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Durata del Contest: dal 4 maggio al 22 maggio 2015 (ore 23:59)

Annuncio dei risultati del Contest: 31 maggio 2015*

*A seconda del numero di partecipanti e del tempo impiegato per la valutazione, i risultati potrebbero essere pubblicati anticipatamente.

 

Benvenuti al nuovo Contest di scrittura!
In questa edizione, abbiamo deciso di concentrarci su un genere particolarmente importante nella letteratura mondiale: il romanzo.
 
Requisiti per partecipare
 
Per partecipare è necessario un account nella community di Pokémon Millennium. Per maggiori informazioni su come registrarti nella Community di Pokémon Millennium clicca qui.
 
Regolamento

  • Il testo dovrà  essere scritto ispirandosi ad un romanzo, presentando quindi un intreccio narrativo (ciò non significa dover scrivere un romanzo, ma un testo che possa rappresentarne o una parte, o un riassunto, o anche ispirandosi semplicemente dal loro stile). Inoltre dovrà  ispirarsi a fatti di vita quotidiana, per questo le tipologie di romanzo da cui dovrete prendere spunto e che saranno accettate sono: il romanzo d'amore (ad esempio Orgoglio e Pregiudizio), il romanzo psicologico (ad esempio Il Fu Mattia Pascal, La coscienza di Zeno), il romanzo sociale (ad esempio Il buio oltre la siepe) e il romanzo comico-umoristico (ad esempio Yes Man);
  • A meno che non venga specificato nella traccia, non importa la persona in cui sarà  scritto il racconto;
  • Non vi sono limiti sulla lunghezza dell’elaborato. Tuttavia, non potrà  essere scritta una Fan Fiction a puntate: l’elaborato dovrà  essere scritto interamente in un unico messaggio. È possibile suddividere il racconto in capitoli, l'importante è che sia un blocco unico;
  • L’elaborato dovrà  essere inedito: è vietato usare racconti scritti e pubblicati già  in precedenza su Pokémon Millennium o altrove;
  • È severamente vietato copiare lavori altrui! Se lo scrittore sarà  sorpreso a rubare un elaborato verrà  squalificato dal Contest e dalle iniziative future.
  • Il topic sarà  utilizzato esclusivamente per postare il proprio elaborato. Per partecipare, infatti, sarà  necessario soltanto rispondere a questa discussione;
  • Una volta consegnato il proprio elaborato non sarà  possibile modificare neanche una parola (a meno che non venga permesso dagli organizzatori), pena: esclusione dal Contest.

Come partecipare
 
Una volta scritto il proprio elaborato, sarà  sufficiente rispondere a questa discussione inserendo la propria opera e alcuni dettagli. 
Lo schema da seguire è il seguente (clicca il pulsante spoiler!):


Nome dell’autore: inserire qui il proprio nickname!
Titolo: inserire qui il titolo del proprio elaborato!
Elaborato: inserire qui il proprio lavoro!



Una volta pubblicato, non sarà  possibile modificare il messaggio, pena: l’esclusione dal Contest.
 
Premi in palio
 
I premi in palio, che varieranno a seconda del numero dei partecipanti, per questa competizione sono i seguenti:

  • Il primo classificato riceverà  in premio una copia del gioco Tomodachi Lifedai 15 ai 30 PokéPoints da utilizzare nella community di Pokémon Millennium, un Fiocco Speciale gnACsIv.png nel proprio profilo e una targhetta;

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  • Il secondo classificato riceverà  dai 10 ai 25 PokéPoints da utilizzare su Pokémon Millennium, un Fiocco Speciale gnACsIv.png nel proprio profilo e una targhetta;
  • Il terzo classificato riceverà  dai 5 ai 20 PokéPoints da utilizzare su Pokémon Millennium, un Fiocco Speciale gnACsIv.png nel proprio profilo e una targhetta;
  • Dal quarto all'ottavo classificato riceveranno dai 3 ai 10 PokéPoints da utilizzare su Pokémon Millennium;
  • Il vincitore del premio originalità , assegnato al creatore di un lavoro da podio, ma che si è distinto per una particolare originalità  nel realizzare il proprio lavoro, vincerà  dai 7 ai 23 PokéPoints da utilizzare su Pokémon Millennium e una targhetta;
  • I vincitori del premio di consolazione, assegnato a coloro che sono andati vicini al podio, ma non ce l’hanno fatta a classificarsi tra i primi tre, riceveranno 2 PokéPoints da utilizzare su Pokémon Millennium.

La quantità  di PokéPoints e il numero delle persone premiate aumenterà  se parteciperanno più di 90 persone o diminuirà  se parteciperanno meno di 40 persone.
 
Giudici della competizione
 
I lavori saranno giudicati da Snorlax97, ZarRomanov e Zebstrika94!
 
Domande e Assistenza
 
Per qualsiasi domanda o se hai bisogno di assistenza gli organizzatori del contest saranno sempre disponibili per un ogni chiarimento riguardante il contest. Contattaci attraverso la discussione di supporto delle iniziative!
 
Vi invitiamo a rispondere alla discussione solo ed esclusivamente per pubblicare il vostro lavoro!
 
Auguriamo a tutti un buon divertimento!       ^^

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Considerati i fraintendimenti sul tema, ho chiarito nella descrizione quali testi sono accettati nel contest, ovvero:


 


  • Il testo dovrà  essere scritto ispirandosi ad un romanzo, presentando quindi un intreccio narrativo (ciò non significa dover scrivere un romanzo, ma un testo che possa rappresentarne o una parte, o un riassunto, o anche ispirandosi semplicemente dal loro stile). Inoltre dovrà  ispirarsi a fatti di vita quotidiana, per questo le tipologie di romanzo da cui dovrete prendere spunto e che saranno accettate sono: il romanzo d'amore (ad esempio Orgoglio e Pregiudizio), il romanzo psicologico (ad esempio Il Fu Mattia Pascal, La coscienza di Zeno), il romanzo sociale (ad esempio Il buio oltre la siepe) e il romanzo comico-umoristico (ad esempio Yes Man);

Quindi, ovviamente, non dev'essere scritto un vero e proprio romanzo, ma un qualcosa che possa rimandare o nello stile o nell'intreccio ad esso, come anche un capitolo tratto da un romanzo fittizio (ovvero totalmente in medias res), una trama ben strutturata, una semplice esperienza quotidiana con particolare attenzione alle caratteristiche che rendono un romanzo tale. In maniera molto più comprensibile, il testo deve trattare di uno spaccato di vita quotidiana.


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Nome dell’autore: Mio-Sama
Titolo: NPC
Elaborato:

Prologo

 

La vita è come un disco rotto. Suona la stessa canzone da film drammatico tutti i giorni. O almeno la mia lo è. Una routine attanagliante. Mi alzo, mi preparo e vado a scuola. La mia pigrizia mi impedisce di alzarmi presto per fare colazione, o anche di velocizzare il passo in caso di ritardo. Con un inutile macigno sulle spalle percorro le strade affollate. Non importa quanta gente ci sia. Nessuno di loro mi rivolgerà  la parola, neanche per sbaglio. Una mattina, ricordo che provai a dare una spallata a un signore. Lui non disse nulla proseguendo per la sua strada. Riprovai con altri individui ma la reazione fu identica. Una città  piena di inutili formiche da schiacciare. Formiche non è la parola esatta. Loro si scambiano informazioni di ogni genere e collaborano tutto il tempo per obbiettivi comuni. Sembrano più pecore che vagano su una collina. Sembriamo. Faccio parte del gregge dopo tutto. Non posso negare il mio essere umana. Per quanto possa lamentarmi, sono io la prima a ignorare tutto ciò che mi circonda. Ripensandoci sembra più un gioco buggato, che un disco rotto. Npc mal programmati e Player subdoli fino al midollo. Già â€¦ ma io sono un Player? Non ho mai fatto mai nulla di significativo nella vita. Sarò pur una ragazzina, ma avrei potuto fare qualcosa di significativo nel mio piccolo. Magari ottenere l’approvazione dei miei genitori o l’ammirazione dei professori. Non mi sono mai curata di nulla all’infuori di me. In realtà , neanche di me. Potrei quasi definirmi un Npc dopo tutto. Però il mio agire non è programmato in ogni minimo dettaglio. Azione e reazione sono troppo casuali per potermi definire tale. Forse potrei diventare un buon Npc. Se da questo stesso istante decidessi di calcolare ogni mia azione e reazione di conseguenza a questa scelta, potrei farcela. Tanto nessuno noterà  la differenza.

