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[Grovyle96 e Sccuirtol] Il Funerale di Knuckles


Grovyle96

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Premessa:

Questo prodotto non dev'essere preso seriamente, poiché nato da due cretini senza tempo che non hanno nulla da fare, se non esercitare le proprie doti di scrittura per altri fini più nobili. L'idea è nata in un modo così scemo che vi risparmiamo la perdita di neuroni.

Ogni riferimento a decessi di echidna realmenti accaduti è da ritenersi puramente casuale.

 

Capitolo primo

-Vittoria di... Sonic!

 

 

 

 


I verdi fili d’erba tornavano ancora una volta a separarsi dal terreno, sollevati dalle rapidissime sferzate saettanti sul prato. Non facevano neanche in tempo a ricadere a terra, inermi, che per tre volte si era già ripetuto il nuovo tormentone echeggiante nell’aria, il ben riconoscibile clamore da stadio che tornava puntuale a rincuorare i combattenti durante le loro più accanite dispute. E poi, la brezza soffiante sul viso, sulla pelliccia… le strisce di terra su quegli inarrestabili scarpini… il sole che sembrava non smettere mai di splendere sulle colline della Green Hill Zone. In altre parole, un’altra normalissima, splendida, insostituibile giornata per Sonic the Hedgehog. Cosa mancava a questo idillio per aderire completamente al modus vivendi del beneamato porcospino? Una bella sfida, una competizione tale da spingere il noto eroe a tirare fuori il meglio di sé, uno scontro con i propri limiti non privo di colpi a sorpresa sferrati da avversari capaci di mettere alla prova ogni aspetto del vitalismo esprimentesi attraverso quelle gesta di straordinaria forza e velocità… si da il caso, però, che anche tutto questo fosse presente sulla scena. Una giornata perfetta, dunque! Finalmente questi benedetti fili d’erba caddero a terra, lentissimi di fronte alla precipitevole celerità di Sonic, pieno di vita, pieno di orgoglio, scattante nel tifo dei fan. Olimar, appostatosi su di un’altura, cercava di proteggersi e al contempo prevedere le mosse degli altri contendenti; operoso ed esperto, forte di una conoscenza accumulata e continuamente raffinata nel corso degli anni, tornava ancora una volta ad immergere le piccole mani nel terreno, in cerca di un punto adatto in cui predisporre all’attacco uno di quei suoi strani esserini a metà tra pianta e animale. Una fine strategia…sì, nel 1988! Sonic era uno da sempre abituato a correre più veloce dei tempi. Fu uno scherzo per lui sventare la riuscita del piano di Olimar prima ancora che questo completasse le necessarie mosse preliminari. Ancora un balzo, e avrebbe di certo scaraventato quel buffo omino  fuori dall’arena di combattimento. Del resto, il suo indicatore dei danni aveva superato il 200%...

“Niente di personale, ma la tua partita finisce qui!”

Un poderoso calcio e… nulla. Certo, non proprio nulla, ma sta di fatto che Olimar, sul campo di combattimento, ci rimase. Sonic rimase qualche secondo di troppo ad osservare incredulo il corpo da lui calciato ricadere sul terreno e rialzarsi, ed evitò una pericolosissima martellata di King Dedede che in quel momento sopraggiungeva alle sue spalle solo per un puro colpo di fortuna.

“Wow! Ehi trippone, ma lo sai che mi avresti proprio fatto secco? L’importante è che non dimentichi chi hai davanti!”

Il grasso pinguino non poté che ribattere, come al solito, con un sonoro e sentito “hua-hua-hua!”. Sonic tradiva la preoccupazione che andava a espandersi in lui dietro quell’inscalfibile facciata di sicurezza e fiducia in sé stesso. Per la prima volta si trovava a chiedersi, “per quanto ancora potrò correre così velocemente?”, e pensieri del genere costituiscono per quelli come lui, dotati di una fierezza invidiabile, ferite ben più gravi di quelle lasciate dai pesanti artigli di Bowser, dal fuoco irriverente di Charizard e dalle porcherie di Wario. Era finita… il piano di Olimar era solo un diversivo. Erano arrivato perfino a mettersi in combutta! E lui ci era cascato. “ma insomma Sonic! Che diavolo ti sta succedendo?” si rimproverava mentre, immobilizzato da Olimar, stringeva i denti per ricevere il famigerato martello a propulsione dell’autoproclamatosi re di DreamLand. Da non crederci… stava per essere sconfitto in casa! Quand’ecco, all’improvviso, un lampo rosso percorse il campo di battaglia: impossibile non riconoscerlo, era proprio Knuckles che si precipitava ad aiutarlo, respingendo l’attacco con i suoi pugni e permettendo al compagno di liberarsi.

“Grazie amico!” disse Sonic, riprendendosi . il suo volto si illuminò, restituendo la sicurezza a quegli occhi furbi, che tante ne hanno viste.

Sonic balzò in alto, più in alto che poté, e Knuckles sferrò un pugno a terra generando un’onda d’urto talmente forte da intontire all’istante Dedede e Olimar. Raggiunse Sonic a mezz’aria, e i due si prepararono a concludere la partita con un loro attacco congiunto…

Il sole tramontava sulla Green Hill. Lo scontro si era concluso da tempo. I fan erano soddisfatti, e l’onore della SEGA era stato mantenuto alto. Un porcospino e un echidna sedevano su un dolce pendio, ammirando il crepuscolo.

“Ce l’abbiamo fatta ancora una volta, amico mio. Insieme!” disse Sonic, sorridendo all’amico, con un volto felice.

Era tutto come sempre. Il vento accarezzava dolcemente il prato, colorato dal cielo e dal sole, che andava a riposare, dopo aver passato la giornata a vigilare attentamente sul mondo. Le nuvole erano la cornice perfetta a questo quadro, che altro non pretendeva se non l’esistere ed esser contemplato da membra stanche che trovan conforto in quella pace assoluta. Insomma, tutto era al proprio posto, era tutto perfetto.

