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[Terry_McFail] Terry's Bookshelf


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La raccolta di tutto quello che ho scritto finora e di ciò che scriverò in futuro,
che sia per un contest o per semplice voglia di scrivere una storia.
I commenti sono ben accetti. ;)

 

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26/08/2014 - Il potere dell'uomo [Original - Repost]
02/12/2014 - Ora devo sfogarmi - [Original - Repost]
11/02/2015 - Entry per Millennium Games - [Original - Repost]
28/03/2015 - No Scrubs. No Angels.
Aprile 2015 - Testi del Virtutes in Vitiis, per la maggior parte di Dany1899 e con apertura di Zebstrika94, ma c'è anche qualcosa di mio - [Original - Repost]
22/05/2015 - Fallo per lui [Original - Repost]
02/09/2015 - Sara e il mare [Original - Repost]
29/09/2015 - Insomnia-Veritas

 

 

 

 

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Nuovo forum, nuovo testo? No, decisamente no. Le nuove impostazioni hanno fatto saltare completamente i link ai post e la formattazione dei messaggi. Ho aggiornato l'aggiornabile, ma molte discussioni, poichè chiuse, non sono più modificabili.
Per ovviare al problema, nei prossimi giorni riporterò qui i testi che non sono stata in grado di editare nella discussione originaria, così che siano più facili da leggere. Quindi d'ora in avanti i link nel primo messaggio saranno per alcuni testi doppi: Original rimanderà al testo nella discussione originaria, Repost alla sua versione riformattata.

 

Cominciamo subito col più vecchio del gruppo, scritto per l'Input Contest nel "lontano" agosto 2014.
 

Data: 26/08/2015
Contest: Incipit Contest
Titolo: Il potere dell'uomo

Elaborato:

 

Spoiler

 

"L'antico potere si è risvegliato, dopo millenni, ed ora è pronto a scatenare la sua furia!"

Furono queste le ultime parole di Mark Thompson, prima della sua esecuzione.

 

Fino a quel giorno non mi ero mai fatto troppe domande. Avevo accettato le regole stabilite negli albori della comunità come dogmi inviolabili.
Nelle scuole ci avevano insegnato che solo una parola è in grado di rappresentare al meglio la nostra società: perfezione. E dopo aver passato buona parte della mia vita a studiare storia umana, ero arrivato a credere che fosse effettivamente così.
Siamo estremamente avanzati per conoscenze e tecnologie, ma le nostre menti più illuminate ci avrebbero aiutato a progredire ancora. Abbiamo imparato a sfruttare il nostro pianeta nella giusta misura, così che la Terra possa vivere per altri miliardi di anni, crescendoci e sfamandoci come una madre amorevole fa con i suoi figli. Guerre, malattie, problemi ambientali... tutte cose di cui parlano i testi antichi, ma che noi non abbiamo mai dovuto affrontare.

 

Tutti i malesseri che avevano portato alla distruzione dei nostri antenati e delle loro società arcaiche, erano stati definitivamente sconfitti dall'arrivo della nostra.

 

Come è stato possibile? Merito di un giusto uso della forza umana. Noi uomini nasciamo, viviamo e moriamo come ogni essere vivente, ma non siamo fatti d'istinto come gli animali, bensì di potenziale. Potenziale che solo la nostra società  è in grado di tirar fuori, perché possa essere usata al meglio.

 

Nascere, vivere sfruttando al massimo le proprio capacità , morire. Ecco qual è la nostra vita ora.

 

Come tutti gli altri infanti prima di me, sono nato da una coppia di riproduttori, un uomo e una donna assegnati al mantenimento della specie perché molto fertili. E analogamente a quanto successo loro, il mio DNA è stato analizzato dieci minuti dopo il mio primo vagito, come da protocollo. Una sola cellula e subito fu chiaro a tutti chi ero, quanto sarei stato alto, quali alimenti avrei gradito e quali sgradito, quanto lunga sarebbe stata la mia vita e, soprattutto, a cosa sarei stato assegnato per il resto dei miei giorni.

Sì: l'analisi di una sola minuscola cellula è in grado di stabilire il nostro vero potenziale. Una cosa tanto invisibile... eppure è lei a decidere il tuo destino.

Nel mio caso, la cellula cutanea che i medici prelevarono dall'alluce destro stabilì che sarei diventato un uomo mediocre. Il mio cervello era buono, troppo buono perché venissi indirizzato ad un lavoro basato sulla mera attività  fisica, ma nemmeno così brillante da concedermi un posto fra i grandi studiosi. Così il consiglio per l'assegnazione dei lavori aveva scelto una via di mezzo: "archivista di testi antichi con il compito di comporre trattati per la cultura collettiva". Insomma, un miscuglio fra uno storico, un insegnante e uno scrittore. Un lavoro che, eseguito senza sgarri alle regole, mi avrebbe permesso di avere vitto, alloggio e cure mediche per il resto della mia vita.

 

Ma cambiò tutto.

 

Il giorno in cui Thompson venne giustiziato avevo vissuto 17 dei miei 102 anni previsti. Cinque li avevo trascorsi da infante, cinque furono destinati agli studi dell'obbligo, altri cinque alla specializzazione e gli ultimi due al mio lavoro definitivo. Procedura standard, la stessa per tutti, qualunque fosse l'assegnazione.
Thompson, nei fatti, era mio vicino di casa. Eravamo archivisti nella stessa università, dunque vivevamo nello stesso complesso di alloggi, insieme a tutti gli altri archivisti. Tuttavia non ebbi mai modo di conoscerlo, né di parlargli. Non so quali testi gli erano stati assegnati, ma di certo non erano quelli riguardanti Greci, Romani e le altre popolazioni dell'epoca, argomenti di studio mio e dei sei colleghi con cui lavoravo. Già questo era sufficiente per azzerare i contatti: diverso il campo di studio, diverso il settore che si frequenta, diverse le persone con cui interagisci.

 

Se avessi saputo in anticipo le sue intenzioni, avrei sicuramente cercato di parlargli almeno una volta. Probabilmente in molti quella mattina, colleghi o meno che fossero, avrebbero voluto fare lo stesso, per evitare che accadesse quanto effettivamente successo. Io mi sarei accontentato di capirlo un po' meglio.

 

Per quanto perfetta, nella nostra società non mancano elementi di disordine. Abbiamo i peccaminosi di fumo, alcool o droga, i cosiddetti "distruttori del potenziale". Abbiamo i disertori del lavoro. Per loro è sufficiente una strigliata da parte delle forze dell'ordine o un periodo di recupero in strutture dedicate per rimetterli in riga e reintegrali, ma il crimine di Thompson era stato troppo grave.

Condanna a morte. Quando era stata l'ultima volta che era stata utilizzata tale pena? Nemmeno gli anziani più longevi, vissuti per oltre 200 anni, erano in grado di rispondere. Per questo la gente che accorse alla sua esecuzione fu così numerosa: era un evento unico, che sarebbe passato alla storia.