 

Capitolo 1 – Costume

 

Il dado è ormai tratto. D’ora in poi il mio obbiettivo sarà  diventare un Npc perfetto. Posso continuare a seguire la routine di tutti i giorni, devo solo fare qualche piccola modifica. Un Npc è un personaggio stereotipato e il più comune possibile. Io, però, mi distinguo dalla massa. In quanto ragazza di 13 anni dovrei adottare un abbigliamento diverso. Non ho i fondi necessari per un rinnovo di guardaroba. Dannazione, sono proprio ridicola. Devo abbandonare di già ? Appena agli inizi. Non posso. La noia precedente alla mia scelta, supera la mia pigrizia. Devo trovare una soluzione.

<<Edeka, sbrigati o farai tardi!>>

La voce di mia madre arriva alle mie orecchie come il suono di una sega circolare. Ho spesso voglia di tirarle un pugno in faccia. La sua innata abilità  di disturbare nei momenti meno opportuni, mi manda in bestia.

<<Non rompere!>>

Urlarle contro non risolverà  i miei problemi. Insomma, posso davvero essere così stupida da non riuscire a trovare una soluzione al primo problema che mi si para davanti? Mia madre ha di certo molte più abilità  di me, sotto questo punto di vista. Ha anche un portafoglio pieno di soldi, tra l’altro. Che stupida! In quanto ragazzina, la mia unica fonte di denaro sono i miei genitori. Quindi devo trovare un modo di prendere i soldi dal suo portafoglio. Quando si renderà  conto della mancanza di una grossa somma di denaro, noterà  il furto e i miei acquisti saranno la prova schiacciante della mia colpevolezza. Forse potrei prendere piccole somme di giorno in giorno. Ammortizzando il furto, sarà  più difficile che se ne accorga. No, è solo un modo per ritardarne le conseguenze. Mi trovo di nuovo bloccata, dannazione! In quanto Npc cosa dovrei fare?

La madre di Edeka entrò in camera sua improvvisamente.

<<Insomma, vuoi andare a scuola o no?>>

La sua irruzione mi stravolge. Come si permette a fare una cosa simile? Però, adesso sono un Npc. Devo calibrare la mia risposta.

<<No, volevo andare a fare shopping>>

<<S-shopping?>>

La voce tremante di mia madre è come un trofeo. Non resta altro che continuare a recitare la parte dell’ Npc.

<<Le mie compagne hanno dei vestiti così alla moda e li vorrei anche io>>

Tutto dipende solo dalla sua reazione. Forza non restartene ammutolita sulla soglia della mia camera, di qualcosa. Senza un riscontro, non posso valutare la qualità  del mio Npc.

Sconvolta, la madre corse fuori dalla stanza di Claudia.

Dannazione! Un cambio così radicale è poco credibile. L’ho spaventata e adesso chissà  cosa starà  pensando. Magari crede che sia tutto uno scherzo o forse pensa che io sia impazzita. Avrei dovuto ipotizzare una sua reazione negativa e elaborare un modo per uscire dalla situazione. Dovrei andare a vedere che cosa sta facendo, ma come le spiegherò il mio comportamento? No, aspetta. Non devo spiegare proprio niente. Devo solo continuare a fare la mia parte.

Claudia raggiunse la madre in camera da letto e la trovò con il portafoglio in mano.

<<Mamma, tutto apposto?>>

<<Cosa fai ancora in pigiama? Su, vatti a cambiare!>>

<<Ormai è tardi per andare a scuola…>>

<<Ma che dici! Andiamo a fare shopping, no?>>

Sorride come se non aspettava altro nella sua vita. Una richiesta tanto vile ti rende felice? Ti sto sfruttando per i miei scopi e ti sto mentendo spudoratamente. Dovrei essere io a gioire. Il mio Npc non ha fallito. Reagirò di conseguenza.

Claudia sorrise e con un timido cenno risponse alla madre. Corse in camera sua a prepararsi.

 

Capitolo 2 – Aspetto

 

Adesso il mio abbigliamento alla moda si uniforma perfettamente con la massa. Sono riuscita persino a farmi portare dalla parrucchiera. Adesso ho il taglio  di capelli più in voga del momento tra le mie coetanee.

Tutto secondo i piani. Qualcosa però mi sfugge. Qualcosa manca. Mi guardo allo specchio e mi vedo comunque diversa dagli altri. Eppure ho curato l’abbigliamento nei minimi dettagli. Ho pure gli orecchini con il brillantino e la collana con un animaletto a caso. Cosa diavolo manca?

La madre bussa alla porta del bagno.

<<Tesoro, hai un attimo?>>

Dannata serpe, prima o poi sfigurerò il tuo viso a suon di pugni.

Claudia aprendo la porta.

<<Dimmi pure, mamma!>>

Sua madre le porse un pacchetto regalo.

<<E’ per me?>>

<<Si, pensavo che ne avessi bisogno>>

Adesso si mette pure a farmi i regali, che scocciatura.

Claudia spacchettò il regalo.

Che roba è? Una trousse piena di trucchi? Ma come ha potuto pensare che potessero servirmi… Ah! Ecco cos’era! Tutte le mie compagne di classe sono truccate! Non manca un giorno in cui non indossino un gloss sulle labbra. Mia madre è un demonio. Prima o poi scoprirò la natura delle sue abilità . Forse sa leggere nel pensiero.

Claudia contenta abbraccia la madre.

<<Grazie mille, mamma!>>

<<Puoi usare anche i miei se vuoi, ma penso che queste tonalità  si addicano meglio al tuo viso>>

<<Si, hai ragione>>

<<Forza, ti spiego come vanno applicati>>

Come ho potuto tralasciare un dettaglio simile?

 

Capitolo 3 – Indifferenza

 

Edeka entrò in classe con fare disinvolto e nessuno sembrò notarla. Come sempre, raggiunse il suo posto in silenzio.

Nessuno mi ha notata… meglio così. Non mi conviene azzardare un saluto, anche se sarebbe la classica azione da Npc. Un saluto stardard, ripetuto tutti i giorni. Ma attirare l’attenzione adesso, potrebbe rivelarsi contro producente. Mi comporterò con naturalezza e parlerò solo se strettamente necessario. Con la naturalezza di un Npc ovviamente e non la mia.

Si sedette in attesa dell’inizio della lezione. La sua compagna di banco, arrivata in classe subito dopo di lei, gettò lo zaino sul banco e si appoggiò ad esso dando le spalle ad Edeka. Controllò per qualche istante il cellulare e poi si girò a guardare Edeka. La fissò per un tempo che pareva interminabile, senza dire nulla. D’un tratto, distolse lo sguardo e andò a parlare con un gruppo di ragazze in fondo alla  classe.

Un brusio di chiacchiere iniziò a pervadere la classe. Raggiunse il suo culmine durante l’appello.

<<Edeka Wilbur>>

Edeka si alzò in piedi. Tutti gli occhi era su di lei. Le voci delle sue compagne erano molto alte ed era possibile capire cosa dicessero, nonostante fossero in tante a parlare, dicevano tutte la stessa cosa.