Ma qualcosa non andava. Knuckles si voltò lentamente alla sua sinistra, mostrandogli un volto che questo non aveva mai visto in vita sua. Uno sguardo vacuo, assente, e… terrificante. Le pupille, ridotte a puntini, sembravano continuare a fluttuare nel mare bianco dei bulbi oculari solo perché nessuno aveva detto loro di smettere, così, tanto per fare. Non c’erano emozioni che potessero essere trasmesse da quel raccapricciante sguardo.

Sonic si alzò in piedi.

“Knuckles, che… che hai?”

Il suo sguardo si faceva sempre più vuoto e il colorito della pelle sempre meno acceso. Delle nere e pesanti occhiaie ora marcavano i suoi occhi.

“Ma come Sonic, ancora non l’hai capito? Se ci pensi bene, io non sono un personaggio giocabile.”

Il volto di Knuckles, con orrore di Sonic, cominciò a liquefarsi lentamente. Impotente di fronte al terrore che, lentamente, penetrava nelle sue ossa e impossibilitato anche ad urlare, il porcospino rimase immobile, con la bocca spalancata, a guardare il corpo del suo compagno tramutarsi lentamente in un magma ribollente di carne resa poltiglia, marcescente di un odore di ossa. Prima gli occhi fuoriuscirono dalle orbite, andando a confondersi con i fluidi corporei che scorrevano senza interruzione fuori da ogni poro, poi la testa e il torso, privati rispettivamente di un cranio e di una gabbia toracica, affondarono all’interno delle stesse spoglie di cui un tempo fecero parte, ora ammucchiate sul terreno come un ridicolo abito dismesso.

Un urlo. Sonic the Hedgehog si risvegliò di soprassalto. Tremava, sudava ancora. Esausto, richiuse gli occhi e appoggiò la testa sulle sue braccia, a loro volta conserte e appoggiate alle ginocchia. In uno scenario devastato, ben diverso dalla Green Hill che riviveva nelle sue fantasie, un porcospino blu se ne stava su una roccia, rannicchiato in posizione fetale, sotto un cielo nero di nuvole in cui volteggiavano cadaverici volatili saprofagi, tra gli alberi morti, i prati ingrigiti da una malattia vegetale, la terra secca e segnata da crepe dove, ogni tanto, vi si trovava qualche ossa di chissà quale essere dimenticato nel tempo. Nessun rumore, se non i tuoni, i lugubri lamenti di quei deformi uccelli, e il veleno ribollente come lava nei buchi scavati nel fango. Una volpe a due code si avvicinò, mettendo un’amichevole mano sulla spalla.

“Sonic, dobbiamo andare. Il… - ebbe un attimo di pausa  - Il funerale. È oggi.”

Sonic alzò la testa. Il suo volto era più scuro del paesaggio in cui si trovava.

“Saresti dovuto morire tu, al posto suo.”

Nella mente di Tails, moriva quell’eroe idealizzato che sembrava sussurrargli, come un’eco lontana proveniente da un tempo ormai irrecuperabile, “sei il mio migliore amico”…

 

 

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Capitolo secondo

-Verso il Duomo di Cuoripoli

 

 “Ad un funerale, non bisogna piangere. Non bisogna rubare la scena al dolore dei parenti.”

Questa frase aveva accompagnato i pensieri di Sonic in tutti i funerali a cui si era trovato a partecipare, quasi come un imprescindibile monito, visceralmente innestato da una forza pari a quella di una profonda fede . Un promemoria del suo scrittore preferito, che senza ombra di dubbio aveva influenzato la sua visione del mondo. E rimbombava nella sua testa, mentre si radeva quella barba incolta che avrebbe lasciato un’impressione sinistra a chiunque si fosse trovato a posare gli occhi sulla sua fatiscente sembianza. Occhi rossi, pieni di sangue, resi terribili dal poco sonno e dalla scarsissima voglia di vivere, scrutavano minuziosamente ogni angolo del volto, come febbricitanti e tremuli nell’ansia perfezionista di un chirurgo paranoico intenzionato a portare a termine un lavoro nella maniera più efficiente possibile. In netto contrasto però erano le mani: non rosse, non sgradevoli come gli occhi, anzi, confinate in quegli inseparabili guanti bianchi avrebbero fatto pensare che nulla al mondo sarebbe riuscito ad impedire al loro possessore di controllarle; e invece, proprio sotto il candido tessuto cartoonesco perennemente incollato sotto la loro pelle, mettevano in atto la loro perversa congiura, sfuggendo alle direttive del cervello, tagliando la carne con il rasoio.

“Chissà da quanto non mi lavo” pensò Sonic, mentre entrava nella doccia.

L’acqua cadeva sulla sua testa,  levando di dosso molti pensieri. Tranne uno…

La vita senza Knuckles era diventata grigia. Era morto da soli tre giorni, ma nulla riusciva a sbloccarsi al di fuori di quel momento. Era come se tutto fosse rimasto intrappolato, cristallizzato. Solo il malessere cresceva, senza speranza.

“Almeno, l’acqua della doccia e le lacrime sono indistinguibili”

E più esse scorrevano, più quella frase rimbombava nella testa.

 “Non bisogna piangere”.

Dopo dieci minuti l’acqua era già finita, e Sonic fu costretto ad uscire dalla cabina. L’acqua scarseggiava nella ormai decaduta Green Hill Zone, corrotta campagna dalle falde traboccanti di acidi e liquami, nuovo desolato deserto in cui solo a sconosciuti, veleniferi morbi era concesso il diritto di sbocciare, come in un’inquinante provocazione dell’ormai irrecuperabile rigoglio che era stato. Fuori da quel pertugio in cui l’acqua cadente sulla sua testa lo riparava dalle minacce provenienti tanto dal mondo quanto da sé stesso, Sonic si trovò a mettere piede in terra aliena. Nuvole di vapore che fluttuava misterioso, aleggiando nel bagno che assomigliava così al paesaggio della luna di un pianeta lontano. E faceva freddo. Era come se il porcospino fosse stato costretto a nascere per la seconda volta: dal caldo si passa al freddo, soli, senza saper che fare, piangendo. Un trauma.

