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[yugen_roku] Pokémon: gli Albori


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Prologo: Polvere e Morte

 

 

 

 

 

Polvere.

Fu il suo primo pensiero quando riprese i sensi.

Non fece caso al dolore, ai boati, o al sangue scuro del suo Arcanine che scorreva copioso accanto a lui, nell’abbandono della morte.

La polvere: questo notò.

Come da dietro un velo spesso e invisibile osservava spaesato ciò che gli avveniva attorno, senza comprendere del tutto. Le urla e le grida degli uomini si graffiavano aspre, avvinghiandosi tra loro, accanite come i Pokémon intenti ad uccidersi secondo la volontà dei loro Allenatori.

La notte stava calando, si avvicinava sempre di più ai monti su cui infuriava la battaglia, inghiottendoli assieme alla spirale di distruzione che i due schieramenti nemici si portavano dietro.

Nessuno pareva però fare caso a lui, abbandonato su un masso in fin di vita. Forse tutti pensavano fosse già passato all’altro mondo.

Ma ecco una poderosa frustrata spezzare una roccia vicino a lui, e l’Ivysaur che l’aveva lanciata bruciare con versi atroci e deformati tra le fiamme di un Charizard.

Fu come svegliarsi di soprassalto; fece per muoversi, ma fu allora che notò Arcanine accasciato sulla sua gamba. Morto.

Qualcosa gli si bloccò gelida nel cuore e per un attimo il mondo scomparve di nuovo.

Il vento ululò minaccioso; poi tutto riprese a scorrere e, fatto un profondo respiro, spostò con cautela il corpo di quello che era stato il compagno di una vita. Tentando di puntellarsi sulle braccia evitò un potente getto d’acqua e, ignorando la frattura alla gamba destra che gli impediva qualunque movimento naturale, continuò a strusciare per terra.

La polvere si infiltrava tra i vestiti, copriva gli occhi, si appiccicava ai capelli. Avrebbe potuto credere di esser lui stesso fatto di polvere e fango.

Si avvicinò lentamente a dei bassi arbusti di montagna, nella speranza che potessero offrirgli un po’ di riparo: non era neanche a metà strada, i polsi scorticati e le nocche sanguinanti per lo strusciare, che un Raichu dal cipiglio agguerrito dello schieramento avversario lo notò.

Si guardarono per un momento, e lui capì.

Vide la scarica avvicinarsi fulminea e inesorabile, e seppe che gli restavano solo pochi respiri da vivere.

«Barriera, Mr. Mime!»

Un essere simile ad un pagliaccio calò su di lui in un lampo e uno scudo luminoso lo avvolse in un caldo torpore. La bocca secca, la vista offuscata e un nodo in gola, immaginò di essere vicino a perdere nuovamente i sensi, se non fosse stato per un ragazzino smilzo che si precipitò agitato accanto di lui.

«Generale!» lo scrutava corrucciato, mentre il suo Mr. Mime era impegnato in uno scontro all’ultimo sangue con il Raichu. «Generale, sta bene?»

«… Rientra nei ranghi, soldato.»

«Come…? Oh, sì, certo, scusi, io…» senza perdere tempo il ragazzo si allontanò dal suo superiore, raddrizzandosi e aggiustandosi il colletto rigido sporco di sangue.

L’uomo si fece forza e si tirò su con un rantolio, tenendosi alla dura e fredda parete di roccia.

«Le serve una mano?»

«A me non serve niente, soldato. Pensa a dare ordini al tuo Mr. Mime!»

«Signorsì!»

Il ragazzo corse dietro al suo Pokémon, intento a spezzare il braccio di Raichu con un acuto verso di sforzo. Probabilmente, considerò l’uomo giudicando l’inesperienza, doveva trattarsi di un membro delle truppe di rinforzo inviate da Johto.

I giovani avrebbero dovuto essere addestrati meglio, non si poteva andare in guerra con dei poppanti incapaci di controllare i propri Pokémon. Nelle battaglie erano necessarie disciplina e prontezza, bisognava mantenere nervi saldi e sangue freddo. Tutte attitudini lontane ed estranee ai contadinotti reclutati all’ultimo minuto a cui era stata appena affidata la prima Pokéball.

Il generale scosse la testa, risentito e disilluso.

Dov’erano i veri rinforzi? Dov’era Tenobu? Le altre batterie delle truppe nemiche, quando sarebbero arrivate? I messaggeri tardavano, le fiaccole in lontananza restavano spente. Nessuna novità dalla prima linea… O forse solo brutte notizie.

Senza Arcanine era impotente. Si ripulì lentamente le spalle dalla polvere, approfittando di quello che sembrava un breve momento di tregua per i suoi. Scrutò pensieroso l’orizzonte sempre più scuro. Si stava facendo tardi, il buio e il gelo presto avrebbero raggiunto uomini e Pokémon…

Fu allora che un uomo gli venne incontro. Aveva un berretto calato sugli occhi e l’aria anonima.

«Posso aiutarla?» il generale lo fissò guardingo, temendo una trappola.