<<Ma chi è?>>

<<Non hai capito? E’ Edeka!>>

<<Eeh? Non ci credo!>>

 <<Presente>>

La voce di Edeka si perse nel brusio. Persino la professoressa rimase in silenzio a guardarla per qualche istante. Scossa dall’alto tono della classe si riprese e richiamò la classe al silenzio.

Mi sbagliavo… il cambiamento è troppo evidente.

La professoressa continuò l’appello, mentre i suoi compagni la guardavano di sottecchi. Tutti tranne Lara, la sua compagna di banco. La fissava apertamente.

<<Hei>>

Edeka si girò verso di lei stupita.

Che razza di saluto è “Heiâ€? O voleva solo richiamare la mia attenzione, un po’ come si fa con gli animali allo zoo? Pensandoci bene… sono mesi che non mi rivolge la parola. L’ultima volta le era caduta la penna sotto la mia sedia e non riusciva a prenderla. La conversazione si ridusse ad una sua richiesta di aiuto e a un mio cenno di consenso stizzito.

<<Dici a me?>>

<<Che ti prende?>>

Continuava a fissarla con occhi da cerbiatta.

<<Non capisco cosa vuoi dire…>>

Cavolo mi ha beccata! Non credevo che mi avrebbe affrontato così apertamente, ma specialmente non mi aspettavo che lo facesse ora. Basta davvero così poco per attirare l’attenzione e far sì che mi rivolgano la parola? Gli altri però non sembravano avere intenzione di parlarmi. Che sollievo.

<<Sei diversa>>

Sguardo serio e sempre fisso su Edeka.

<<Ah! Ti riferisci ai capelli? La parrucchiera mi ha consigliato questo taglio, dice che mi illumina il viso>> - disse Edeka prendendo tra le dita una ciocca dei suoi capelli e guardandone le punte.

<<Si…cioè, no! Voglio dire… insomma tutto!>>

Devo fare una faccia stranita. Da stupida che non ha capito un tubo. Forzaaaa, non può essere così difficile!

<<Tutto? Oggi sei proprio strana Lara!>>

Ma si, aggiungiamoci anche una risata finta.

<<Senti chi parla! Ma va bhè, lasciamo stare>>

Lara fece un breve sospiro e poi iniziò a tirar fuori dallo zaino tutto il necessario per la lezione.

Pericolo scampato. Anche se sembra strano che si sia già  arresa. Sarà  meglio continuare a comportarsi con indifferenza.

 

La lezione continuò tranquillamente. Così come i giorni a scuola di Edeka. Continuò a mantenere un comportamento distaccato e non fece amicizia con nessuno, nonostante in molti la trattassero come se lo fosse. La fine dell’anno scolastico era quasi arrivata e si avvicinavano gli esami di terza media.

 

Capitolo 4 – Leggerezza

 

Edeka, da poco rientrata da scuola, stava guardando un reality show in televisione.

Non è poi così male. Inizialmente fissavo lo schermo senza prestare attenzione. Da brava Npc devo seguire un la routine standard di un ragazza della mia età  e quindi i reality sono d’obbligo. Ma adesso, comincio ad apprezzarli. Sembrano quasi degli Npc che giocano a fare i Player. Che ridere! Non capisco come possano voler essere dei Player a tutti i costi. Da quando sono un Npc la mia vita è diventata grandiosa. Non ho più problemi con mia madre, che è felice come un pasqua quando mi vede agire da Npc. Non ho più problemi  a scuola, l’impegno necessario è minimo e ormai passo completamente inosservata. Tutte le azioni e scelte che faccio durante la giornata sono standard. Non ci penso neanche più prima di agire, mi viene naturale. Mi sento così leggera e spensierata… ho fatto davvero un ottima scelta, essere un Npc è la cosa migliore del mondo.

<<Edeka, hai finito la tesina?>>

<<Si,  mamma>>

<<Qual’era l’argomento che avevi scelto?>>

<<La guerra e la pace>>

Il tema più comune e trattato in assoluto.

<<Ah, si! Me lo avevi detto! Ma non volevo chiederti questo, mi sono confusa, che sciocca! Volevo sapere a quale scuola superiore vuoi iscriverti, ci hai pensato?>>

<<Ancora no…>>

<<Se sei indecisa è semplice! Devi solo scegliere in base al mestiere che vorresti fare da grande o in base alle tue attitudini >> - disse sua madre sorridente.

Mestiere? Attitudini? Ma cosa va blaterando? Gli Npc non fanno nulla di tutto ciò. O meglio qualcuno lavora, ma nella vita reale sono i Player a svolgere queste funzioni. Però devo scegliere in qualche modo. Non posso smettere di andare a scuola. Farò delle ricerche.

<<Oppure scegli lo stessa istituto delle tue amiche! Hahaha >>

Ottima idea! Anche se non ho amiche, posso seguire la massa basandomi sulle scelte dei miei compagni di classe. Mia madre è il solito demonio.

 

Il giorno seguente a scuola.

<<Ciao ragazze, come va?>>

<<Bene, tu?>>

<<Bene, anche se ho difficoltà  a scegliere la scuola a cui iscrivermi l’anno prossimo>>

Una piccola indagine, risolverà  ogni problema.

<< Io andrò al liceo scientifico. Mi piace molto la matematica! Ma forse Elly può darti qualche consiglio… Elly! Vieni qui un momento!>>

Elly, seguita da altre ragazze, le raggiunse.

<<Cosa c’è?>>

<<Consiglia ad Edeka una scuola superiore>>

<<Ok! Dipende tutto da cosa ti piace fare o in cosa sei brava, per esempio, in quale materia hai il voto più alto?>>

Elly guardava Edeka incuriosita.

<<In realtà â€¦ ho la media del sei in tutte le materie>>

<<Strano! Ma fa niente, cosa ti piace fare?>>

Io non ho interessi… che risposta posso darle? Non posso mica dirle che un Npc non dovrebbe fare alcun tipo di scelte importanti.

<<Tipo, a Giuly piace cucinare e quindi frequenterà  l’istituto alberghiero. Vandal invece, va matta per i computer e quindi ha scelto un indirizzo informatico…>>

<<Non c’è un istituto a cui si iscrivono in molti? Tipo tantissime persone, senza un motivo particolare>>

<<Ovviamente no! Ne va del nostro  futuro, come si potrebbe seguire una sorta di moda per fare questa scelta?>>

Edeka si alzò di scatto e corse fuori dalla classe, attraverso il corridoio e ci chiuse in bagno.

Dannazione! Dannazione! DANNAZIONE!

Seduta sul water teneva la testa tra le mani.

Non posso scegliere! Sono un Npc! Questa è roba da player! Questo stupido sistema sta rovinando i miei piani. Il mio quieto vivere. Avevo finalmente trovato il mio posto. Il modo migliore in assoluto di vivere. E adesso? Questo dannato mondo vuole costringermi a diventare un dannato player!

 

Capitolo 5 – Player

 

Stremata Edeka giaceva nel suo letto con il cuscino appoggiato sul viso.

Un Player deve fare delle scelte… deve unirsi a questo stupido gioco al solo scopo di raggiungere la popolarità  o accumulare una grande quantità  di denaro. Se sei un Player e non cerchi di raggiungere questi obbiettivi e ti accontenti di cose piccole, verrai schiacciato o dagli altri o dal sistema. Perché tutto questo? Perché non possiamo rimanere noi stessi e vivere di piccole cose? Questo dannato sistema… spendere tutta la vita dietro a degli interminabili obbiettivi. Gli animali vivono al solo scopo di sopravvivere e di godersi a pieno la vita. Perché gli umani devo sottomettersi a questo sistema invece? Perché ci sono così tante variabili e possibilità ? Nascere e solo dopo dover trovare uno scopo alla tua vita… Ma che dico, sto delirando. Ho già  detto lo scopo che tutti devono avere. Ma gli stessi obiettivi si possono raggiungere in modi diversi.