Aveva un leggero mal di testa, dovuto alla sbronza della sera prima, e un mal di schiena lancinante, poiché si era addormentato su una roccia. Ai funerali si va vestiti di nero. Dopo aver fissato per qualche minuto il suo armadio, vuoto , esclamò: “Già. Io non ho bisogno di vestirmi”, mentre si accendeva una sigaretta piena di tabacco, girata male.

Poco prima di uscire guardò l’anello che aveva in casa. Senza di essi si è spacciati. In quei giorni aveva spesso pensato di morire, di non portare con sé protezioni e di gettarsi da qualche parte, ma non ci riuscì. Ciò lo rendeva infelice. L’attaccamento alla vita gli faceva schifo, tanto da creargli pesanti e violente crisi. Però non poteva farne a meno. Era vivo e provava la naturale paura che i vivi hanno. E si sentiva in colpa per questo, perché Knuckles non lo era più. Lo prese, come sempre.

Casa sua si trovava in un punto strategico. Un tempo era il luogo più bello di tutta Green Hill! Era in un giallissimo campo di girasoli, vicino a una cascata che rinfrescava le giornate afose, senza che l’umidità risultasse sgradevole. Da essa scorreva poi un fiume limpido, che si univa, in un punto lontano, al mare. E Sonic ne era il padrone. Ma i padroni divennero le Kokopeke, quei maledetti uccellacci che emettevano versi immondi e profani, degni delle urla dei peggiori riti satanici a tema infanticida. Nessuno sapeva perché fossero comparse, né come, né da dove, e ovviamente Sonic non aveva intenzione di approfondire l’argomento. Molti però ipotizzarono che la Kokopeka altro non fosse che la reincarnazione di un uccello tanto antico quanto potente. Un’aquila senza tempo, un mostro bicefalo, l’omaggio al fetore che irradia l’universo.

Le montagne del regno dei funghi si stagliavano in lontananza, emblematiche, con la loro bellezza simboleggiante una ricchezza mai tramontata. Ed eccoli lì, sul ciglio della strada di campagna, i due eroi del regno, i due idraulici in pensione che se la spassano con delle principesse, vestiti questa volta di nero. Non c’erano dubbi, anche loro dovevano essere diretti al Duomo di Cuoripoli per unirsi al lutto.

Il porcospino depresso si accese un’altra sigaretta, preparandosi ad affrontare la chiacchierata con quei due. Li odiava. Alle olimpiadi di Pechino mancava poco che ci scappava il morto, per quella gara abusiva di Hot Dog indetta da Wario.

“Ciao” disse Luigi, serrando i denti. Mario biascicò qualcosa, Sonic ricambiò altrettanto cupamente, senza però fermare la camminata.

“Ecco, siamo… profondamente addolorati per… Beh, sì, insomma…”

“Certo”.

I fratelli Mario si scambiarono un’occhiata, tipica di chi non sa come comportarsi con una persona che sembra avere tutte le intenzioni di far trapelare platealmente il fatto che, in quella situazione, qualunque cosa si dica sarà una risposta errata.

“Senti, sappiamo perfettamente quanto deve essere difficile per te. Pensa, stavo tranquillamente passeggiando tra le dune del mondo 2, senza un pensiero al mondo, così che quando ho preso il giornale caduta dalla nuvola di un Lakitu per poco non mi prendeva un colpo. Mi sono chiesto come vi ci sareste raccapezzati, voi quaggiù…”

“Oh, che storia commovente. Me lo immagino solo, l’inferno che starete passando. – dopo una risatina isterica continuò- Anzi, lo vedo bene, questo inferno… Al punto che, sapete, quasi mi dispiace di darvi quest’altra brutta notizia…”

Sonic, continuando a camminare senza voltarsi, sporse il braccio e lo agitò nell’aria come aspettando di afferrare qualcosa.

“Oh che peccato, dalle nostre parti il giornale non cade dalle nuvole. Già, nessuna tartaruga nel cielo. Solo uccelli cancerogeni. Dovrò darvi la notizia a voce, allora… -si schiarì la voce-  Ecco, sono spiacente, ma gli affari vostri si trovano in un altro castello”.

Sonic scattò, ricoprendo di polvere i volti imbambolati di Mario e Luigi, le cui parole erano rimaste soffocate in gola. Veloce come sempre, ma di una velocità diversa. Non la gioia di correre, non la sfida del vento : sentimenti autodistruttivi e morbosi erano il solo propulsore di quella folle corsa verso uno strapiombo di cinismo e miseria.

Arrivato al mondo 7, da solo, senza neanche aspettare gli altri suoi amici, attese la manta volante che lo avrebbe trasportato fino a Sinnoh. Di nuovo tra le nubi, si chiese se fosse l’occasione adatta per piangere di nuovo. Stranamente, però, continuava a pensare alla risposta che aveva dato ai fratelli rossoverdi.

 E sorrise. 
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Ecco, dopo un po' di tempo, un nuovo capitolo di questa storia di cui nessuno sentiva il bisogno

 

Capitolo terzo

-Rapporti

 

“Amy, sa bene che non può fumare qui dentro.”



Amy soffiò il fumo verso il basso, fissando il tappeto.

“E poi, da quant’è che fumi?”

“Non ha importanza. Lei, dottore, non deve occuparsi dei miei polmoni. Non rientrano nelle sue competenze.”