«Tenobu le manda un messaggio…» lo sconosciuto esitò e il generale trattenne il respiro. «… La guerra è finita. I poteri dei Guardiani sono stati tutelati… Ma tu guardati dalle tenebre, generale… La punta della lama è ancora affilata, e quando arriverà il momento…»

Un boato improvviso e una valanga quasi travolsero tutto l’accampamento. I massi rotolavano per la valle con un fragore assordante, spinti dalla forza dei Golem appostati sull’altura sopra di loro. Un velo di polvere si alzò a coprire nuovamente gli eserciti e le grida delle truppe tornarono a sovrastare la quiete della notte. Forse la battaglia non era ancora finita, al contrario di quanto Tenobu avesse troppo ottimisticamente tenuto a comunicare…

«Soldati… Preparatevi! Che tutti rientrino nei ranghi! Armatevi di Pokéball!» mentre urlava per richiamare i suoi uomini, il generale notò il corpo dell’anonimo messaggero, morto sotto alle scariche di massi lanciati dai dirupi, con la testa fracassata e una pozza di sangue che si allargava sotto di lui.

Deglutì e distolse lo sguardo. Non era il momento quello per lasciarsi impressionare.

«Tutti ai posti!»

Vide lo schieramento nemico superstite accorrere in un’orda di urla e Pokémon, e caricare in un potente attacco gli Onix, i Graveller e i Machoke dall’altra parte della rupe.

«State pronti!» il generale sapeva di essere perso senza Arcanine. Nonostante questo, non arretrò di un passo e tese con forza la sua spada avanti a lui.

Poteva sentire la terra tremare, il sudore degli uomini scendere lungo le fronti, l’odore acre del sangue incrostato sul pelo dei Pokémon. Il cuore gli pulsava dolorosamente nelle orecchie, gli scalpitava nel petto con tanta foga da voler fuggire altrove.

Tutto fu fin troppo rapido.

Un boato.

La polvere.

Poi, più nulla. 

      

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Ecco di seguito il PRIMO CAPITOLO.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 1: Sogni e Rabbia

 

 

“Le mani sono lo specchio dell’anima;

col tempo si impara a tradurle,

nel modo che hanno di muoversi

mentre si parla,

si tace,

non si fa nulla.”

 

 

Le fiamme, le grida disperate di una madre. Fumo: negli occhi, nei polmoni, nel cuore. Tutto era buio, tutto era luce.

Poi, solo il dolore. Intenso e atroce, partì da un’unghia e si estese fino al petto. Le viscere si contorsero, i conati tolsero il respiro. Di fumo e di vomito: di questo seppe quella notte. E di terrore.

«Mamma!» chiamò il bambino disperato, tra un rantolio e l’altro. Era in trappola. Non aveva vie di fuga. Tutti lo avevano abbandonato. «Papà!»

Era solo. Solo tra le fiamme, solo con la sua paura.

«Mamma!»

 

Con la schiena gelida di sudore e le pupille dilatate, Goro si svegliò di soprassalto, scattando a sedere sul letto stravolto dalle sue contorsioni notturne. Il cuore gli scalpitava nel petto, col fragore di un treno in corsa.

Aveva il respiro affannoso, le coperte avvinghiate ai polpacci e il braccio destro teso in avanti, ad afferrare quello che nei suoi ricordi di bambino l’aveva tirato fuori dal terribile incendio.

Lo stomaco gli si serrò in una morsa spiacevole appena il suo sguardo si abbassò per l’ennesima volta sulla sua spalla sinistra, poco sotto la quale l’avambraccio terminava all’attaccatura del polso, con cicatrici biancastre che correvano dal moncherino tranciato di netto fino al gomito.

Vuoto. Così si sentiva Goro ogni qual volta ripensava al lontano giorno della sua infanzia in cui aveva perso la mano sinistra.

Erano passati nove anni da allora, ma il ricordo bruciava ancora nitido e vivo nella sua anima. Nessuno all’epoca riuscì a capire da cosa l’incendio fosse stato causato, forse da qualche Pokémon selvatico di Fuoco, e i medici con i loro Chansey guaritori non poterono far niente per lui e per il suo braccio, una volta che questo venne in parte inghiottito dalle fiamme.

Con un sospiro si passò la mano destra tra i lisci capelli rosso vermiglio, tentando di calmarsi. Ma chi voleva prendere in giro? I suoi occhi verdi scattarono verso uno specchio appeso al muro della camera avvolta nella penombra del mattino, e ciò che vi vide riflesso fu solo un patetico ragazzino senza una mano. Ormai aveva quattordici anni, ma non c’era stato giorno in cui Goro si fosse svegliato senza quell’odio e quella rabbia nel cuore.

«La colazione è pronta! Sveglia dormiglione!» la voce allegra di sua madre arrivò attutita da dietro la porta chiusa. «Un Pidgey messaggero è arrivato da parte di Davos: l’orario di pesca per te e Bronn è stato anticipato, faresti meglio a sbrigarti!»