Io… non voglio piegarmi al sistema. Io non voglio diventare un Player, desidero solo la pace eterna.

 

The end…

 

 

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Nome dell'Autore: Miche27

 

Titolo: I suoi occhi...

 

Elaborato:

1° Capitolo (Amour):

 

Un bambino di circa otto anni camminava avanti e indietro per la piazzetta del piccolo paesino, «Ricorda – gli disse il padre mettendogli in testa il berretto – lo fai per te, lo fai per noi, non aver timore, e una cosa – disse prendendo due libri, e mettendoli nella casacca del bambino – aprili ogni tanto eh!» il bambino sorrise a quelle parole, ma l'ansia lo divorava.

Una donna corse fuori, era sua madre, «Tesoro mio, copriti bene, che su fa freddo!» disse lei dandogli una sciarpa in lana, nonostante fosse ancora estate in montagna faceva un po' più freddo, forse sua madre era esagerata, ma lo faceva per il suo bene.
L'uomo strinse la vita alla donna, «Mi raccomando, fai il bravo, il signor Riva ci dirà  come ti comporterai e se farai lo scansafatiche le prendi!» disse l'uomo al bambino.
«No, stai tranquillo papà , farò del mio meglio, ma...pensate a voi, ho paura» disse il bambino angosciato.
«Non ci accadrà  nulla, i bombardamenti non ci fanno paura piccolo mio» mentii la madre.
Il bambino sorrise, ora era leggermente più sicuro.
Stava per partire quando arrivò in tutta fretta una giovane, correva a perdi fiato, sembrava quasi che la stessero inseguendo.
«Giacomo!» urlò la ragazza.
Il bambino spalanco gli occhi, «Liliana! Sei venuta allora!» disse lui con la voce ricolma di gioia.
La giovane andò da lui col fiatone, «Ecco – gli disse porgendogli tre mele - tutte per te, so che ti piacciono» continuò lei.
Il bambino le mise nella sacca, «Grazie!» disse, Liliana sorrise, in lontananza si sentivano i rombi delle automobili e delle moto.
Tutti pensarono alle SS, era il loro giorno di perlustrazione, venivano una volta ogni due settimane.
Le guardie si fermarono davanti quella scena, sembravano divertiti, ma allo stesso tempo ammaliati della troppa bellezza della giovane, ma Liliana e Giacomo fecero finta di nulla.
«Ti porterò un regalo Lili!» esclamò gioioso lui.
«Ma no! Cosa pensi di trovare in montagna fra le pecore e le capre?» domandò lei divertita.
«Lo so io!» disse lui.
La giovane gli carezzò la nuca, «E' solo una settimana, tranquillo, fa il bravo pastorello» disse lei sorridendo amabilmente.
Lui annuì e disse ai suoi genitori e a Liliana «Arrivederci!» e si voltò, urlava contro le pecore, era il suo momento, si sentiva quasi adulto.
Liliana lo fissava allontanarsi, gli occhi dei genitori erano colmi di angoscia, notando le SS si allontanarono silenziosamente.
Le giovane si voltò verso le guardie, l'aria del mattino le pizzicava le guance, aveva gli occhi stanchi, sembrava che non dormiva comodamente da secoli, il suo fisico era snello, aveva lunghe gambe affusolate, aveva piccoli fianchi e un'aggraziata vita a vespa, indossava un abito estivo, a maniche corte, viola con sopra dei fiori, arrivava fino poco sotto il ginocchio e creava un forte contrasto con la sua carnagione lattea, leggermente colorata dai raggi solari estivi, ma nonostante questo era una carnagione troppo chiara, e sudata, sembrava avesse appena finito di fare uno sforzo enorme, il vestito aveva una leggera scollatura a V che lasciava intravedere leggermente il decolté, che sembrava troppo grande in confronto con quell'esile corpicino, ma non lo era, non era volgare come quello di una prostituta, ma neanche inesistente come quello di un'adolescente e sopra il vestito portava un leggero golfino grigio con le maniche a tre quarti.
I suoi occhi erano incavati, di un blu profondo, troppo blu per la sua carnagione, aveva gli occhi da cerbiatta, con delle lunghe ciglia, il naso era regolare, leggermente all'insù verso la fine, la sua bocca era scura, morbida, piccola e carnosa, le sue gote erano tinteggiate di un leggerissimo rosa, le sue sopracciglia erano di poco più scure dei capelli ed erano leggermente incurvate.
I capelli erano biondissimi, di un biondo sabbia chiaro, tendente al beige chiaro.
Era bellissima.
Una gioia per gli occhi, portava una lunga treccia di lato, aveva il fascino di una ninfa, era troppo, troppo per quei soldati che non vedevano una bellezza del genere ormai da troppo tempo.
Si persero a fissarla mentre con movimenti lenti ritornava verso casa, la giovane non comprese lo sguardo degli uomini verso di lei, abbassava il viso mentre camminava vicino a loro, ma per un millesimo di secondo alzò gli occhi, e quello fu l'inizio della fine, della loro fine.
Vide dei profondi occhi color acquamarina che la fissavano, per quei pochi secondi si perse in quel mare, erano troppo belli quegli occhi per essere veri, non erano né verdi, né azzurri, erano color del mare.
Lui le sorrise, fu un gesto involontario, quel sorriso la fece arrossire violentemente, era bellissimo, era alto, troppo alto rispetto a lei, aveva la carnagione rosea chiara, era snello, il fisico era asciutto, la divisa lo invecchiava e lo snelliva ancora di più, i suoi capelli erano castano scuri, molto simili al cioccolato fondente con dei riflessi leggermente ramati, non aveva mai visto un uomo così bello, il cuore iniziò a batterle all'impazzata, non aveva mai provato quella sensazione in vita sua, neanche per il fantomatico ragazzo di un anno in più di lei che diceva qualche anno prima di amare e al quale aveva riservato solo per lui un castissimo bacio a stampo, ma se n'era subito pentita.
Alla vista degli occhi blu della giovane si contorse lo stomaco al giovane ufficiale, ma l'uomo non voleva cedere a quella deliziosa sensazione, vedeva che lei provava lo stesso, lo notava dal viso arrossato e dagli occhi che brillavano, ma lui rimase impassibile, sfoggiando uno dei suoi più belli sorrisi.
La giovane riabbassò lo sguardo, aveva provato più sensazioni in quei secondi che in quasi diciannove anni della sua vita, era troppo.
Notava lo sguardo su di lei, pensava che volessero parlare con lei, farle un interrogatorio, ma lei non aveva fatto nulla!
Velocizzò il passo tenendo sempre la testa bassa, era paonazza, era un bollore unico.
Appena fu lontana da loro iniziò a correre, come se volesse scappare da quell'emozioni, ma ormai avevano preso il sopravvento.
 
Passò così una lenta settimana, tutto procedeva normalmente, in parte.
La giovane non riusciva a scordarsi di quello sguardo, gli era rimasto in testa e quel sorriso lo sognava la notte.
Mentre lavorava o aiutava sua madre quelle sensazioni sembravano un lontano ricordo, ma appena aveva dieci minuti solo per lei si ripresentavano, si sentiva bollente sulle guance solo a pensare al colore dei suoi occhi e una sensazione strana, fastidiosa ma allo stesso tempo piacevole prendeva il sopravvento nello stomaco.
Lei pensava che però non c'era ragione di pensarlo, tanto non lo avrebbe più rivisto e se anche lo avrebbe rivisto non avrebbero mai avuto un occasione per parlare.
 