“Certo, ma ogni gesto è importante. Mi creda, sono anni che esercito la mia professione, e ormai riconosco un fumatore anche a partire da movimenti impercettibili. È un po’ che ci vediamo e non ho notato niente, quindi, direi che ha cominciato a fumare pochi giorni fa. Mi sbaglio?” – il dottore, col volto in ombra di fianco alla finestra dello studio, ansimò con la lingua di fuori.

“Cosa vuole che le dica, dottore? Me lo chieda, e dirò tutto quello che vuole. – disse Amy, sbuffando lentamente - Da parte mia, dopo aver visto quello che ho visto, ho come l’impressione di aver sempre fumato. Da quando sono nata.”

“Cosa crede che comporti una dipendenza del genere? E come si lega a quello che ha visto, o a quello che chiunque potrebbe vedere? Che legame può esserci tra ciò che si vede e questa decisione?”

“Sa, i fumatori… - Amy scaricò il peso sull’altra gamba, la sinistra, guardando un punto imprecisato nell’aria con occhi sbarrati. Nella mano destra, la sigaretta cadente, pendula, come un’appendice senza ragion d’essere, vomitava la sua cenere sul pavimento -  ecco, li ho sempre visti, non so… avvizziti? Sono avvizziti, ecco, come la pelle dopo essere stata per troppo tempo a contatto con l’acqua. Un’acqua molto sporca, la loro…”

“Sembra avere un’idea molto forte di ciò che è accettabile e di ciò che è meglio non fare. Eppure, questo non le impedisce di trasformarsi a sua volta in ciò che disprezza.”

Amy, a questo, non rispose. Tornò a guardare il tappeto, sovrapponendo agli arabeschi le immagini di certi suoi ricordi che non sembravano appropriati al contesto. Ai giochi olimpici invernali si conquistò l’oro allo slalom gigante. Era circondata da intervistatori, personale tecnico, ammiratori rasentanti il fanatismo quasi disposti ad inchinarsi ai suoi piedi e ad accontentarsi, all’occasione, anche di sfiorare un suo singolo roseo pelo, piccola tessera del mosaico di divina misericordia di cui bramavano la vicinanza per ottenere la salvezza. Non riuscì a mettere in fila due parole in maniera decente. Quella volta, riconquistò l’orgoglio perduto ridendo, di nascosto, dei discorsi di Blaze, seconda classificata, ancora più impacciata nel parlare. Per due volte aveva umiliato una principessa, lei, l’amichetta del protagonista.

“Mi parli del suo fidanzato, Amy. Tanto è di quello che ha fatto lui che stiamo parlando, vero?”

L’incandescenza della sigaretta bruciava anche cose che stavano al di fuori dei suoi polmoni e della pelle raggrinzita, come testimoniavano i guanti e il vestito.

“Non è il mio fidanzato. Ho mentito.”

“Lo so. Sa, io… ho fiuto.”

“Io non ho voglia di scherzare, dottore.”

“Neanche io. Il mio fiuto è una cosa seria, ma ha un prezzo. Non mi hanno fatto entrare nel Duomo di Cuoripoli. Ma può raccontarmi lei, Amy, cosa è successo quel giorno.”

La sigaretta aveva finito di depositare per terra il suo corpo scomposto a formare un mucchietto, rannicchiato come un serpente in una cesta. Amy si sfilò il guanto tirandolo per la bruciatura. Fissò la sua mano, che sembrava invecchiata di anni. Insignificanti rughe, tremori che danzano come ubriachi nella marcia scorza sottostante la superfice, quella in cui tutti i sospiri repressi vengono tramutati in spettri.



Silver, Rouge, Blaze, Vector, perfino Metal Sonic… Jet, Wave, Fang… e poi Bowser con i suoi figli, Kirby, Solid Snake, Ryu, Ralph Spaccatutto, Ganondorf, Samus… Sonic notò con piacere che quei presuntuosi di Ike e Marth non si vedevano da nessuna parte. Tutti si erano mostrati favorevoli alla decisione di non invitarli. Inaspettata invece la presenza di Fox McCloud e di quel milanese di Falco Lombardi. Tutta gente che non poteva capire, e che non avrebbe mai capito. Li osservò uno ad uno, con disprezzo, dall’entrata del tempio. Cercava di non farsi vedere. Non avrebbe sopportato di sentirsi dire da quelli “le mie condoglianze”. E nel caso qualcuno si fosse avvicinato, si sarebbe difeso con un repellente alito alcolico. Al limitare della piazza, un’altra manta posò a terra Tails, Amy, Cream con quel suo mostriciattolo, e i fratelli Mario. Non sopportava uno solo dei loro atteggiamenti. Tails evitava il suo sguardo. Amy gli rivolgeva da lontano un’espressione preoccupata, come se dicesse “non dimenticare che io sono sempre qui per te!”, ma che diavolo ne voleva sapere lei… la coniglia neanche era degna della sua attenzione, e i fratelli Mario avevano ancora la faccia di un casertano che ha sentito qualcuno insultare senza ritegno il proprio credo.



“Amy, ha mai sentito parlare del dilemma dell’Orco Rosso e dell’Orco Blu?”

“Dottore, non cominci anche lei con questa storia. Le posso assicurare che si sbaglia.”

“Però ammetterà che è interessante. Il rosso pulsante di vita, sregolato e passionale, e il blu, chiuso e sempre incupito, cauto e nebuloso…”

“Guardi che Sonic è sempre stato un Orco Rosso. Come anche Knuckles. Come quasi tutti.”

“Tutti?” disse il dottore, alzando il sopracciglio.

“Beh, a parte…”



Shadow piombò sulla scena balzando fuori da un portale buio e vorticoso, rivolgendo gestacci non necessari a chiunque gli capitasse sotto tiro. Tutti erano felici di ricambiare con altrettanto odio. Solo a Sonic rivolse un sommesso cenno del capo. Cosa che non si aspettava assolutamente.

