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[Sapphire] Quotidianità


Sapphire

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Le strade della città puzzavano di gas di scarico e spazzatura. Il tanfo proveniva perlopiù dai rifiuti abbandonati ai lati del marciapiede.

Anche se erano solo le sei del mattino, l’aria era già pregna di quegli odori disgustosi, ma la ragazza si costringeva lo stesso a fare jogging. Come ogni mattina, del resto.

Si era alzata alle cinque e mezzo, aveva indossato la vecchia tuta da ginnastica rattoppata che aveva da anni ed era uscita con ancora la fetta di pane più o meno tostata in bocca.

Una volta in strada, si era infilata gli auricolari nelle orecchie e aveva iniziato a correre.

Kurt Cobain cantava a squarciagola nelle sue orecchie, con quella voce roca che tanto adorava. Morto suicida. Quello si diceva di lui.

Ma non le importava, tutto quello che voleva era perdersi in quella musica, che ascoltava notte e giorno. Viveva da sola in un piccolo appartamento. Non era il massimo della vita, ma le piaceva. Il salotto, che le faceva anche da camera e da cucina, era interamente tappezzato di suoi schizzi e bozzetti per disegni, poster di cantanti e serie tv, post it. Il vecchio computer invece era perennemente acceso e appoggiato sul tavolo da pranzo che le fungeva anche da scrivania in mezzo a pile di libri e quaderni di scuola. Una vita monotona la sua, ma le andava bene così.

Un anno ancora di lezioni, poi sarebbe stata libera. Non aveva alcuna intenzione di andare all’università, quegli anni stressanti le erano bastati. Gente che la additava, che la trattava come una schiavetta per i loro bisogni, che la considerava una sorta di aliena perché viveva da sola e non partecipava ai droga-party che i suoi compagni organizzavano. Perché avrebbe dovuto rovinarsi anche il resto della sua vita?

Ad un certo punto si accorse di essere arrivata nei quartieri poveri della città. Anche se erano sotto Natale, l’aria che si respirava lì era tutto fuorché festosa.

Vecchie insegne storte o rotte, negozi con vetrine sfondate e poi sbarrate con assi di legno, strade ancor più sporche di quelle intorno a casa sua.

Si fermò, spegnendo il vecchio mp3. Non c’era quasi nessuno in giro a parte due senzatetto profondamente addormentati. Erano una coppia, un uomo e una donna, avvolti in una vecchia coperta a fantasia scozzese.

Torna indietro” si disse.

Si voltò e riprese a correre, questa volta nella direzione contraria, diretta a casa. Il solito giro mattutino era finito.

Man mano che si allontanava dal quartiere ricominciavano a comparire le luminarie natalizie, che brillavano nel cielo ancora buio. Amava quella stagione. Non per le luminarie o le decorazioni –odiava il Natale- ma più per il buio, che durava un sacco. Il piacere di poter dormire avvolta nelle coperte e di potersi preparare un tè caldo alla mattina, di indossare le sue amate felpe, di calzare i suoi vecchi anfibi e di calcarsi il berretto da neve sulla testa. Era la stagione in cui poteva tenere i lunghi capelli neri sciolti senza morire di caldo.

Guardò il vecchio telefono a conchiglia per controllare l’ora: 6.27. Lo rimise nella tasca del piumino nero. Ci mancava anche che perdesse l’unico cellulare che avesse mai avuto.

Ormai aveva smesso di correre, camminava semplicemente, mani in tasca. E, per una volta, musica spenta.

Il marciapiede era già affollato di uomini e donne in giacca e cravatta che si preparavano ad affrontare le ultime giornate di lavoro prima di Natale, quando sarebbero tornati a casa dai loro bambini per mangiare panettone e scambiarsi i regali. Sempre che non fossero come lei.

Era da anni che non partecipava a un pranzo natalizio, che non riceveva o donava un regalo per quella festa. Forse l’ultima volta lo aveva fatto in quinta elementare o in prima media.

No, era in quinta. Qualche mese dopo, la madre si era ammalata di tumore ed era morta in poco tempo, se lo ricordava bene. Era stato allora che la sua famiglia aveva smesso di essere normale.

Il padre aveva iniziato a bere, e lei aveva cercato dei lavoretti part time. Così, appena aveva compiuto diciott’anni, era andata via. Via da quell’uomo, o meglio, dal fantasma dell’uomo che era un tempo.

Ora la sua vita era il mazzo di chiavi che stava usando per aprire la porta di casa: perso quello, avrebbe salutato la sua vita nel vecchio appartamento al terzo piano di un palazzo grigio senza ascensore.

Entrò e poggiò le chiavi accanto al pc, sul tavolo, quindi si sfilò il piumino e lo lanciò sul divano in mezzo alla catasta di vestiti che già lo ricopriva.

Si tolse le scarpe da tennis consumate e iniziò a rovistare tra i vestiti in cerca di qualcosa da mettersi. La tuta andava bene per fare jogging, ma di sicuro non per stare in casa. L’aveva presa quando era ancora in prima superiore, ma dato che non era mai cresciuta di un centimetro da allora aveva deciso di tenerla.

Dopo un po’ che scavava tirò fuori una felpa con su la stampa consumata di Darth Vader e dei pantaloni neri e pieni di toppe e li indossò, per poi andarsi a sedere davanti al pc. La pagina del foglio elettronico era ancora aperta dalla sera prima. Sognava di diventare una scrittrice di romanzi gialli un giorno, così passava giornate a lavorare alla sua storia. Parlava di un giovane detective che stava indagando sulla morte di una ragazza.

Guardò per un attimo la pila di libri accatastata accanto al monitor. Forse avrebbe dovuto studiare un po’, la maturità la aspettava e il pomeriggio sarebbe dovuta andare a lavorare al panificio sotto casa.

Poi rivolse di nuovo lo sguardo verso il pc. La tastiera la chiamava.

E sia” sospirò.

 

Il giovane investigatore prese la foto della giovane scomparsa: lunghi capelli neri, pelle bianchissima, vestiti vecchi e neri. Stando alle descrizioni del padre era rimasta orfana di madre e viveva da sola in un piccolo appartamento alla periferia della città…

 

Non so, mi è venuto in mente e l'ho scritto (?)

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