Dopo quella lenta settimana Giacomo fece ritorno a casa, era fiero di se stesso, aveva contribuito a sfamare le sua famiglia, era felice, si sentiva un po' adulto.
Con lui la vita di Liliana poteva ritornare definitivamente normale.
I due si rincontrarono nella piazzetta del paese, lui urlò il suo nome, lei si voltò di scatto, «Piccolino!» disse lei piena di gioia.
Lui fece una smorfia, «Scherzo, lo sai, allora: com'è andata?« domandò lei sorridendogli.
«Benissimo, poi il signor Riva è simpaticissimo» rispose Giacomo sorridendo gioioso.
Liliana sorrise, «Bene, sono felice per te!» esclamò.
«Ho il regalo per te Lili» disse Giacomo, tornando serio, Liliana fece una smorfia divertita.
Prese il fiore e glielo porse, Liliana sorrise, «E' un giglio bianco, ed è solo tuo - disse serio lui - vedi, è bello come te» spiegò il bambino.
Liliana lo ringraziò, era davvero bello, «Grazie Giacomo» disse Liliana, il bambino si tolse il berretto e sorrise.
« Sai – disse lui facendo un sorriso - papà  mi ha detto di leggere, ma non ho avuto proprio tempo!» disse lui giustificandosi.
Liliana fece una smorfia, «Questo pomeriggio vieni da me, leggeremo assieme» disse lei accarezzandogli una guancia.
Il bambino prima di andarsene disse: «Grazie, sai che leggo malissimo.»
Liliana si mise una mano sul fianco e sorridendogli divertita gli disse: «Leggerai bene Giacomo!» il bambino rise, la salutò e se ne andò verso casa.
 
Quel pomeriggio Giacomo lesse meglio del suo solito, lui odiava la scuola, ma con Liliana era diverso, lei era brava con i bambini, lei voleva andare a studiare per diventare maestra, ma la scuola superiore era troppo lontana e costosa, i suoi genitori fecero un enorme sforzo solo per mandarla sino alle medie.
Verso le cinque del pomeriggio lui andò dal parroco del paese, da bravo chierichetto, così allora Liliana andò al centro parrocchiale femminile, lì ricamava, poteva leggere tutti i libri che voleva, ballava con le sue amiche e ascoltava musica.
 
Il giorno del mercato le SS si ripresentano, lei ogni volta che usciva si preparava bene, pensava che doveva essere presentabile per lui, perché quando doveva scegliere quale dei tre abiti mettersi pensava "Gli piacerò?", erano dei ragionamenti contorti, che persino lei non capiva.
Quella mattina indossò l'abito della domenica, nonostante fosse solo sabato, era l'abito più bello che aveva, era celeste, con le maniche a tre quarti, leggermente a sbuffo, con la scollatura rotonda, era quello che non aveva rammendature, lo aveva cucito lei stessa.
Poco sotto lo scollo aveva tre bottoni blu, e uno di essi era slacciato.
Portava i capelli sciolti, le arrivavano fino a metà  schiena, un po' più oltre, era da moltissimo che non gli tagliava, non erano lisci, erano un po' mossi, leggermente ondulati, per via della sua abituale treccia.
Era un onda di fili d'oro, platino, beige e color sabbia, morbidi, appena il maggiore la vide col cesto della spesa pensò a quanto fosse bello poter accarezzare quell'onda di capelli.
Provò a cacciare via quel pensiero, ma non riusciva.
Era più bella di una ninfa, la osservava mentre con estrema grazia comprava le uova al mercato, lui si accese una sigaretta mentre contemplava quella visione di straordinaria bellezza, innocenza, purezza e seduzione.
I loro sguardi si incrociarono per pochi secondi, lui le sorrise, era un sorriso più bello dell'altra volta, lei gli sorrise leggermente ed arrossì.
"Non era l'ultima volta" pensò lei aggiustandosi involontariamente i capelli.
Lui distolse per poco lo sguardo da lei, era richiamato da un suo soldato, appena rialzò il viso lei non vi era più, strinse i pugni.
Provò a cercarla con lo sguardo e appena la vide parlare con un suo coetaneo gli si raggelò il sangue nelle vene, lo stomaco gli si contorse brutalmente e una strana carica di energia negativa lo pervase, buttò la sigaretta a terra, lei stava ridendo di gusto con un uomo, mentre a lui aveva riservato un timidissimo sorriso.
Strinse la mandibola, serrò i denti, non era lui, qualcosa stava prendendo il sopravvento in lui.
Urlò ai soldati di salire in macchina e di andare nel paesino successivo, tutti lo sentirono, la sua voce entrò nelle orecchie di Liliana come una violenta pugnalata al petto, era una lingua così fredda il tedesco.
Guardò verso la sua macchina, tutto era durato così poco, si rintristì.
«Che hai Lili?» le domandò il ragazzo prendendole il braccio.
«Niente!» disse acida lei mollando la sua presa e allontanandosi da lui, il maggiore a vedere ciò si placò.
Sospirò, si mise a fissarla dal finestrino della macchina, lei si voltò verso di lui.
Lui accennò un sorriso, lei rimase immobile a fissarlo, quegli occhi sembravano entrarle dentro.
"Sorridi!" pensava lei, doveva sorridere, ma non riusciva, era rimasta immobile ad ammirare gli occhi dell'ufficiale.
Abbassò il volto, la macchina era ormai lontana e finalmente riuscì a sorridere, di una felicità  mai prova prima, il maggiore si godette la sua risata dal finestrino retrovisore.
 
2° capitolo (Sh...):
 
Ciò che stava facendo era sbagliato, lo sapeva benissimo, ma lui non poteva fare a meno di non vederla, erano passati solo tre giorni da quando la vide al mercatino del suo paese e sentiva qualcosa all'altezza del petto, ma non capiva cosa potesse essere.
Appena il maggiore Klein entrò nel piccolo paese tutti rimasero folgorati, non capivano come mai fosse lì, non era giorno di perlustrazione quello.
Il suo scopo era uno solo: ammirare la giovane che aveva visto più volte in quel piccolo paese.
Andò al centro parrocchiale femminile e la vide, la spiava da dietro il muro, ove si ergeva un enorme cancello di ferro.
Lei era lì, che rideva, aveva una risata fantastica, poi si alzò in piedi e si mise a ballare con un sua coetanea, era una visione.
«Liliana» disse una giovane, la sua adorata si girò, subito gli occhi del maggiore brillarono, "Ecco come si chiama" pensò.
Liliana si voltò verso la giovane dai capelli scuri, « Sì Benedetta?» domandò sorridendo.
«Sabato ti ho vista al mercato con Alberto, dicci dai...c'è qualcosa fra voi?» chiese Benedetta facendo un sorrisetto beffardo che infastidì moltissimo Liliana.
Liliana si fece seria, «Assolutamente nulla!» affermò.
«Dai non essere timida!» disse Benedetta, Liliana rise istericamente, era nervosa, si notava dal modo in cui muoveva ritmicamente la gamba destra.
Sbuffò sonoramente. «Benedetta, mi conosci, se dico una cosa è quella!» disse Liliana.
Benedetta si fece seria. «Quante storie! Comunque a lui interessi un pochettino...si vede, ma è un timidone per parlane con tuo padre» spiegò lei.
Liliana alzò le spalle, «Meglio che non gliene parla, a me Alberto sta simpatico, è una persona eccezionale, gli voglio molto bene, ma nulla di più!» spiegò.
Benedetta disse: «Va bene Lili, ma non serve innervosirsi! C'è qualcosa che ti turba, si nota, è da molto che sei così...sembri sognante...non ti vedevo con quella faccia da quando ti piaceva Riccardo! N'è vero ragazze?»
Tutte in coro risposero con un sonoro «Sì!»
« Anzi – disse Benedetta fissando Liliana negli occhi e facendosi sempre più seria - c'è di più, gli occhi ti brillano, che succede?»
Liliana si portò le mani al viso, «C'è qualcuno?» domandò Benedetta sorridendo.
«Dai Lili!» la incoraggiò una ragazza del gruppo a parlare.
«Ehm – disse Liliana sedendosi, - Non c'è nessuno!» spiegò arrossendo.
Il maggiore sapeva che mentiva, sperava che quel qualcuno fosse lui, sperava che il rossore sulle sue guance quando incrociava il suo viso non fosse imbarazzo, lui sperava.
«Ah sì?» disse Benedetta incrociando le braccia al petto.
«Sì!» disse Liliana esasperata.
«Ho osservato sabato al mercato» disse Benedetta, il sangue nelle vene di Liliana si raggelò, al maggiore si contorse lo stomaco.
«Hai cacciato via Alberto, eri impegnata su altro... - disse lei con fare pensieroso, - E' ovvio che c'è altro!» spiegò.
Liliana si alzò dalla sedia, sembrava arrabbiata, disse ad alta voce: «Non c'è nessuno e se ci fosse non penso possa interessarvi, ora me ne vado a casa che devo preparare la cena. A domani!» e se ne andò.
Il maggiore si premurò di nascondersi alla perfezione quando la vide uscire dal cancello.
Appena fu lontana abbastanza iniziò a seguirla, camminò molto, fino a quando uscirono dal paese e attraversarono un lunghissimo viale di olmi.
Al termine del viale vi era una casa che non era in condizioni perfette, e intorno vi erano molti campi di grano.
La giovane non si accorse mai di essere seguita, appena lei entrò in casa il maggiore dovette rassegnarsi a ritornare nella sede centrale.
 