“E quello che diavolo era? Perché solo a me risparmi il tuo atteggiamento da schifoso antisociale?”

Shadow non rispose, altezzoso come se fosse il principe di un pianeta guerriero.

“Hey, torna subito qui! Insultami, *censura*!”- gli gridò dietro Sonic, mentre quello entrava nel tempio.

“Ah, siete qui…”- si rivolse al gruppo dei suoi “amici” che nel frattempo lo aveva raggiunto.

“Sonic, scusaci… abbiamo fatto tardi, la manta ha perso l’orientamento, c’era una gran nebbia sul Monte Corona e una volta qui non riuscivamo proprio a trovare Via Vegeta…”

“Chi se ne frega, Amy. Chi se ne frega. Non avrai mica intenzione di aprire bocca ancora una volta? Ti prego, risparmiacelo per una volta, Amy!”

Ignorando gli occhi di lei che andavano inumidendosi, si voltò verso Tails, che fingeva di trovare interessanti le linee tra i sampietrini.

“Hey Tails, ma cos’è quel muso lungo? Sei ancora vivo, no? Eh, te lo ricordi che sei ancora vivo?”

“Ora basta. Stai esagerando.”

“Cos’è stato? Ah, Cream. Per un momento ho creduto che qualcuno si fosse spinto a tanto da fare una pernacchia davanti una chiesa, invece erano solo le tue parole. Ancora che insisti a portarti dietro quel coso orribile?”

Anche se aveva già incontrato Mario e Luigi, trovò opportuno comunicar loro ancora qualcosa. Gli rivolse uno di quei gesti con cui Shadow si divertiva ad accogliere tutti quanti.

Attraversava la navata, sotto gli occhi di tutti, con la comitiva che lo seguiva a malincuore per andarsi a sedere ai posti più avanti. Da dove si poteva vedere la bara. Le parole del prete sarebbero arrivate da vicino, intervallate dai singhiozzi disperati di Eggman, sopraffatto dal dolore. Fanny se ne stava immobile, col volto tetro, a cercare anche il più piccolo barlume di vita sotto le stesse palpebre che Sonic stava fissando. Le palpebre di Knuckles. Ma Knuckles era morto.



“… Ed è rimasta in silenzio, Amy?”

“Ho mai parlato in vita mia, dottore?”

Per un po’, si sentì solo il ticchettio di un orologio. Sulla carta da parati, le anatre selvatiche rimanevano sospese in un volo statico, migrando verso il nulla.

“Il nostro tempo è scaduto.”

“Arrivederci, Dottor Duck Hunt.”

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Capitolo Quarto

-Il Funerale

 

 

Nel Duomo di Cuoripoli vige il massimo silenzio, sia di giorno che di notte. È un luogo di culto dove nessuno osa, per un rispetto nei confronti del sacro insito nei meandri dell’istinto primordiale collettivo, far gesti inopportuni e inadatti. Eppure, persino durante un funerale, le personalità e gli egoismi dei bizzarri invitati non si vollero piegare di fronte al pudore. Il funerale sarebbe iniziato entro pochi secondi e ancora i corridoi rimbombanti il suono degli avi non trovavano pace e quiete. La struttura che conservava questi spiriti, come un antico manufatto stregato, era imponente e regalava un senso di pace agli occhi grazie ai riposanti colori dell’affresco, ritraente il Monte Corona. In cima, sulla Vetta Lancia, una luce illuminava il volto dell’eroe supremo, martire e salvatore del mondo da loro abitato. Molti dei presenti si commossero alla sua vista.

Don Kritter osservava tutti dall’altare rialzato, illuminato dal bagliore tremolante delle fiaccole che lo coronava di un’aria stranamente ambigua, come se andasse a portargli via parte della sacralità del suo ruolo, come se costituisse una strana contraddizione. Ancora qualche passo, e avrebbe raggiunto il centro esatto dell’altare, in una piccolissima nicchia formata da una sua incurvatura, che era stata fin dall’inizio il luogo del sacerdote, il portale che permetteva alle parole del sacro di cadere dalla sua bocca e di accedere al cuore dei laici bisognosi di un intermediario con la misericordia che mai avrebbero potuto raggiungere nelle loro vite caratterizzate dalla frenesia, dal peccato… ma alla luce delle torce e dei raggi filtrati dalle vetrate, mentre muoveva lentamente i suoi passi squamosi sotto gli occhi in attesa di tutti i presenti, la convinzione di Don Kritter che il suo ruolo rappresentasse qualcosa di tanto importante incominciava a vacillare. Non erano forse le vite di tutte le creature impregnate della stessa forma di movimento incontrollato, di ricerca di una mancanza, di calci, pugni e lacrime? Un movimento in realtà più pregnante di qualsiasi acqua benedetta... si sentiva soltanto un umile prete, che aveva intrapreso quella strada solo per amore del suo contatto con questo mistero, che nella sua ottica rappresentava il mistero di Dio stesso. Eppure, era probabile che molta di quella gente, oltre a tutti quelli che da lui andavano a confessarsi ogni giorno, vedessero in lui qualcosa di più intoccabile. Non capivano che era un umano, o… un coccodrillo, proprio come loro! Questo avrebbe voluto dire nella sua predica, sperando di indurre i fedeli a riflettere in più larga misura su ciò che avrebbe significato anche in rapporto alla morte di una persona amata da tutti. Purtroppo però sapeva già che avrebbe finito col pronunciare una predica banale, sentita e risentita, con il solito elenco dei conseguimenti materiali del defunto e un paio di congetture su ciò che il suo affetto potesse significare per chi, a differenza sua, lo aveva conosciuto sul serio. Si fermò un istante, osservandosi le zampe anteriori che tanti palloni avevano respinto nei campionati di Strikers nel campetto della parrocchia, cercando di leggere in qualche ruga, in qualche briciola d’ostia incastrata tra gli artigli una risposta agli interrogativi che lo affliggevano. Poi mosse l’ultimo passo, quello definitivo che lo avrebbe gettato in quel turbinio di eventi decisivi alla perdita delle sue restanti certezze.