 

La piazza era gremita da centinaia, forse migliaia di persone, di sesso, età ed etnia delle più svariate. Io, in quanto membro dell'università , ebbi il privilegio di poter assistere dall'alto di una delle balconate aggettanti sulla piazza, evitando la ressa. Il tutto si sarebbe svolto sopra un enorme palco, montato durante la notte sulla gradinata del rettorato insieme ad un'infinita quantità  di telecamere, che avrebbero garantito la diretta nazionale per chi era rimasto a casa.
Thompson, l'attrazione principale, era esposto al grande pubblico su un grosso marchingegno a forma di ruota, sulla quale era stato issato un paio di ore prima. Escluso l'ingegnere progettista e il boia, nessuno sapeva come funzionasse, né come sarebbe avvenuta l'esecuzione della pena capitale, dato che il giudice si era riservato il diritto di decidere la modalità in separata sede, senza rivelarlo pubblicamente. Tuttavia era impossibile non fare il paragone con l'Uomo Vitruviano di Leonardo, dato il modo in cui il giovane era stato legato, bloccandone braccia, gambe, torso e testa ai raggi di quella complessa e misteriosa ruota.
Thompson aveva l'aria esausta, ma sembrava che la posizione rigida nella quale era costretto e i lacci che lo tenevano appeso gli impedissero anche di svenire dal dolore. Doveva essere già morto da un paio di ore, ma era richiesta la presenza di tutti i ministri a capo del governo nazionale per procedere, compreso quello per l'agricoltura e l'allevamento, ancora assente. Arrivò due ore dopo l'orario previsto, facendosi largo a fatica tra la folla per raggiungere il palco. Una volta salito, si scusò con tutti i presenti, giustificandosi che era stato trattenuto fuori città  per un comizio molto importante, e prese poi posto accanto ai suoi colleghi. A quel punto, il ministro di giustizia fece cenno di procedere con l'esecuzione.

 

Come primo atto ufficiale fu richiesto il silenzio generale. Quando tutti tacquero, il banditore, scelto a caso fra gli alti gradi della polizia di stato, si fece avanti e iniziò a parlare al microfono. Partì con un lungo elogio della patria, della società  e dei ministri lì presenti, così come richiesto in occasione delle manifestazioni pubbliche. Poi passò alla presentazione del condannato.

- Mark Thompson - disse, alzando la testa per guardarlo - di anni 19, nato il 10 ottobre nell'anno 10 del Quinto Millennio in quel di York Terza. Sei stato sottoposto a regolare processo presso il Tribunale Nazionale. Il crimine che ti è stato imputato è l'omicidio di Duncan Blackwool, ministro dell'istruzione e della cultura, la cui morte è avvenuta il giorno 3 febbraio scorso. - Si rivolse poi al pubblico della piazza - Il Ministro, giunto per una visita ufficiale presso l'Università di Storia di York Terza, è stato vittima di un attentato in pieno giorno e in presenza di una dozzina di testimoni, che hanno visto Thompson colpire il ministro con una pugnalata dritta al cuore. Il ministro è spirato pochi minuti dopo l'atroce atto, nonostante i tentativi dei soccorritori, giungi tempestivamente sul posto, che volevano ovviamente evitare il decesso. - Un lieve brusio di levò tra i presenti, ma l'ufficiale continuò - Data l'evidente colpevolezza dell'imputato e la gravità dell'atto, al quale si aggiungono le aggravanti di terrorismo e sovversione politica, il giudice si è visto costretto a condannare l'imputato a morte. Tale scelta, che non vede precedenti nella nostra società , sempre perfetta e da sempre benevola nei confronti dei cittadini che hanno errato, è stata giustificata dalla pericolosità del soggetto stesso. Come il giudice stesso ha spiegato, non è in alcun modo possibile garantire che attraverso la rieducazione egli possa reintegrarsi nuovamente nella nostra società . Il condannato, infatti, costituisce una minaccia troppo grande per la sicurezza dei cittadini, pertanto l'unica possibile soluzione è l'eliminazione del pericolo alla radice. L'esecuzione della pena avverrà ora, 11 febbraio dell'anno 29 del Quinto Millennio, in presenza di tutti i ministri del nostro Paese, nello stesso luogo in cui Mark Thompson ha brutalmente assassinato la sua vittima...

 

Il discorso era lungi dall'essere completo, ma l'ufficiale fu costretto ad interrompersi. Thompson, che fino a poco prima sembrava troppo debole per una qualunque reazione, aveva improvvisamente cominciato a ridere. Prima piano, poi sempre più forte, fino a coprire la voce amplificata dal microfono. Pensai subito ad una crisi nervosa.

- Ma sì! - urlò Thompson, ancora ridendo - Uccidetemi pure! Non ho alcuna intenzione di vivere in una società  dove non mi lascia la libertà  di agire secondo i miei desideri!
Continuò a ridere. Era una risata folle e spaventosa. Andò avanti per parecchio, al punto da perdere completamente il fiato, momento in cui la risata si trasformò in una tosse sofferente.
- Società  perfetta? - riprese, con un filo di voce, ma il silenzio che si era creato era tale che fu comunque possibile udirlo. - Come può essere perfetta una società che vede i suoi membri soltanto come strumenti per la realizzazione di un lavoro? Dicono che lo fanno per sfruttare al meglio il nostro potenziale. - rise di nuovo, ma stavolta era una risata amara - Incredibile come siano riusciti a farcelo credere per tutti questi anni.

La folla ricominciò a vociare. I ministri sbiancarono. Thompson continuò a parlare.

- Ci hanno insegnato per anni che il potere di un uomo sta nel suo potenziale, che la forza di un individuo sta nell'essere in grado di compiere un certo lavoro meglio di altri. Il ragionamento è corretto, non lo metto in dubbio... ma allora com'è possibile che nel passato siano esistiti uomini che, nonostante sembrassero incapaci in quel campo, sono comunque riusciti a compiere grandi cose? Avrebbero dovuto fallire, giusto?
Il brusio tra la folla continuava. La maggioranza era confusa, ma c'era anche qualcuno che annuiva. I ministri iniziarono a guardarsi fra loro, sempre più inquieti.
- Beh, non fallirono perché erano spinti da un'altra forza. Una forza che rende l'uomo capace di superare il proprio potenziale!

 

Superare il proprio potenziale? Pura eresia, pensai. Eppure ne volevo sapere di più. In molti volevamo saperne di più.

- E quale sarebbe questa forza? - chiese, gridando, un uomo in mezzo alla folla.

Thompson ricominciò a ridere, ma non come prima. Sembrava... felice.

 

- È la volontà, mio amico! La volontà! Il desiderio di eccellere in qualcosa perché si desidera farlo, e non perché è ciò che gli è stato detto di fare! -  rise ancora - Guardatemi! I medici mi hanno diagnosticato un disturbo che mi avrebbe impedito di relazionarmi normalmente con le persone, eppure adesso sto parlando con tutti voi! Nessuno mi ha detto di farlo, ma ho voluto farlo, superando il limite legato a questo mio impedimento genetico. Ecco il potere della volontà!