Fu così per circa una settimana abbondante, lui arrivava in paese e la spiava, la spiava mentre lavorava la terra, mentre pregava in chiesa, mentre cantava, ballava, leggeva, mentre si sdraiava sotto le betulle godendosi il silenzio totale.
Era come ammirare un'opera d'arte, come la Venere di Botticelli, no anzi, lei era qualcosa di più innocente e puro, una ninfa, bella, innocente e che metteva ai piedi persino il padre degli dei.
 
Il giorno delle perlustrazioni si tenne nella prima settimana di ottobre, Liliana andò in piazza nella speranza di rivedere il maggiore.
Arrivò Gianmarco, un suo amico e le offrì un passaggio in bicicletta, lei accettò di buon grado.
Appena giunti in piazza i soldati tedeschi iniziarono a fischiare, «Non guardarli Lili! Non sei mica un cane eh» disse irritato Gianmarco, Liliana abbassò il volto.
Uno fece un commento in tedesco, lei non capì nulla, tanto meno Gianmarco, che malapena capiva l'italiano, figuriamoci il tedesco!
Liliana scese dalla bicicletta, «Grazie per il passaggio!» esclamò lei.
«Niente!» disse lui voltandosi, nel giro di poco sparì dalla piazza.
«Bellezza!» urlò un soldato dai capelli ramati, seduto accanto alla fontana, aveva una pessima cadenza tedesca, era orribile la sua pronuncia italiana.
Liliana si limitò a tenere il volto basso, stava iniziando ad innervosirsi.
Alzò il viso, i suoi occhioni blu si fecero due fessure, «Non volevo farti arrabbiare!» disse lui ridendo.
«Vieni qui» le disse un altro soldato.
Un altro fischio mentre si stava allontanando da loro.
Liliana si girò di scatto, «Se dovete fischiare a qualcuno fatelo ai vostri cani!» disse lei arrabbiata.
«Oh! Che caratterino!» esclamò ridendo il soldato dai capelli ramati, Liliana sbuffò.
L'uomo si alzò dalla fontana e si avvicinò a lei, istintivamente lei fece un passo indietro, «Non ti faccio niente dai!» disse lui.
Lei continuava a fissarlo molto attentamente, aveva un bel aspetto, avrà  avuto la sua età , forse un anno in più di lei.
Le prese la mano, rispetto alla sua era affusolata, aveva lunghe dita, non erano molto curate per via del lavoro con la terra, ma erano comunque delle belle mani.
Subito lei le tolse dalle sue, non fece in tempo a fare un passo indietro che fu bloccata da lui, c'erano delle paesane in piazza, ma non mossero un dito, si limitarono a spettegolare.
«Lasciami» disse lei, la sua voce sembrava un lamento di un gattino, non capiva cosa lui volesse da lei.
«Ma che vuoi da me?» domandò lei ingenuamente, l'uomo rise, lei si dimenò ancora.
«Dai fa la brava!» disse lui accarezzandole il viso.
«Ho detto che devi lasciarmi!» disse lei provando a mollare la presa.
Liliana chiuse gli occhi e dopo pochi secondi sentì il braccio libero, riaprì gli occhi.
L'uomo dagli occhi color del mare, l'ufficiale tedesco era accanto all'uomo, gli stava urlando qualcosa in tedesco, lo spinse via, Liliana guardò la scena, non capì nulla, si limitò a fissare i due.
«Vi ha fatto del male?» le chiese l'uomo appena cacciò via il soldato, Liliana sgranò gli occhi, scosse il viso, in senso di negazione.
L'uomo sorrise, «Potete parlare, non vi mangio!» disse gentile lui.
«No, non mi ha fatto male» ripose lei imbarazzata.
«Bene, mi dispiace per l'accaduto signorina...» disse lui facendo un gesto, come per invitare la giovane a dirgli il suo nome e cognome, ma lei rimase zitta.
Le sue guance iniziarono a diventare rosa, di un rosa accesso, Liliana voleva sotterrarsi.
Iniziò a torturarsi le mani, lui notò i suoi gesti, aveva paura di lui?
"Oh no, non può avere paura di me!" pensò lui.
«Signorina vi sentite bene?» chiese lui dopo un imbarazzante silenzio di mezzo minuto.
«No, cioè...ehm, sì, e che io non lo so – iniziò a farfugliare lei, - Aaah! - continuò lei mettendosi una mano alla nuca e socchiudendo gli occhi, - Vi sembrerò una stupida!» disse lei ridendo istericamente, senza guardare l'uomo negli occhi.
L'uomo sorrise. Non aveva paura di lui. Capì che era timida.
L'uomo voleva conoscerla, non voleva troncare la discussione, aprì la bocca per parlare, ma lei lo anticipò e disse: «Ecco, vi ringrazio!» aveva l'espressione di una bambina, sembrava felice, lui socchiuse la bocca e si rabbuiò.
«Oh, mi dispiace, volevate parlare prima voi, perdonatemi» mormorò lei ridendo nervosamente.
Stava parlando tanto, gli piaceva sentire la sua voce, era agitata si notava.
«Non fa nulla signorina» disse lui, la sua voce era musica per le orecchie di Liliana, era virile, così calda in quel momento e non fredda come prima, parlava un italiano migliore rispetto il soldato che l'aveva importunata.
La giovane sorrise, era bellissima.
«Vi devo un favore» disse involontariamente lei sorridendo amabilmente.
«Ditemi come vi chiamate» disse lui, sembrava freddo, alle orecchie di Liliana parve un ordine.
Si immobilizzò.
«Ehm» esclamò lei, "E' un interrogatorio?" pensò lei.
«Liliana Villa» rispose lei, l'uomo dentro si sentiva mortificato, gli parve che non voleva continuare la conversazione.
Gli bastava un "E voi?" per essere felice, ma niente.
L'uomo annuì, la giovane iniziò a rientrare nello stadio di perenne imbarazzo iniziale.
Non sapeva come comportarsi.
«Vi faccio paura?» domandò lui sorridendo.
«No! Cioè... non ho mai avuto occasione di parlare con delle SS, una volta parlai con una camicia nera, ma è stato più facile, insomma, non che voi mi fate paura, insomma, non so...»si fermò per poco con le labbra semi aperte e una mano sollevata a mezz'aria, sembrava un bambina colta in fallo, adorava quell'immagine il maggiore.
«Come comportarmi» terminò il suo discorso facendosi seria.
«Normalmente» disse l'uomo, "Normalmente" pensò Liliana e involontariamente ripeté la parola sottovoce.
Si morse lievemente il labbro, lo sguardo di lui si posò sulla sua labbra, rimase forse un po' troppi secondi a fissarle, perché subito dopo notò che Liliana stava facendo una smorfia.
«Voi chi siete?» domandò lei seria.
«Maggiore Wilhelm Klein» disse l'uomo sorridendo trionfante, "Finalmente!" pensò.
C'era troppa freddezza nello sguardo dell'uomo, anche il sorriso, era troppo freddo, la giovane rabbrividì.
La giovane iniziò a toccarsi la treccia che portava di lato, poi le sue manine passarono al vestito viola e poi all'enorme golfino di lana, era nervosa.
L'uomo non faceva trasparire nessuna emozione, e ciò turbò moltissimo la giovane Liliana.
L'uomo guardò l'orologio, «E' stato un piacere conoscervi signorina Liliana» disse l'uomo, la giovane si raddrizzò.
«Anche per me signor maggiore» disse lei.
«Arrivederci» disse lui abbassando lievemente il volto, lei gli sorrise, quell'arrivederci sembrava carico di promesse.
«Sì, arrivederci» disse lei con un fare sognante.
Appena l'uomo fu lontano lei sospirò, si sentiva leggera, come se fluttuasse su nuvole rosa e intorno a lei vi era una leggerissima nebbiolina azzurra.
La giovane era entusiasta, il maggiore le aveva rivolto la parola!
Sapeva che esisteva!
L'aveva salvata della grinfie di quel soldato, era troppo felice.
 