 

A quel punto sarebbe dovuto scendere il silenzio che precede le funzioni funebri, quello che infonde tutti i luoghi di culto dello stesso rispetto ancestrale e profondo nei confronti del confine invalicabile tra gli autunni e gli inverni, tra la vita e la morte, tra l’uomo e Dio che gli abitanti delle prime caverne trasferivano dalla propria anima intimorita a ormai dimenticati idoli di pietra e a primordiali rombi di tuono che ancora vibrano da qualche parte, nelle profondità della terra; quel silenzio che propaga questa vibrante sensazione universalmente comunitaria con le sue gigantesche ali invisibili, che pongono sotto la loro protezione i banconi in legno, le vetrate, i mosaici, il fonte battesimale. Ma era evidente che quel giorno ci fosse qualcosa di strano, qualcosa in grado di mettere in fuga uno qualsiasi di tutti i numi regolatori della primitiva vita del pianeta: anche se ci fosse stato un matrimonio, o una benedizione di qualche tipo, il silenzio non avrebbe trovato il trespolo che lo invitasse a scendere momentaneamente sulla terra, poiché là c’erano molte, troppe anime in conflitto. Un luogo fin troppo simile all’inferno, di cani feroci l’uno con l’altro e di lacrime che si mescolano con il magma del sottosuolo, per permettere una riproduzione temporanea della quiete celeste. I singhiozzi del Dr. Robotnik erano diventati sempre più forti e incontrollati, Charizard e Bowser continuavano a starnutire fiamme, a causa di una qualche reazione allergica, provocata da uno dei simpatici piccoli amici vegetali di Olimar. E, anche quando proprio questa situazione sembrava sul punto di indirizzarsi verso un compromesso di calma e tranquillità, ecco Resetti. La burbera talpa sbuffava pesantemente a causa della presenza dell’allenatore di Little Mac e di un tale che sosteneva di essere lo spacciatore del defunto. 

Il Signor Resetti era un personaggio tristemente noto per i suoi momenti logorroici, insopportabili. Nessuno capiva il motivo di cotanta frustrazione e neanche le poche informazioni estrapolategli dalle spie sovietiche furono abbastanza per ricostruire la sua vita. Tanto era misteriosa, che si dice nacque insieme alle grandi praterie del nord, per miracolo. Erano certe due cose, ahimè, oltre al suo modo di vivere scontroso. Traeva tutta la sua forza, quella che gli permetteva di andare avanti con persistente veemenza a dispetto della veneranda età, da due semplici princìpi: l’odio e il dovere. L’odio che, ovviamente, era diretto a chi non rispettava i valori dei padri, e il dovere di far sì che questi stessi valori continuassero a scorrere, come in un’opera idraulica ben funzionante, in tutte le faccende della vita, così da permettere al sole di sorgere ogni mattina e tramontare ogni sera. Chiunque mancasse di decenza e decoro, secondo il suo parere, non era considerabile animale, possessore di anima. Oh, povera gente! Il suo odio l’aveva reso cieco, e adesso la presenza di due esemplari negri nel medesimo luogo gli recava un profondo sdegno, secondo solo al sentimento di lutto che provava in quel momento. Sentimento, si pensa, indotto dal suo rigore morale. Il funerale infatti rappresenta ancora un valore tradizionale, una delle pochissime tradizioni salve in un mondo che andava trasformandosi sempre più in uno scherzo. Ma la lor presenza, no, non poteva rimanere comunque impunita.

 Si girò verso il suo vicino di posto, per trovare complicità. A sinistra vi era un montanaro originario di Mineropoli, che ansimava e tossiva a intervalli regolari. Il suo sudore era unto e aveva in testa briciole di pane. Lo guardò e sorrise. A destra si era messo a sedere lo spacciatore, che, masticando gomme al cocomero, diede il suo biglietto da visita ai vicini. “Voglio i soldi” recitava il cartoncino rettangolare, rigorosamente verde. Provò allora a voltarsi indietro, in previsione del momento in cui il parroco avrebbe invitato gli astanti a scambiarsi un segno di pace. C’erano un uomo sui trentacinque anni, vestito come un esploratore, con cappello e fune a tracolla, probabilmente uno scoprirovine. E, accanto a lui, una donna dai capelli verdognoli. Colpiva immediatamente una loro inspiegabile stasi, che si faceva particolarmente forte negli occhi fissi e spalancati, senza mai sbattere, verso un punto imprecisato nel vuoto. L’unica parte del loro corpo che si muoveva e anzi, non si arrestava mai, erano le labbra che fremevano senza interruzione nel loro frenetico articolare frasi pronunciate con un fiato lievissimo, appena udibili, come un mantra nascosto che si produce da solo. A guardarli, pareva che fossero destinati a star fermi là, a ripetere sempre le stesse cose, a guardare i granelli di polvere fluttuare nell’aria e posarsi più delicati del nevischio su tutti gli stagni, tutti i colli e i prati formati dalla luce pomeridiana che inondava il pavimento.

“E lì vedo mio padre. E mia madre. La mia vita. E lì vedo la natura. I Pokémon. Il mondo.”, diceva l’uomo.

“Ci sono ancora parole che nessuno sa descrivere… le parole sono “amore” e “gioia””, diceva la donna. La talpa, ricordandosi le cantilene dei bonzi che vedeva pregare sotto le cascate in una disgraziata guerra combattuta tanti anni prima nel lontano oriente, capì che sarebbe stato meglio farsi i fatti propri e sopportare in silenzio.