 

La sua risata, intanto, continuava. Ma non appena pensai che sarebbe durata in eterno, ecco che iniziò a scemare, e con essa la felicità di Thompson. Più la risata diminuiva, più lui si rabbuiava. - Voi però non potrete mai provare quello che ho provato adesso, questo senso di libertà  che ho tanto desiderato e che ho finalmente trovato, nonostante io sia prigioniero quassù, su questo abominio di titanio e metallo. - Alzò la voce - Non potrete mai provarla, se non vi ribellate a questa società! Non è perfetta! È malata! Malata dei propri interessi! Una società che stabilisce il nostro futuro non appena veniamo al mondo, quando il nostro unico pensiero è quello di rientrare nel caldo e accogliente ventre materno!

Riprese a urlare: - Perché farlo immediatamente? Perché non aspettare che diventiamo grandi abbastanza per intendere quello che sta accadendo? Semplice: perché altrimenti saremmo in grado di contrastare la loro decisione. E così facendo nessuno si accorge che la scelta è stata dettata non tanto dal nostro potenziale, ma dalle necessità di sopravvivenza della società. La storia del potenziale è la balla più grossa dei nostri tempi! Non pensano a noi quando ci assegnano ad un lavoro che ci terrà schiavi per il resto dei nostri giorni, ma alla società stessa, perché non crolli. La nostra non è una società perfetta. Anzi, è la peggiore che sia stata creata da quando esiste l'uomo! Dovrebbe pensare al bene dei suoi membri, ma pensa solo al mantenimento di se stessa!

 

- Ma quei tempi sono finiti. Una settimana fa ho ucciso uno dei suoi vassalli, dopo di me arriveranno gli altri ad uccidere i rimanenti. La nostra società crollerà e ne sorgerà una nuova. Forse non sarà eterna, anzi: sicuramente ne verrà  soppiantata da un'altra, in futuro, perché è così che vuole la Storia. Ma sarà  più gusta, perché sarà  la libertà d'azione a funzionare da base.
Mai più schiavi del potenziale! Solo discepoli della volontà, il vero potere dell'uomo! Il potere che questa società  ha represso in ognuno di noi, per tutto questo tempo. Uomini! Da oggi inizia una nuova epoca! È il ritorno della volontà! L'antico potere si è risvegliato, dopo millenni, ed ora è pronto a scatenare la sua furia!

 

La folla pendeva dalle labbra di Thompson. Erano rapiti dalle sue parole e dalle sue promesse. La società che descriveva, che lasciava totale libertà d'azione, spaventava e allo stesso tempo affascinava molti. Anche le telecamere erano rivolte a lui, soltanto a lui, e nessuna di essa registrò il movimento improvviso del ministro di giustizia che, abbandonato il proprio posto, era corso verso il boia, scansandolo e attivando lui stesso la macchina d'esecuzione.

La ruota si aprì, trascinando con sé gli arti e la testa di Thompson, che si staccarono dal torso in una pioggia di carne e sangue. La folla iniziò ad urlare per l'orrore. Le prime file si ritrassero, chi per sottrarsi alla vista, chi per evitare di insudiciarsi i vestiti. Sul palco, il ministro dell'agricoltura e dell'allevamento diede le spalle alla piazza e vomitò. La diretta televisiva fu interrotta immediatamente, ma comunque troppo tardi.

 

L'unico a non provare nulla fu proprio Thompson. Probabilmente non ebbe nemmeno il tempo materiale per rendersi conto di essere morto. La sua testa, come i resti smembrati del suo corpo, rimase appesa alla ruota, ora divisa in cinque spicchi. Troneggiava sopra i presenti, quasi dovesse essere adorata come la reliquia di un santo. Ma gli occhi avevano assunto una sguardo consapevole, mentre la bocca era semiaperta in una misto di soddisfazione e vittoria.

Non aveva avuto il tempo di reagire, ma aveva capito di esser riuscito nello scopo: mettere in dubbio la tanto odiata società, prima che il governo potesse zittirlo.

 

Sono passati sei mesi dall'esecuzione. Due giorni fa è morto un altro ministro. Un colpo di cecchino alla testa. Nessun testimone. Stavolta il governo non ha nessun ribelle da giustiziare, nel vano tentativo di sedare la rivolta.

E nemmeno lo avranno quando cadrà il prossimo ministro.

Voglio vivere tutti i miei 102 anni e vedere la nuova società  sorgere.

La chiacchierata con Thompson può aspettare.

 

 

 

 

 

 

 

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Nuovo giorno, nuovo repost. Non uno dei miei testi migliori to be honest, ma here - take it.
 

Data: 02/12/2015
Contest: Fantasy Life Contest
Titolo: Ora devo sfogarmi

Elaborato:

 

Spoiler

 

Buonasera.
O buongiorno. O quello che è.
A chi importa? Tanto spazio e tempo sono relativi. E io ho attraversato entrambi già  un paio di volte.

Uhm? Cos'è quella faccia? Sì, sono proprio io. E sì, sto parlando. Incredibile, eh?
No! Non è affatto incredibile! Sono nato mancino, mica muto! 
Certo che so parlare! È che finora ero stato in grado di essere chiaro senza aver bisogno del linguaggio verbale.
Ma oggi devo usarlo perché nessun altro mezzo di comunicazione è stato in grado di porre rimedio a questo problema, in tutti questi anni.
Cosa c'è adesso? Non avete mai visto qualcuno arrabbiato?
Oh! Non avete mai visto me arrabbiato. Capisco
, capisco...
Beh. Immagino che, di tutte le mie versioni, io sia quella che è uscita fuori con meno calma e pazienza di tutti.
Si, lo so, è piuttosto complicato da metabolizzare. Ogni volta che mi incontrate sono io, ma ogni volta cambio in aspetto ed età , quindi in realtà  non sono effettivamente io. Vi ho già  detto che spazio e tempo sono relativi, si? E che esistono diverse dimensioni spazio-temporali?
No, per favore, non chiedetemi i dettagli. Fra i tanti "me" a me noti non c'è un astrofisico che possa spiegarvi come funzionino le cose. So solo che basta poco per stravolgere due dimensioni apparentemente uguali.
Riesco a sconfiggere il malvagio di turno in un certo regno? Ottimo lavoro! Ti sei meritato la riconoscenza di tutti e forse un bacio dalla principessa. Urrà!
Il malvagio ha la meglio? Addio terra fatta di sogni e felicità e benvenuto post-apocalisse fatto di ossa e spiriti vaganti.
Che poi: cambiano tempi, luoghi, persone e situazioni... ma sono sempre io l'unico imbecille dotato di spada e scudo che può fare qualcosa? Possibile che non esista una - e ripeto - una dimensione in cui ci sono io e qualcun altro che vuole gli onori e oneri di salvare il proprio mondo?
Una volta ero riuscito a trovarmi un lavoro diverso dal paladino ammazza-mostri... ero apprendista nella bottega di un fabbro. Un rompiscatole che passava più il tempo a sgridarmi che a lavorare, ma ehi! - la paga non era male e potevo pure dormire fino all'ora che preferivo.
Uhm. Ora che ci penso, nessuno mi vieta di aprire un'attività  tutta mia. Dovrei ancora ricordare come si lavora il ferro nella fucina senza bruciarmi la veste...
Ma non divaghiamo! Ero convinto di averla sfangata, e invece no! Appare il cattivo che vuole diventare il cattivo più cattivo mai esistito e io, solo perché stavo consegnando una spada ad un cliente, divento di colpo il salvatore della patria. Di nuovo. Che diamine! Non era nemmeno mia quella spada!!
Pensate che sia finita qui? Certo che no! Sapete che è successo nel frattempo che io cercavo di capire cosa diamine dovessi fare?
MI HANNO OCCUPATO CASA!! Cioè... vi rendete conto?!??

