strofinare il suo muso smagrito contro quello del gradito ospite. Finalmente non era più solo! E quell’improvvisa visita accese una scintilla nei suoi occhi che era sparita ormai da tempo.

Il fratello gli chiese dov’era la madre e al suo ricordo un nuovo dolore prese d’assaltò il non più tanto piccolo cubone che, trattenendo le lacrime, lo condusse alla tomba improvvisata appena fuori dalla tana. Non si rese nemmeno conto di essere uscito fuori, tanto era sorpreso della visita.

Il maggiore allora gli raccontò che nella città  degli uomini chiamata Lavandonia, c’era un posto che si dicesse fosse infestato dagli spiriti dei Pokemon deceduti e chissà  che non ci fosse anche marowak.

Il fratellino minore sgranò gli occhi alla notizia, il pensiero di poter rincontrare sua madre accese una nuova speranza in lui.

Il fratello lasciò la tana a pomeriggio inoltrato, per ripartire alla scoperta di terre nuove.

Quando scese il buio cubone si diresse alla città  dove tempo addietro era stato catturato dal Team Rocket.

Le piastrelle ed i muri violacei della città  la facevano apparire tetra, ed anche la popolazione scarsa e chiusa contribuiva a farla apparire una città  spettrale. Il fratello gli aveva detto che doveva andare nella costruzione più alta che avrebbe visto: ed eccola là ; una torre immensa, lugubre come la città  stessa.

Cubone aveva ormai imparato che in quelle tane enormi bisognava aprire un buco nella parete per entrare, eppure non riusciva a capire come facessero a farlo. Allora si diresse sul retro e con l’unica mossa che conoscesse -ossoclava- aprì una voragine nel muro. Per fortuna era già  molto tardi e gli umani dormivano della grossa, così nessuno si accorse del pokèmon solitario.

L’interno dell’edificio era perfino più spaventoso della città . Vi erano tombe dappertutto; per la maggior parte in ordine scarso, ma che finivano per formare dei sentieri.

Fin da subito cubone avvertì una strana presenza, come un brivido. Era dunque vero? L’edificio era infestato dai fantasmi? Decise di arrivare all’ultimo piano e si diresse perciò verso le scale. Tuttavia, a pochi centimetri da esse, un freddo gelido gli penetrò le ossa. Qualcosa l’aveva sfiorato.

Il pokèmon cominciò a correre all’impazzata su per le scale, mentre esseri spettrali apparivano da ogni angolo. La maggior parte di quegli esseri erano solo masse informi, ma cubone avrebbe giurato di aver visto anche volti di pokèmon tristi e confusi apparire tra loro. Avrebbe perfino giurato di vedere uno dei suoi fratelli.

Correndo senza fiato si ritrovò in un vicolo ceco e, preso dal panico, si gettò in un angolo raggomitolandosi, mentre gli spettri gli si avvicinavano.

Quando si sentiva ormai in trappola, riconobbe una voce. Dolce e triste al tempo stesso.

Aprì lentamente gli occhi e il suo cuore ebbe uno sbuffo. Davanti a lui si stagliava giovane e magnifica marowak, com’era stata nel fiore degli anni.

La sua voce calda era la stessa che ricordava da quand’era cucciolo, ma c’era rimprovero nel suo tono

“cosa stai facendo cubone? Guarda come ti sei ridotto! Ad uno scheletro! Per colpa tua io non riesco a trovare pace e rimango qui a vagabondare in mezzo ai morti! Smettila di vivere nei rimpianti, alza il muso al sole e sfidalo! Devi vivere cubone! Per te e per me! Se io non ho potuto avere una morte serena a causa di altri, tu devi sopravvivere per entrambi e non permettere che orrori del genere si ripetano e che altri pokèmon soffrano così!>> il suo tono si addolcì improvvisamente <<rendimi fiera di te, e rendimi libera>>.

Marowak svanì così com’era apparsa mentre l’eco dell’ultima frase ancora rimbalzava sulle pareti di pietra. Ma non vi era più il tetro soffitto sulla testa di cubone, ma un cielo stellato che portava la fantasia a correre insieme a tutte quelle luci.

Cubone non si era mai reso conto di quanto il mondo fosse bello.

Si alzò con una nuova determinazione negli occhi. Corse verso la tana più veloce che potè e cominciò a scavare nel punto dove aveva seppellito la madre. Ormai non erano rimaste che le ossa sbiancate dagli agenti della terra.

Cubone ebbe un attimo di esitazione, ma poi, deciso, afferrò il teschio di marowak, simile ad un elmetto, e se lo mise in testa, dopodiché scagliò lontano il suo ridicolo ossicino di zubat e prese un osso dallo scheletro.

Di nuovo solo, ma deciso a vivere, si arrampicò in cima alla rupe più alta e, stagliato contro la luna, lanciò con un grido la sua sfida al cielo.

In quel mentre qualcosa di ancora più straordinario accadde.

Ora sotto le stelle non c’era più un piccolo e pauroso cubone, ma un forte e deciso marowak.

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