Il prete si schiarì la voce, ma presto una vampata illuminò la sala e tinse di nero una parte del muro, bruciando e sciogliendo antichi manufatti, risalenti al periodo della civiltà di Sinnoh. Eggman subito si destò dal lungo pianto e maledì Bowser, che ricambiò con un’altra fiammata intensa, questa volta però su di lui. Il Dr. Robotnik allora si alzò in piedi e tirò fuori con rapidità la sua pistola. Dopo essersi guardati malissimo, furono richiamati da alcuni invitati, che erano stufi di tutto quel baccano e volevano dare la giusta dignità al loro caro amico. Tuttavia, all’altra metà non importava molto, anzi, era un momento di svago in una lunga giornata di prassi e noia, riempita dall’odore di legno antico, adesso bruciato. Tutti notarono, pur tenendosela per sé, l’ovvietà che ciò richiamava: le cose bruciate hanno sempre un odore più forte di quello che avevano prima, per quanto pungente, originale, riconoscibile potesse essere.

Il suono della campana rese di nuovo più mansuete le anime. Si alzarono tutti in piedi ed entrò l’organista, un certo Bob Dylan. Suonava il nuovo inno mondiale, che ripercorreva le note della Mute City, la città del grande eroe che si sacrificò per l’umanità.

Sonic era rimasto seduto. Osservava il fuoco delle fiaccole, incantato. Il fuoco si muoveva, era autentico, vivo. E adorava come esso divorasse la sorgente da cui attingeva energia.  Il contrario esatto di tutta quella gente.  E soprattutto, non capiva il motivo di cotanto sfarzo. Il suo amico non avrebbe voluto tutto questo. Avevano chiamato persino un musicista famosissimo, ma di cui probabilmente Knuckles non aveva neanche sentito parlare. Le echidne, del resto, non ascoltano musica.

“Tutte queste cose non devono essere così” disse sottovoce, sopraffatto dalla melodia che cancellò la sua voce.

Il prete aveva capito che a quel punto la comune decenza in cui operava solitamente le sue funzioni non sarebbe arrivata, e iniziò il rito nonostante le interruzioni non cessassero, non potendo rimandare ulteriormente. Adesso i Pikimin dell’astronauta starnutivano, per un qualche tipo di reazione scaturita dal possente Charizard. Resetti cambiò posto, dopo che i suoi vicini avevano iniziato a conoscersi e a fumare della marijuana, facendo cadere almeno tre sedie e creando un boato che echeggiava nel vuoto della struttura, riempito subito da commenti e risatine. Ma era il meglio che si potesse chiedere.

All’improvviso, si spalancarono le grandi porte, che irradiarono la stanza con raggi solari. Lo spacciatore scappò via, credendo fossero le forze dell’ordine, Sonic si destò dal suo sonno e bevve un altro sorso di vino. Fannie, la capopalestra della città, si morse nervosamente il labbro. Entrò correndo una figura arancione che ruotava su sé stessa, fracassando e demolendo tutti gli arredamenti, come se fosse una calamità naturale. Questo tifone umanoide si recò al centro del duomo e cominciò a urlare parole incomprensibili, eseguendo nel mentre una macabra danza epilettica, contorcendosi e roteando gli occhi. Sembrava posseduto. Ma nel mentre entrò svolazzando una maschera tribale, ornata da penne multicolore, che subito esclamò :

“Tranquilli, io capisco cosa dice e lo tradurrò per voi. Sapete, ho studiato l’Australiano per anni. Il mio amico sostiene che tutto ciò sia australiano almeno 67.”

I presenti si guardarono tra loro spaesati. Fannie si alzò in piedi, con occhi che sembrava dovessero sanguinare da un momento all’altro.

“Ah, era australiano”

“Sessantasette de che”

 “Ma chi è questo”

"Ciò che conta è che tutti siano al corrente che l’echidna è un animale australiano.” Disse il saggio mascherone. “ Proprio come un bandicoot. Siamo australiani, e dovunque ci sia qualcosa di australiano da reclamare, noi arriviamo! L’australianità dell’echidna è insormont-“

“BASTA”

Un urlo gelò il sangue ai presenti.

“HO DETTO BASTA” ripeté la capopalestra spettrale.

Sonic bevve un altro po’, macchiandosi il vestito di rosso. Lo osservò un po’, mentre la francese camminava verso l’intruso.

“Odio questa giornata. La odio con tutta me stessa. Volevo che fosse dolorosa il meno possibile, ma dal giorno del mio divorzio con Knuckles la mia vita è un inferno. E quella era solo la punta dell’iceberg, a quanto pare. Ma che diavolo vi salta in testa, eh? Capisco che dei buzzurri animali siano stati amici e conoscenti del mio… del mio adorato Knucky, ma io non vi sopporto neanche un po’!”

L’aria era sempre più densa e tesa.  Le vene sul suo collo palpitavano in modo tale che i presenti potevano immaginarsi il suono del sangue che schizzava dentro di queste. Nessuno osava fiatare. Fannie si avvicinò verso la bara, con le lacrime che le bagnavano il viso.

“Ho pagato tantissimo per organizzare questo funerale, perché io ci tenevo a lui. Io lo amavo, io… io… - la donna si accasciò al suolo, scoppiando a piangere a dirotto, come se fosse da sola – io lo amo ancora!”

Quello che successe fu, secondo molti illustri sociologi che ebbero modo di approfondire gli avvenimenti di quella giornata, uno dei primi sintomi di una realtà che non può piegarsi alla teoria. Il punto d’incontro tra la vita, scintillante ed ebbra, e la morte, solenne e composta.