 

*sigh*

 

Ma sapete una cosa? In realtà non è questo a imbestialirmi.
Non ho problemi a continuare con questi viaggi assurdi, fatti per trovare cose o persone per i motivi più disparati. Non ho problemi ad affrontare ulteriori mostri in scontri nei quali rischio sempre di rimetterci le penne, tanta è la loro voglia di appendermi al muro come trofeo di caccia.
Lo faccio da quasi trent'anni e potrei farlo ancora per altrettanti. Davvero.
Quello che mi fa arrabbiare così tanto è tutt'altro.

Per voi sarà  una sciocchezza, una distrazione di poco conto fatta da chi non se ne intende di queste cose... ma per me è di fondamentale importanza.
Un eroe non può sentirsi veramente eroe se il suo nome non viene ricordato nella maniera corretta.
Per cui... vi prego... vi supplico in ginocchio... per il bene della mia salute e del mio ego...

...potreste smetterla di chiamarmi Zelda?

 

 

 

 

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Messaggi doppi! Yay!

Oh beh. Vorrà dire che lo riediterò più tardi con la terza storia. :looksi:

EDIT: As I said, terzo repost. Purtroppo, visti i leak usciti nel frattempo, questo testo è ben lontano da quello che la Capcom ha in mente per il sesto capitolo della serie...
 

Data: 11/02/2015
Contest: Millennium Games
Titolo: P.W. Sequel
[titolo creato ora, ndT]

Elaborato:
ATTENZIONE! SPOILERS!

 

Spoiler

 

Data: ???
Luogo: ???

 

...quanto ancora?
Per quanto ancora dovrò stare qui?
Buio. Intorno a me nient'altro che buio.
Quanto ancora dovrò aspettare? Per quanto ancora… perché qualcosa accada?
Basta. Sono esausto. Lasciatemi andare via...
Che senso ha rimanere qui?
- ...nix...
Qual è il mio scopo ora? Questo è il nulla. Perché sono qui?
Fatemi tornare indietro… o fatemi andare avanti, non ha più importanza.
Ma ve ne prego: va bene tutto, ma non riesco più a stare qui.
- ...enix...
Per quanto ancora... questa è un'agonia.
Non posso fare niente. Non succede niente.
Non ce la faccio più. Sto diventando pazzo.
Basta. Portatemi via. Lasciatemi andare, vi prego.
- ...enix... right...
...uh? Una voce...? Qui? Ma qui non c'è nessuno. Sono solo io e le tenebre...
- Phoenix Wright...
- Chi c'è!? Chi mi chiama?
No, non posso essermelo immaginato.
Che sia finalmente giunta l'ora? Che sia finalmente venuto il momento... per andare avanti?
- Ascoltami, Phoenix Wright...
Questa voce... io conosco questa voce... ma come...?
- ...Mia?
- Non arrenderti, Phoenix. Non è ancora giunto il momento. Hanno ancora bisogno di te...

 

22 maggio, ore 0:23
Clinica Hickfield

 

Uff! Che stanchezza... ma non me la sento di andar via.
- Ancora di guardia, Apollo?
- Uh? Athena? Cosa fai qui? Domani devi essere in tribunale. Dovresti riposare...
- Lo sai che prima di un'udienza non riesco mai a dormire. E comunque lo stesso discorso vale per te.
- ...
- Non verrai nemmeno stavolta, vero?
- Perdonami Athena, ma io...
- Non c'è bisogno che ti scusi. So bene quanto è importante per te quest'indagine.
- ...
- Ma ti confesso che non mi dispiacerebbe avere un po' di compagnia al banco della difesa. Non hai idea di quanti brutti ceffi ho dovuto affrontare, nelle ultime settimane. Avere un cavaliere su cui contare in caso di pericolo non sarebbe male.
- Come se tu avessi bisogno di me per proteggerti dai malintenzionati. Dovrebbero essere piuttosto i prosecutori ad assoldarmi, onde evitare la tua furia...
- Aaah, non farmici pensare. Ancora non mi capacito di come Payne abbia ancora la licenza per presentarsi in aula! Quel viscido...
- Ecco, vedi? Non hai assolutamente bisogno di me per difenderti in aula.
- Uhm... forse non hai tutti i torti. In fondo, è quello che facciamo. Difendere gli altri, difendere noi stessi... stessa cosa, no?
- Eh già . Ah ah ah...
- Ah ah...
- ...
- ...vai a casa, Apollo. Resto io qui con il capo.
- Ne sei sicura?
- Sicurissima. Almeno fallo per Trucy. Non credo che stia molto comoda, raggomitolata com'è su quelle sedie. Potrebbe venirle la gobba.
- Urgh. Non hai tutti i torti. Ma lo sai com'è fatta.
- So quanto è affezionata a suo padre, ma anche lei ha diritto a del buon riposo. Su un materasso, possibilmente.
- E tu?
- Si vede che sei proprio stanco. Te l'ho già detto: prima di un'udienza non riposo mai. E poi ho bisogno di riordinare un po' di idee, prima di entrare in aula... chissà, stare un po' da sola col capo mi aiuterà a chiarire i dubbi che mi sono rimasti.
- ...grazie, Athena. Stai attenta a non esagerare, okay?
- Non preoccuparti per me. Abbi cura di lei, piuttosto.
E detto questo, presi Trucy fra le mie braccia e mi avviai all'uscita.