Il maggiore salì in macchina, appena si mise in moto si mise a pensare fissando fuori dal finestrino.
Trovava Liliana molto affascinante e bella, poteva stare delle ore a sentirla farfugliare frasi senza senso, vederla sorridere e irrigidirsi.
Era attratto da lei, come una calamita attira a se il ferro.

 

3° capitolo (Passione):

 

«Sbaglio o ti ho vista parlare con una SS?» disse Benedetta raggiungendo la giovane in mezzo alla piazza.
«Non sbagli Benedetta» rispose Liliana con gli occhi sognanti. 
«Ho capito tutto.» Disse amaramente la giovane.
«Cosa?» domandò Liliana raddrizzandosi e provando a nascondere il suo sguardo sognante.
«Ti piace, si vede, a me non me le racconti le bugie Lili» rispose Benedetta guardando negli occhi l'amica
«No, no!» rispose imbarazzata Liliana e muovendo agitatamente le mani davanti a lei.
«Le SS sono crudeli, sono il nemico!» disse piena di odio Benedetta.
«Lo so...» disse Liliana con una nota di dispiacere. 
«Non mostrarti buona con lui e tienilo alla larga, ti prego, te lo dico per te...» disse Benedetta agitata, seriamente preoccupata per l'amica.
«Sì...» mormorò lei abbassando il volto.
Lei non voleva stare alla larga di lui.
In lui ci vedeva del buono, non capiva come mai, forse era pazzia la sua.


Dopo una settimana, verso metà  ottobre, il maggiore si ripresentò al paese.
Solo a vederlo provava delle sensazioni a dir poco piacevolissime, non comprendeva quella sensazione allo stomaco, piacevole e fastidiosa allo stesso tempo, sentiva il cuore batterle all'impazzata, il rossore delle guance e il calore crescerle sempre di più; ma la frase di Benedetta la perseguitava.
Alla vista dell'uomo non sapeva se avvicinarsi a lui, o se stargli alla larga.
Fece pochi passi in avanti, ma subito si immobilizzò appena vide il volto dell'uomo alzarsi e sorridergli, alla vista di quel sorriso i muscoli della giovane diventarono indolenziti, cosa le stava accadendo?
Iniziò a torturarsi le mani.
"Andare o non andare?" continuava a pensare, alzò gli occhi al cielo, "Magari neanche vuole vederti!" pensò.
Riabbassò il viso e lui si stava avvicinando a lei, Liliana scosse il viso, "Non sta venendo da te" continuava a pensare, era come un disco ininterrotto.
Chiuse gli occhi, come a voler cacciare quei pensieri, appena gli riaprì il maggiore le fu davanti con uno dei suoi sorrisi migliori, «Buongiorno signorina» le disse lui con il suo accento tedesco, Liliana sorrise timidamente, involontariamente si portò una ciocca di capelli ribelli dietro l'orecchio e le guance diventarono sempre più bollenti, che effetto le faceva? Solo a sentire le sua voce si sentiva in paradiso.
«Buongiorno signor maggiore» mormorò lei, lui adorava il suo italiano, con quella pronuncia lievemente del nord, non aveva la cadenza marcata come gli altri suoi paesani, non sapeva come spiegarselo quello.
«Adoro la vostra cadenza signorina» disse lui senza pensarci, la giovane sorrise. 
«Oh, cosa darei per parlare un italiano perfetto... sapete il mio sogno era quello di diventare insegnante, ma la guerra e la miseria me l'hanno impedito, è stato un sforzo disumano per i miei genitori mandarmi fino alle medie, però mia zia fa la maestra, mi ha prestato alcuni suoi libri sulla dizione e su tutto ciò che bisogna sapere sulla professione e ora aiuto dei bambini che vanno poco bene a scuola.» 
Stava parlando troppo Liliana, quando faceva così era perché era terribilmente agitata, lui stava zitto ad ascoltarla, adorava la sua voce, era ricca e melodiosa.
«Volevate diventare insegnante?» domandò lui immaginandola vestita con abiti da maestra e seduta a una cattedra, ce la vedeva, l'avrebbe vista in qualunque contesto era talmente bella che sarebbe stata perfetta anche con un sacco di patate indosso ad un gala.
Lei fece una smorfia, «Sì, l'avete appena detto» disse lui lentamente, la pronuncia dell'uomo la faceva sorridere, era qualcosa di gutturale, strano, pieno di "r" e "v".
Arrivò un soldato e disse al maggiore che avevano fatto i controlli, parlò in tedesco e la giovane non capì nulla.
La giovane riuscì solo a capire "Giacomo Rossi", impallidì.
«Signorina voi conoscete Giacomo Rossi?» domandò l'uomo in tono glaciale alla ragazza.
«Certo, è un bambino, fa il pastore di tanto in tanto» disse lei deglutendo piano, "Che vogliono da lui?" pensò lei.
«Sapete dov'è?» chiese lui in un tono freddissimo, quasi glaciale.
La giovane abbassò il viso, fece un passo indietro, odiava quella freddezza, lui notò quella lontana, sgranò gli occhi, non voleva che si allontanasse da lui, « No – rispose secca lei.
«Capisco, bene, ora devo andare... arrivederci signorina.»
«Arrivederci.» Rispose secca lei.
Non capiva lo sbalzo d'umore del maggiore, come mai doveva fare così?
Si sentiva terribilmente mortificata.


«Mariarosa ha detto che ti ha vista con un ufficiale nazista, è vero?» le chiese la madre in dialetto, Liliana si limitò ad annuire lievemente.
«Stanne alla larga» disse cupo e freddo il padre in un dialetto troppo chiuso.
Liliana alzò il viso verso l'uomo, sospirò e continuò a cucinare la loro cena.
Come poteva stare alla larga di quei occhi color del mare? Quegli occhi meravigliosi che solo gli eroi dei suoi libri avevano? A quella voce calda, profonda, ma allo stesso tempo fredda e autoritaria? Non poteva, non stava né in cielo né in terra.
No.
Era impensabile.