La donna dai capelli purpurei si alzò di scatto, strappandosi i gioielli che ornavano il suo collo. Si sfilò le scarpe mentre correva, lanciandone una in testa a un addetto alla sicurezza che voleva bloccarla, e si gettò a capofitto davanti alla bara. Buttò a terra anche la veste nera ornata da teschi e fuochi fatui viola, rimanendo in mutande. Osservava, respirando con molto affanno, la salma del suo ex marito: vestito con giacca e cravatta neri, gli stessi che indossò al matrimonio con la capopalestra, e nel taschino vi era un garofano ben curato, suo fiore preferito. A quel punto, le sue intenzioni erano chiare come la luce del sole. Tutti lo capirono da quello che indossava: lingerie costosissima, trasparente, che mostrava tutte le sue forme a chiunque. Un tempo, conservò le sue doti fino al giorno in cui consumò tutto l’amore che possedeva con quello che le giaceva dinnanzi, indifferente. Si tuffò dentro. Il calore incontrò il gelo e mai più vi fu qualcosa. Gli uomini della sicurezza strapparono con la forza la donna dal defunto, mentre alcuni invitati scapparono coprendosi gli occhi.

Fu a quel punto che il signor Resetti non ce la fece davvero più.

“Non solo ci sono due negri al funerale, non solo un ebreo è stato chiamato per suonare, ma questo? Una lurida donnicciola di Kalos era sposata con un animale? Ma dove siamo, nella terra dei cachi? Eh? Sono sessantatré anni che svolgo il mio lavoro, dico, sessantatré, perché le talpe diventano maggiorenni a otto anni. Un anno e mezzo d’infanzia, credo , dove imparai i valori del bushido e del cristianesimo, che, dico, nessuno prende più in considerazione come caposaldo della morale. Eh? Voi giovani, che pensate sempre a esibirvi come dei fricchettoni, che non fanno nient’altro che lamentarsi, brutte braccia strappate all’agricoltura! Vergognatevi! Io sono allibito, ma dove diavolo è la giustizia?!”

Resetti cominciava a diventare rosso e gonfio in volto, come quando doveva perseguitare i grandi peccatori del sud, sorpresi a giocare e a spegnere senza convalidare i progressi di gioco. Molti presenti se ne andarono, altri speravano in un barlume di buon senso, che potesse rovesciare il destino della commemorazione. Ma, tra un puzzo di erba soffocante e di legna bruciata, tra pianti e risate, tra gente seduta, gente che starnutiva e gente che correva via urlando, solo un miracolo poteva riportare tutto alla normalità.

“La mia tiroide smise di funzionare a dovere quel giorno, me lo ricordo bene perché inseguivo un ladruncolo che aveva appena derubato la borsa a quella povera donna dei Sackville. Me lo ricordo benissimo anche perché non era un giorno qualunque, ma perché era il trentesimo negro di fila che beccavo a compiere furti e perché i Seattle Pilots dovevano disputare una gara. Quel giorno fecero home-run, e io stavo inseguendo un kunta kinte del ghetto, ecco perché odio il rap. E me ne trovo due vicini, adesso . Adesso! Ad un funerale! E scopro che tra l’altro era sposato con una umana! Tutta colpa di questi pride e dei furry, maledizione! E per giunta quell’ebreo sta ancora suonando, ma tanto è pagato e può fare quello che vuole, oltre a complottare contro di noi. Oh, buon Dio, dammi la forza di prendere a picconate questi disgraziati blasfemi. Anzi, no, sei troppo buono per aver donato la pazienza a una talpa umile come me. Io faccio solo il mio lavoro, non ho altro impiego che monitorare gli stoccafissi che razzolano sul terreno, combinando molti pasticci che solo Tu sai. E neanche si pentono, basterebbe almeno portare un crocifisso, diamine. Buone queste pillole. Questi giovani d’oggi mi hanno scocciato, con la loro musica piena di parolacce, sparata a palla con i bassi modificati che fanno rimbombare tutte le mie gallerie e che fanno cadere i preziosi vasi della mia zia Trapassata Pozzunta. Vergognatevi! Neanche pagate le tasse e fate quel che volete, solo perché il vostro sindaco ha avuto l’onore di aver ricevuto la lettera “Smash”! Non sono geloso, affatto, ma ciò non dà loro il diritto di…”

“Mama take this badge off of me”, cantava intanto Dylan. L’intonaco del soffitto andava sgretolandosi, cadendo come neve e coprendo i raggi del sole che entravano dai buchi e dalla grande vetrata. I pochi, veri amici di Knuckles erano lì, fermi, insieme a chi aveva in corpo ancora un briciolo di rispetto. Si guardavano i piedi, non avendo neanche il coraggio di affrontare la situazione. Fannie si sarebbe suicidata il giorno dopo, ma la cosa non sorprese nessuno, viste le sue condizioni. Ferì persino un agente della polizia e dovettero arrivare i superquattro per poter fermarla. Resetti se ne andò indignato dopo aver finito la sua storia, lasciando un gran bel buco nel pavimento.

“I’ts getting dark, too dark to see”

Sonic osservava la grande macchia rossa sul suo vestito, cercando di darle una forma che potesse ricordagli qualcosa. Amy intanto scrutava i dintorni, con aria rassegnata, fin quando posò il suo sguardo su Shadow the Hedgehog. Era lì, immobile e serio, che osservava la situazione stando in una posa davvero snaturata, ma che per lui rappresentava il massimo della serietà. La ragazza intanto osservava con interesse il modo in cui metteva le mani, il modo in cui la linea delle sue labbra si incurvava talvolta a raccontare sprezzo e arroganza, e il modo in cui il ciuffo di capelli rossi andava a coprire la metà volto.

“Knock knock knockin’ on heaven’s door…

Knock knock knockin’ on heaven’s door”
 

 

 

N.B. 

Non abbiamo alcuna intenzione di offendere gruppi religiosi, etnie e orientamenti sessuali. L'uso di parole e concetti non proprio "puliti" è funzionale alla descrizione e caratterizzazione dei personaggi e dell'universo grottesco in cui questa storia è collocata. Pertanto, ogni tipo di intervento va a modificare irreversibilmente il prodotto artistico, rovinandone la forma e il senso.

 

Detto questo, buona lettura. 

 

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