 

- Uff! Quanto pesa... Ehi, Trucy: che ne dici di un po' di dieta? Come faccio io a portarti a casa tutte le sere se continui ad ingrassare? Pensa anche alla mia, di schiena.
...nessuna risposta.
Sospirai.
Cosa diamine era andato storto?
Dopo che Blackquill e Athena erano stati scagionati per i fatti dello Space Center, il ritorno dell'età dell'oro sembrava così vicina. Alla Wright Anything Agency non mancavano mai i clienti, ma - cosa ancor più importante - la fiducia che la popolazione aveva nei confronti del sistema penale stava aumentando, sebbene con una velocità  analoga ai lavori di ristrutturazione dell'aula 4, completati a quasi un anno di distanza dall'esplosione.
Ma poi...
- ...la dea bendata non era dalla tua parte stavolta, vero Phoenix?
Quando pensi che tutto si sia risolto per il meglio, ecco una nuova sfida.
Quale minaccia sta incombendo, ora?
Chi mai avrebbe interesse ad impedire il ritorno della giustizia?
Che la fine di Phantom fosse solo l'inizio di qualcosa di più grande?
A che scopo mettere Phoenix Wright fuori dai piedi?
Siamo tutti in pericolo?
- Papà...
Guardai Trucy. Stava ancora dormendo, ma aveva un'espressione corrucciata in volto.
Un altro incubo?
- Non preoccuparti, Trucy. Troverò chi ha sparato a tuo padre... e farò in modo che sia fatta giustizia.

 

 

 

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Nuovo anno, vecchio racconto, nuovo repost.

 

Data: 22/05/2015
Contest: Il Romanzo
Titolo: Fallo per lui

Elaborato:

 

Spoiler

 

Anna rimase sdraiata sul letto dando le spalle al marito Alessandro. Lo sentiva procedere a tentoni nel buio della stanza, alla ricerca del pantalone azzurro che gli aveva comprato lo scorso compleanno. Aveva sempre avuto una vista pessima, e il fatto che la stanza fosse completamente al buio di certo non lo aiutava.

Riuscì nell’impresa dopo un paio di minuti, caratterizzati da scontri con il mobilio circostante ed imprecazioni sussurrate. Gli costava davvero così tanta fatica accendere il lume del comodino? Gli aveva già  fatto questa osservazione non sapeva quante volte, ma lui aveva sempre minimizzato il problema. Ormai si era stufata di ripeterglielo. Che si spacchi le dita dei piedi sugli spigoli, se è questo quello che desiderava.

Sentì il materasso piegarsi. Si era seduto per finire di vestirsi, incurante della sua presenza. Si infilò i calzoni, allacciò la cintura di pelle il più stretto possibile e poi si piegò per raccogliere calzini e scarpe, facendo muovere su e giù il letto. Calzino destro, poi il sinistro. Scarpa destra, poi la sinistra. Anna non aveva bisogno di guardare: era un abitudinario. Non c’era un motivo preciso per cui seguiva quell’ordine, lo faceva e basta.

Si alzò di nuovo dirigendosi verso l’armadio. Aprì l’anta, che scricchiolò rumorosamente. Le aveva promesso che ne avrebbe oliato i giunti, ma aveva sempre rimandato. Trafficò un po’ con i vestiti appesi, per poi estrarre la giacca abbinata al pantalone. La sfilò dalla gruccia e la indossò - di nuovo, prima braccio destro e poi il sinistro. Poi fu il turno della cravatta. Lì le cose si facevano facili: ne possedeva solo tre, erano tenute appese in un punto ben preciso ed erano tutte e tre perfettamente uguali, a tinta unita nera. Impossibile sbagliare. Prese quella che gli era più vicina e se la annodò al collo, sul momento. Non aveva nemmeno bisogno di guardarsi allo specchio: sapeva che il nodo sarebbe stato impeccabile.

A quel punto uscì dalla stanza. Cinque minuti dopo Anna sentì la porta d’ingresso chiudersi.

Andato.

Senza dire una parola.

Non un "Buona giornata". Non un "Ci vediamo stasera". Nemmeno un semplicissimo "Ciao".

Fallo per lui.

Ma in fondo nemmeno lei aveva detto niente. Anzi, aveva cercato di far finta di dormire, e suo marito, nonostante il tempo trascorso insieme, ancora cadeva nel tranello.

O forse non gli interessava più sapere se era sveglia o meno?

Sbadigliò. Doveva essere ancora dannatamente presto.

Girò la testa verso l’orologio appeso in fondo alla stanza.

Mancavano ancora venti minuti alle sei.

Poggiò di nuovo la testa sul cuscino e decise di concedersi almeno un’altra mezzora di sonno.

 

La campanella della ricreazione suonò. I suoi studenti nemmeno le diedero il tempo di proferire parola che erano già  spariti fuori dall’aula. Anzi, probabilmente erano già  arrivati al bar del piano inferiore ad ingozzarsi di merendine. Gli unici a non essersi mossi erano i due che aveva alla sua destra, uno in piedi che, impacciato, si sfregava nervosamente le mani in attesa di istruzioni, e l’altro intento a risolvere una disequazione di secondo grado alla lavagna, concentrato. Probabilmente non si era nemmeno accorto che era finita l’ora.

- Molinari. - disse Anna, e questi si risvegliò, smettendo di scrivere - Per oggi basta. Raggiungete pure i vostri compagni.

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Lanciò il gesso nell’apposito contenitore sotto la lavagna e corse dietro l’altro compagno, che era già  partito.

Si massaggiò le tempie. Tutto sommato non erano andati malissimo, ma avrebbe preferito avere a che fare con menti più brillanti.

Segnò rapida una risicata sufficienza per entrambi in rosso. Poi iniziò a riporre tutte le sue cose nella borsa. Penna. Registro. Un libro di testo. La calcolatrice. Finito di sgombrare la cattedra si alzò, borsa sotto il braccio, e uscì dall’aula. Il rumore dei tacchi echeggiò nella stanza completamente vuota. Chiuse la porta alle sue spalle.

Ogni piano della scuola era dotato di bagni destinati ai professori, e tutti quanti erano ugualmente malridotti. Una volta fatto quel che doveva fare, cercò di risistemare il trucco davanti allo specchio sopra il lavandino, nonostante la scarsa illuminazione concessa dalla plafoniera rendesse le cose non esattamente facili.

Un po’ di fard sugli zigomi e una passata di rossetto color carne. Niente di più. Il giusto per mantenere un look pulito e naturale. In realtà  avrebbe preferito non truccarsi affatto, ma con l’arrivo degli anta i primi segni del tempo e dello stress avevano inesorabilmente fatto la loro apparizione e Anna si era dovuta arrendere a questo stratagemma tipicamente femminile per nasconderli.

Infilò il rossetto nell’apposita taschina, chiuse la borsa e rimase qualche altro istante a ricontrollare il suo aspetto. Si: poteva andare. Premette entrambi le mani sui suoi capelli ricci color sabbia per diminuirne un po’ il volume e fece per andarsene.

Afferrò la maniglia e spinse verso l’esterno, e dal lamento che ne seguì capì subito di aver sbattuto la porta addosso a un collega.

- Oh cielo! - fece lei, mortificata, affrettandosi ad uscire. Voleva scusarsi, ma una volta appurato chi era il malcapitato il buon proposito andò a farsi benedire. - Diego.

L’uomo, che fino a quel momento era rimasto piegato su se stesso, si tirò su in tutto il suo metro e novata d’altezza, tenendo la mano destra sul fianco nel punto dove la maniglia l’aveva colpito. - No, ma non ti preoccupare, Anna. Non mi sono fatto niente...