Con un basso mugolio Goro si tirò in piedi, scrollandosi di dosso l’aria della notte e stiracchiandosi sulle lunghe gambe ossute.

Sbadigliando spalancò la grande finestra della sua camera, che dava sulla valle proprio ai piedi della cittadina di Kanto in cui era cresciuto, e il sole dell’alba gli irritò gli occhi ancora  intorpiditi dal sonno. Oltre i prati fioriti si estendeva per chilometri erba alta e incolta, che per anni gli adulti gli avevano insegnato a temere. Goro si fermò ad osservarla per qualche attimo, come ogni mattino, con gli occhi pieni di curiosità e il cuore colmo d’amarezza: nessuno avrebbe permesso ad un bambino storpio di andare a scoprire il mondo per cercare Pokémon domestici o da lavoro. Come se a sua madre non fosse servito un aiuto in casa…

Con la mano destra si diede una leggera botta in fronte. Ormai era grande abbastanza per correre dei rischi e per divenire padrone della sua vita. Finalmente sarebbe riuscito a placare quel senso di rabbia e fastidio che gli torceva l’anima da nove anni, e che gli toglieva il sonno.

Andare a pesca con Davos e Bronn quella mattina sarebbe stato solo il primo passo.

Col tempo, come tutti gli Allenatori, avrebbe imparato a dominare e a controllare i Pokémon. Loro avrebbero obbedito ad ogni suo ordine: così sarebbe divenuto il più forte di Kanto… Tutti l’avrebbero rispettato, anche senza mezzo braccio. Nessuno sarebbe più stato in grado di fare il prepotente con lui!

Con una scarica d’adrenalina si diede una sciacquata al viso e infilò in fretta pantaloni, maglietta e felpa – che a sinistra ricadde asimmetrica dalla spalla, penzolando oltre il gomito; poi, arruffandosi un’ultima volta i lisci capelli rosso vermiglio, si precipitò giù per le scale, verso le frittelle che avrebbero dovuto dargli la carica per quell’importante giornata.

«Goro, eccoti qua! Buongiorno!»

«Buongiorno, Pa’»

«Insomma Goro, un po’ d’educazione!» rimproverò sua madre, con una smorfia severa a incresparle le gote, vedendo il figlio ingurgitare le frittelle senza la benché minima compostezza. «Oggi diventerai finalmente un uomo… Per cui non iniziare la giornata comportandoti da bambino!»

Il ragazzo biascicò delle scuse con la bocca piena, mentre suo padre sorrideva spingendosi gli occhiali lungo il naso adunco. La mamma sospirò, ma il suo sguardo si addolcì nuovamente notando quanto il suo bambino fosse effettivamente cresciuto. Ne erano passati di anni da quando era un fagottino impaurito dal mondo e dai Pokémon… Era così piccolo, all’epoca! E così indifeso…

L’aria placida del mattino venne bruscamente interrotta quando dei potenti colpi fecero tremare la porta, e con essa quasi l’intera cucina.

«Goro! Mio zio ci aspetta!» giunse prorompente una voce dall’esterno della casa.

«Dev’essere Bronn…» sussurrò la mamma.

«Ma certo che è Bronn!» esclamò Goro alzandosi di scatto e lasciando a metà la sua colazione.

«Come, non finisci?» fece il padre.

«No, sto bene così. Devo sbrigarmi!»

«In bocca al lupo! Non far tardi!» lo spronarono i genitori, mentre lui afferrava in fretta e furia la bisaccia preparata da giorni con tutto il necessario e si precipitava alla porta.

Sentì le frittelle sobbalzargli nello stomaco e una morsa serrargli le viscere. Quello sarebbe stato un grande giorno…

Nel varcare l’uscio, oltre al quale sapeva aspettarlo il suo migliore amico Bronn, ripensò in un lampo ai suoi quattordici anni vissuti, e parvero gravargli sulle spalle in tutta la loro effimera pesantezza. Così pieni di rinunce e privazioni erano stati rispetto a quelli degli altri ragazzi! Sembravano infinitamente lunghi e al tempo stesso sfuggenti rispetto all’importante giornata appena iniziata, come se fossero valsi a nient’altro che a preparare Goro a quel momento della sua vita.

Prima di spalancare la porta si avvicinò al cuore quello che rimaneva del suo braccio sinistro, come per farsi forza, e con la destra si schiacciò il berretto sul viso per nascondere un sorriso euforico.

Quello sarebbe stato il giorno della grande prova, che avrebbe determinato la sua ammissione nella vita adulta e che gli avrebbe dato la possibilità di cominciare a cacciare Pokémon. Nonostante tutti avessero tentato di dissuaderlo e gli rammentassero della pericolosità della cosa, lui era sicuro della sua scelta. Non sarebbe mai tornato indietro, avrebbe dimostrato di esserne in grado a tutti quelli che fino ad allora l’avevano guardato con scetticismo.

Quel giorno lui sarebbe uscito di casa per cambiare vita, nella speranza di divenire finalmente un cacciatore di Pokémon.

 

 

 

 

 

 

      

 

 

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