La donna inarcò un sopracciglio e incrociò le braccia sul petto. - Che intenzioni avevi? - disse, dura.

- Cosa?

- Che volevi fare? Quello è il bagno delle donne.

L’uomo passò da un’espressione sofferente ad un sorriso da finto santarellino. - Ah. È il bagno delle donne? Devo essermi confuso. Sembrano tutti uguali.

Anna alzò ulteriormente le sopracciglia, scettica. Poi scosse la testa e fece per andarsene. Lui la trattenne afferrandola per un polso.

- Andiamo, non fare la corrucciata con me. Volevo solo farti uno scherzo.

- Certo. Uno scherzo.

- Non sto mentendo. Croce sul cuore.

Lei sospirò, arrendendosi. Diego notò che aveva smesso di opporre resistenza e ne approfittò subito. La cinse da dietro con entrambe le braccia e la strinse a sé, poggiando la testa sulla sua spalla. Anna lo lasciò fare, ma rimase impassibile. Non afferrò con le mani le sue braccia per stringersi ancor di più a lui. Non inclinò la testa per poggiarla sulla sua. Non ricambiò il bacio che lui le schioccò sulla guancia, visto che le labbra di lei non erano raggiungibili.

Rimasero così per un po’. Troppo secondo Anna. Troppo poco per Diego, che aveva sperato una qualche reazione da parte delle donna, ma che non vedendola arrivare decise di rinunciare. Allentò la presa e la lasciò andare. Solo a quel punto Anna si girò verso di lui.

Fu Diego il primo a guardare altrove, grattandosi il collo con la destra - Sigaretta? - propose infine, dopo attimi di imbarazzante silenzio.

Lei valutò la proposta per qualche secondo, poi accettò con un cenno del capo.

 

Anna era poggiata sulla balaustra della scala antincendio, osservando il non così magnifico panorama sulla strada urbana oltre la recinzione della scuola. A quell’ora non passava quasi mai nessuna macchina, né tantomeno dei pedoni. Se non fosse stato per gli schiamazzi dal cortile sul retro, dove gli studenti si riunivano per la ricreazione, avrebbe detto che in quel momento non c’era nessun’altro.

Teneva la Camel offertale da Diego fra l’indice e il medio, già  accesa. La fumava molto lentamente, prendendosi lunghe pause fra una boccata e l’altra. Probabilmente la stava consumando più il vento che lei stessa. Diego invece aveva finito la sua da poco, tanto che dalla cicca schiacciata ai suoi piedi ancora si alzava qualche filo di fumo. Osservava la donna da dietro, standosene con la schiena appoggiata al muro e tenendosi un po’ a distanza da lei.

- Non era così che mi aspettavo di passare questa mezzora.

Anna girò la testa nella sua direzione, sempre continuando a dargli le spalle. - Davvero? E come pensavi di passarla?

L’uomo non rispose. Non ce n’era bisogno.

Tornò a guardare in avanti, fissando un qualunque punto dell’orizzonte. Non importava quale. Si portò la sigaretta alle labbra. Nel mentre espirava, Diego le si affiancò, le mani in tasca e lo sguardo rivolto anche lui all’orizzonte, forse proprio in direzione del punto che stava guardando lei.

Il vento si alzò un poco, agitando le foglie degli alberi, i capelli di entrambi e la gonna del vestito verde militare di lei. Era tutto tranquillo. Tranne i loro cuori.

- Perché. - fece Diego all’improvviso, girandosi verso di lei. - Perché dobbiamo farci questo?

Lei si rimise in posizione eretta, senza però rispondere. Con la bocca produsse un’altra nuvola di fumo.

- Non abbiamo entrambi diritto ad un po’ di felicità ? - continuò. Lei chiuse gli occhi. - Anna: io ti amo. Puoi ripetermi quanto vuoi di trovarmi un’altra donna. Nessuna è bella come te. Nessuna può farmi provare quello che io provo per te.

- Diego...

- Io voglio te! - la interruppe - Solo te. Il resto non conta, se posso averti accanto. Ti prego, Anna. - la sua voce si incrinò - Non posso credere che questo sia un desiderio soltanto mio. - Aspettò qualche istante, sperando di ricevere una risposta che non arrivò. - Dannazione, almeno guardami!

La afferrò per le spalle facendola girare nella sua direzione. La forza che mise fu tale da farle volare via la sigaretta dalle dita, che atterrò ad una ventina di centimetri da loro. Nemmeno si era accorto di quello che aveva appena fatto, preso dall’ira.

Però aveva ottenuto quello che voleva: ora Anna lo stava guardando. Un uomo più giovane di lei, elegante ed estremamente curato, dalle scarpe di pelle lucidate alla punta dei capelli, neri e tagliati corti, che i raggi del sole facevano brillare. Un uomo i cui occhi azzurri, resi lucidi dalle lacrime che cercava in tutti i modi di trattenere, dimostravano che quanto aveva detto non era nient’altro che la verità . Occhi che trasmettevano amore ma anche disperazione. Anna si sentì profondamente a disagio a fissarli.

Diego finalmente si risvegliò. Si accorse con quale foga aveva strattonato la donna e subito la lasciò, indietreggiando di un passo. - Mi dispiace. - balbettò, spaventato da se stesso. - Non era mia intenzione.

Anna abbassò il viso, colpevole. - Non fa niente. - sussurrò.

Quello sguardo. Aveva già  visto quello sguardo innamorato.

Ce lo aveva Alessandro quando si erano conosciuti. Ogni volta che uscivano insieme. La notte in cui si baciarono per la prima volta, e tutte le volte seguenti. La notte in cui, sotto i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno, le aveva chiesto di sposarlo.

Era successo quasi quindici anni prima.

Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui aveva visto il lui quello sguardo?

Chiuse di nuovo gli occhi. Si immaginò di tornare in quel corridoio. Immaginò di girarsi fra le braccia di Diego e di ricambiare il suo abbraccio e il suo amore, baciandolo. Immaginò di andare lontano da lì, di esser in una baita innevata, isolati da tutto e da tutti, finalmente insieme e soli. Immaginò di poter vivere la passione che lui nutriva per lei e di poter finalmente liberare la passione che lei provava per lui. Al calore di un camino scoppiettante. Nel calore dei loro corpi.

Si ricordò il giorno in cui lui aveva confessato i suoi sentimenti la prima volta. Erano appena usciti dai consigli della classe che avevano in comune. Era già  buio e non c’era nessun’altro in giro.

Si ricordò la sorpresa e il tepore che aveva provato quando glielo disse.

Si ricordò di come si era immediatamente resa conto di ricambiare, di come avrebbe voluto averlo per sé già  allora.

Si ricordò perché preferì non confessarglielo.

Aprì gli occhi e scoprì che, inconsciamente, aveva preso a girarsi la fede nunziale fra l’indice e il pollice.

Fallo per lui.

Anna tornò a guardare Diego. Gli si avvicinò e gli accarezzò la guancia.

Non gli poté concedere altro.

Non fu necessario aggiungere altro.

Diego aveva già capito quando aveva sollevato lo sguardo. Un rifiuto. L’ennesimo. Il definitivo.

Ma guardò anche la tristezza negli occhi di lei, quegli occhi un po’ verdi e un po’ ambra di cui si era invaghito fin dal primo istante, e che nonostante quanto stava accadendo in quel momento sapeva bene che avrebbe amato ancora.

Anna provava il suo stesso sentimento, ma non l’avrebbe mai ricambiato.

Fu quella consapevolezza a provocargli la ferita maggiore.

- Non è giusto. - sussurrò, con voce rotta.

- Lo so. - rispose lei, allontanando la mano dal volto di lui.

Sollevò la borsa che aveva ai suoi piedi e la mise sotto il braccio, poi si avviò alla porta antincendio, che, al contrario di come doveva normalmente funzionare, poteva essere tranquillamente aperta dall’esterno.

Mentre questa si richiudeva, notò di sfuggita l’uomo accendersi un’altra sigaretta.

La campanella suonò in quel preciso istante. Non c’era più tempo per pensarci.

 

Anna e Stefano stavano parlando insieme del più e del meno. Il loro rapporto era sempre stato magnifico: lui era un fratello maggiore esemplare, mai dispettoso e sempre disponibile per la sua sorellina, e lei lo adorava per questo e non avrebbe fatta mai nulla che gli recasse fastidio. Tra loro passavano tre anni di differenza, ma era quasi come se fossero stati gemelli, tanto erano uniti.

Fu il rumore improvviso di piatti che si rompevano ad interromperli. Si girarono entrambi in direzione della porta, giusto in tempo per vedere la loro madre correre lungo il corridoio in direzione della camera da letto, in lacrime.

Stefano dalla sorpresa non riuscì a muoversi. Anna invece si alzò immediatamente per indagare, curiosa ma soprattutto preoccupata e spaventata.

I singhiozzi di sua madre erano diventati ancora più forti ora che si trovava sul corridoio, ma non andò da lei. Qualunque cosa fosse successa, qualunque fosse stata la cosa che l’aveva ridotta così, doveva per forza trovarsi nel luogo dal quale era fuggita via. Si mise a correre a sua volta, nella direzione opposta rispetto alla madre.

Si ritrovò nella sala da pranzo. I cocci erano sparsi alla rinfusa per terra, ma lei quasi non li notò. Notò invece le valigie piene di vestiti in fondo alla stanza, che in quel momento un uomo stava sollevando, dandogli la schiena. Questi sembrò invece non aver sentito il suo arrivo.

Anna si pietrificò sul posto. Capì immediatamente.

Una volta uscito, non l’avrebbe mai più rivisto.

Il cuore si fece pesante. La disperazione prese il sopravvento.

Urlò. Gli urlò di restare, di non lasciarli soli.

L’uomo si girò. Finalmente Anna lo poté vedere in volto.

Sgranò gli occhi.

Quell’uomo, che la guardava consapevole e colpevole, non era suo padre. Era suo marito.

 

Si svegliò di soprassalto. Non sapeva più dove si trovava. Si guardò attorno in preda all’angoscia.

Era sera ed era a casa sua, seduta al tavolo della cucina. Davanti a lei, sparsi, i compiti che i ragazzi avevano fatto all’ultima ora quella mattina.

Si era addormentata mentre stava correggendo. Era la prima volta che le capitava.

Sentì dell’umido sopra lo zigomo. Si portò una mano al volto e capì che durante l’incubo aveva pianto. E non era solo quello ad essere umido: anche alcuni fogli protocollo si erano bagnati, facendo colare parte dell’inchiostro.

Si alzò dalla sedia e recuperò dello Scottex per rimediare, tamponando le macchie. Rimasero comunque degli aloni grigiastri.

Cercò di non pensare a quello che aveva visto, ma non ci riuscì. Quegli anni erano stati orribili per lei.

Anche Stefano fu particolarmente colpito da quegli eventi, ma fu forte per entrambi e fece di tutto per poter aiutarla a superare la situazione. Il trauma rimase, ma alla fine si riprese. Anna gli fu sempre grato per la sua presenza e per tutto il sostegno che gli diede da allora in poi.

Se solo fosse stato lì in quel momento.

Le lacrime cominciarono a riaffiorare. Fece un profondo respiro. Buttò la carta usata nel secchione e si avviò all’armadietto dei medicinali per prendere i tranquillanti.

Era successo poco dopo il suo matrimonio. Un incidente. Cose che succedono nella vita di tutti i giorni. Una persona si distrae e colpisce un altro veicolo per sbaglio. Era capitato a tutti. Era capitato anche a lei. Ma suo fratello fu più sfortunato: era in moto e un camion non rispettò il rosso.

Ingoiò un’altra pillola, onde evitare che l’immagine di quel che aveva visto all’obitorio riaffiorasse.

La morte di suo fratello gli fece male tanto quanto la sparizione di suo padre.

Stefano. Suo padre.

Un giorno c’erano. Il giorno dopo no.

Non vedeva alcuna differenza.

Stava riponendo il flacone nell’armadietto quando sentì un rumore di chiavi alla porta d’ingresso e poi qualcuno entrare. Lanciò un’occhiata al suo orologio da polso. Le diciannove e un quarto. Era in anticipo.

Uscì dal bagno e trovò il marito che appoggiava il cappotto sull’apposito attaccapanni all’ingresso.

- Ben tornato. - fece lei, cercando di sorridere. Lui sobbalzò. Non l’aveva sentita arrivare.

- Grazie. - borbottò infine, mentre la superava di lato e si dirigeva verso la loro camera da letto.

Anna cercò di ignorare la sua freddezza e tornò in cucina. Doveva sgomberare il tavolo o non avrebbero cenato.

Alessandro fece la sua apparizione una decina di minuti dopo. Si era tolto scarpe, giacca e cravatta, ma per il resto indossava ancora gli abiti della mattina. Si buttò di peso sulla sedia a capotavola, con un lamento che dimostrava tutta la sua stanchezza.

- Non ti cambi? - chiese Anna, che era indaffarata sul lavello a sciacquare della lattuga.

- Non serve. - rispose lui apatico.

- Non hai paura di macchiarti?

- Tanto poi metto tutto in lavatrice.

- Guarda che il sugo non si leva così facilmente.

- Vorrà dire che se mi comprerò un’altra camicia.

- Non sarebbe più semplice se mettessi degli abiti da casa?

Suo marito non rispose. Appoggiò i gomiti sul tavolo e si portò le mani sul viso, esasperato. Anna chiuse il rubinetto e lasciò la lattuga nel lavello, per poi asciugarsi le mani sul grembiule che indossava. Abbassò un poco il fuoco sotto la pentola d’acqua che aveva messo a scaldare poco prima e si girò a guardarlo.

Il tempo aveva avuto i suoi effetti anche su di lui. La folta chioma bruna che aveva quando si erano conosciuti aveva lasciato spazio a capelli brizzolati e ad un principio di stempiatura. Era sempre stato estremamente magro, ma il mancato esercizio fisico e le troppe ore passate in ufficio davanti al computer lo avevano reso ipotonico. Anche sul suo viso erano apparse le prime rughe, mentre le lenti degli occhiali diventavano ogni anno sempre più spesse e la montatura sempre più grande.

Eppure continuava ad essere un bell’uomo. Anna ne conosceva anche la mente acuta e la grande cultura. Ne aveva imparato ad apprezzare tutte le manie e continuava a provare un profondo affetto nei suoi confronti.

Ma appunto, affetto. Non amore.

Quello era morto insieme a Stefano.

La depressione distrugge una persona e tutto ciò che lo circonda. Alessandro tentò di rimanerle vicina, ma lui stesso era una persona fragile. Tentò prima di farle tornare il sorriso, poi semplicemente di farla andare avanti. Il tempo non portò miglioramenti, e lui arrivò al punto di non essere più in grado di guardarla. Non vedeva più la ragazza vitale che aveva conosciuto, la ragazza che pensava fosse sempre stata. Non ci riusciva. Così iniziò a distrarsi, ma non passo molto prima del passo definitivo.

Smise del tutto di amarla.

Anna non poté mai biasimarlo, né odiarlo per quanto accaduto. Non era colpa sua. Non era colpa di nessuno. Semplicemente, la vita a volte era ingiusta.

Alessandro spostò le mani dal viso e fece un profondo respiro.

- Anna. Dobbiamo parlare.

La donna girò intorno al tavolo per averlo di fronte a lei. Camminò lentamente, soppesando con cura i passi e senza staccare gli occhi dal marito.

In realtà già sapeva cosa voleva dirgli.

La depressione non la rendeva lucida, ma non la rendeva nemmeno cieca. I primi tempi tentarono di far sopravvivere il loro rapporto almeno dal punto di vista fisico, ma la puzza di alcool e di fumo che si portava dietro ogni volta che rientrava a casa alle tre di notte "per problemi a lavoro" non lasciavano alcun dubbio sulle sue frequentazioni. In seguito, forse perché schifato dal suo stesso comportamento, si limitò a parlare con lei, mentre i suoi istinti venivano soddisfatti nei bordelli.

Ma negli ultimi mesi era successo qualcosa.

Gli era tornato lo sguardo.

Se ne accorse una sera, quando lo accompagnò ad un party organizzato dalla compagnia in cui lavorava.

Lei si chiamava Erika. Si era trasferita lo scorso anno e le sue conoscenze nel campo della robotica l’avevano resa l’assistente ideale per Alessandro. Ci mise un po’ per convincerlo a farsela presentare e non le fu difficile capire il perché: non appena le due si strinsero la mano, la ragazza assunse un’espressione di colpevolezza che spiegò tutta la faccenda ad Anna. Ne seguì una conversazione di abbondanti dieci minuti, durante i quali capì come mai il marito si fosse innamorato fino a quel punto per lei.

Fallo per lui.

Alessandro stava con le braccia conserte sul tavolo e il volto rivolto a terra, quasi stesse studiando i suoi calzini grigi. Stava cercando di prendere coraggio. Evidentemente aveva paura di ferire troppo sua moglie. Anna capì, e rimase in silenzio, aspettando che fosse lui a parlare.

In realtà, lei non aveva granché da dire.

In realtà, qualunque cosa gli avesse detto il marito, non si sarebbe sentita ferita.

Sarebbe stata lei a ferire lui.

Alla fine l’uomo alzò la testa. Aveva assunto un’espressione decisa ed era finalmente pronto ad affrontarla.

In quel preciso istante la porta d’ingresso si aprì e richiuse con gran fracasso.

- Sono tornato! - gridò il nuovo arrivato. Nel giro di un minuto un tredicenne anni dalla chioma bruna particolarmente disordinata fece la sua apparizione in cucina.

Anna sorrise in maniera materna. - Ben tornato Paolo. - gli disse, allargando le braccia. Il figlio andò subito ad abbracciarla. Lei gli stampò un bacio sulla fronte. - Allora. Come sono andati gli allenamenti stasera?

- Benissimo! - rispose lui, allontanandosi da lei. - Il mister ci ha anche lasciato gli ultimi venti minuti per organizzare una partitella fra di noi. Sono riuscito a segnare tre reti!

- Tre reti? Wow! Ma è un risultato eccezionale! Potresti davvero diventare un calciatore professionista da grande.

- Nah. - Paolo scosse la testa con energia - Il calcio mi piace, ma non mi ci vedo a fare il calciatore da grande.

- Davvero? - fece Anna, fingendo stupore. In realtà  già  sapeva la risposta alla domanda. - E allora cosa farai?

Paolo fece un ampio sorriso. - L’ingegnere! Voglio essere utile alla mia città  e farla più bella! Progettare nuove strade, ponti… gli ingegneri sono molto importanti!

Anna rise. - Sono sicura che diventerai un importantissimo e famosissimo ingegnere. Ma adesso vai a cambiarti: fra venti minuti si mangia.

- Evviva! - Paolo si entusiasmava davvero con niente. - Sto proprio morendo di fame! Che c’è di buono?

- Uhm... - fece lei pensierosa - Che ne dici di un po’ di farfalle al sugo?

- Farfalle al sugo? Le mie preferite! Grazie mamma.

Detto questo, si mise sulle punte e le diede un bacio sulla guancia, per poi scappare via in direzione della sua camera.

Anna sorrise. Un angelo. Suo figlio era un vero angelo.

E la cosa più bella era il suo essere sempre sereno.

Serenità. Questa era la cosa più importante.

Il sorriso le morì immediatamente. Tornò a guardare il marito nascondendo ogni emozione.

Si fissarono l’un l’altro, in assoluto silenzio. Fu Anna a interrompere il contatto visivo, andando verso i fornelli.

Alessandro capì al volo.

Non aveva bisogno di dire niente a riguardo di Erika. Il discorso era stato già chiuso.

Sospirò affranto e si alzò dalla sedia per tornare in camera. Avrebbe indossato gli abiti da casa come gli era stato suggerito.

- Alessandro.

Anna lo chiamò che era arrivato sull’uscio della cucina. Si voltò indietro, speranzoso.

Sua moglie fece altrettanto. Per un attimo, girandosi, vide Alessandro nelle sembianze di suo padre.

Rimase totalmente impassibile, ma dentro si dispiacque di dovergli dare quest’altro dolore.

La vita era ingiusta.

Se la situazione fosse stata diversa, l’avrebbe lasciato andare molti anni prima, libero di rifarsi una vita con una donna che potesse amarlo e apprezzarlo come una volta faceva lei.

Ma non poteva dargli questa libertà.

Non per la sua serenità.

- Fallo per lui, Alessandro. Fallo per lui.

 

 

 

 

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