«Wilhelm a che pensi?» gli chiese un suo pari porgendogli un bicchiere di birra.
«A niente!» rispose irritato lui prendendo la birra. 
«Penso che hai preso troppo seriamente il compito di supervisionare quei piccoli paesi di campagna!» lo rimproverò l'uomo. 
«Ma che ne sai tu? E' lì che si nascondono i partigiani, gli ebrei e tutti gli altri» rispose lui con la voce impastata. 
L'uomo subito pensò che quella per Wilhelm era una scusa, così gli chiese: «Ne hai trovato qualcuno?»
«Un partigiano vicino a Varese» rispose secco l'altro.
«Ma stai andando troppo in quel paesino...come si chiama?» domandò l'uomo con la voce impastata. 
«Roschetto» rispose Klein. 
«Come mai ci vai sempre allora?» domandò incuriosito l'uomo scolando la sua birra, il maggiore alzò le spalle. 
«Non sono ordini superiori, questo è sicuro – disse l'uomo, - allora Wilhelm mi rispondi?» continuò l'uomo prendendo un'altra birra. 
Il maggiore si limitò a dire: «Così» e si alzò dal tavolo e andò a dormire, voleva passare la notte a sognare quella meravigliosa donna, che gli aveva stregato anima e cuore, voleva stringerla fra le sue braccia quella notte, baciarle i capelli, sentire il suo delizioso profumo, la voleva.


Il maggiore si alzò alla buon'ora nonostante fosse domenica, si vestì con la divisa nera, diversa da quella verde scura del giorno prima, non l'aveva mai messa per andare negli altri paesini.
Si fece la barba, mise troppo dopobarba, il più buono e costoso che aveva, pensava se fosse abbastanza bello per Liliana, che già  nella sua testa la definiva sua.
Si mise il capello e alle nove era già  in macchina diretto in quel paesino sperduto nella campagne.
Era lontano un'ora abbondante da Milano, appena arrivò la funzione domenicale era già  iniziata da un pezzo e mancava giusto mezz'ora prima della fine.
Quando la funzione finì i paesani alla vista del maggiore rabbrividirono, alcuni fecero delle smorfie, molte donne sapevano perché era lì, anzi, per chi.
Era solo, la divisa nera rendeva la sua pelle più chiara di quella che già  era, dentro era nervoso, ma fuori sembra sicuro di sé stesso e terribilmente freddo e distaccato.
Alla vista della giovane gli riservò un sorriso bellissimo, mostrando i suoi perfetti denti d'avorio.
La giovane ricambiò il sorriso, ma non pensava che lui fosse lì solo per lei, o forse lo pensava ma non voleva crederci.
Lui si avvicinò a lei a grandi passi, «Buongiorno signorina» le disse lui sorridendo, lei sorrise, ma prima che poté rispondere al maggiore arrivò sua madre che le strattonò un braccio. 
«Buongiorno signor maggiore cosa volete dࠠla mia tusa?» chiese la madre della giovane provando a parlare italiano con l'uomo, il quale fece una smorfia.
«Tusa?» domandò lui con una pronuncia orribile e facendo una smorfia. 
«Figlia» disse Liliana abbassando il volto. 
«Devo farle delle domande sul conto di una persona» rispose semplicemente l'uomo, gli occhi della giovane si spalancarono, le gambe iniziarono a tremarle. 
«Ah!» esclamò la madre. 
«Anzi, se volete seguirmi signorina» disse lui alla giovane.
Liliana fissò sua madre, «Vedi di essere a casa prima di mezzogiorno e mezzo» disse la madre alla figlia in dialetto, Liliana annuì e seguì il maggiore.
Lui camminava e lei stava un passo dietro a lui, fino a quando salirono in macchina e diventarono un puntino agli occhi dei paesani.
Tutti iniziarono a dire alla signora Villa di stare attenta, le dicevano in dialetto: «Signora Maria, state attenta, avete una figlia così virtuosa!» e i signori implorarono il signor Giovanni di badare di più a sua figlia, mentre altri iniziarono con le malelingue. 
I due coniugi rimasero zitti, non sapevano che dire, dovevano fare qualcosa, perché il signor Villa riconobbe lo sguardo del maggiore, era lo stesso che aveva lui anni prima, quando la passione si prese gioco di lui quando incontrò la sua Maria.


Andarono nella periferia del paese, appena scesero dalla macchina iniziarono a camminare, dopo poco Liliana disse irritata: «Cosa volete sapere?» era nervosa, arrabbiata, non pensava che lui sarebbe venuto solo per sapere delle informazioni, era delusa.
«Niente, era una scusa» rispose semplicemente lui con calma, sfoggiando un sorrisetto che fece innervosire Liliana. 
«Cosa? - esclamò lei, era paonazza dalla rabbia, subito sgranando gli occhi, si fermò proprio davanti a lui, alzò il viso così da portelo guardare negli occhi, quasi si mise in punta di piedi, così da non sentirsi più bassa e gli picchiettò l'esile indice sul petto con fare irritato - Perché?» domandò infine.
«Volevo parlare con voi, passare del tempo con voi!» spiegò lui, prendendo la mano della ragazza.
«Ah be' certo e mi sembra giusto impaurire tutti, presentarvi così di punto in bianco, come se nulla fosse, e facendo tra l'altro tremare me dalla paura!» esclamò lei allontanandosi da lui. 
Wilhelm si avvicinò di più a lei fino a quando furono a pochi millimetri di distanza.
«L'ultima cosa che voglio è farti paura, Liliana» disse lui con la voce roca e calma, era passato dal formale all'informale, aveva le punte delle orecchie leggermente arrossate, stava osando, ma Liliana non notò quel piccolo particolare.
«Cosa volete allora?» mormorò lei mordendosi il labbro, lui abbassò lievemente il viso e nel giro di poco la attirò a sé e la baciò, con ardore, con passione, con dolcezza, furono i secondi più belli delle loro vite.
Appena si staccarono lui notò le gote imporporate della giovane, adorava le sue guance, il suo volto basso, gli occhi lucidi, notò che le tremavano le gambe.
Liliana si appoggiò ad un albero, era convinta di non farcela a stare in piedi, iniziò a sentire caldo, aveva una strana sensazione allo stomaco e il suo cuore faceva i salti mortali.
"E' felicità  questa?" pensò lei.
Gli occhi di lui erano immersi nell'oceano di Liliana, lui aveva le pupille dilatate, il color mare si notava poco rispetto al nero.
Lui le sorrise e si avvicinò a lei, lei lasciò che lui le prendesse una mano e iniziasse a baciargliela, si sentiva bollente, non capiva quelle strane sensazioni, era spaesata.
Lei abbassò il viso, la trascinò velocemente accanto a se e la strinse forte, lei si perse nel sue abbraccio, caldo e confortante.
Se poteva, sarebbe rimasta lì in eterno, si sentiva stranamente sicura, come poteva avvertire quella strana sensazione nelle braccia del nemico? Era un controsenso bello e buono!


Dopo quell'incontro furtivo vi furono altre due perlustrazioni nel paese e il maggiore non vi era, Liliana andava apposta nella piazzetta del paese per poterlo vedere, ma lui non c'era.
Si sentiva sporca, usata.
Pensò che lui voleva solo un bacio da lei, nulla di più.
Quelle settimane furono tristi per Liliana, si concentrò molto sul lavoro e aiutò molto Giacomo e qualche altro bambino con la scuola, voleva non pensare all'ufficiale nazista, voleva non pensare alla tristezza e al dolore, i suoi genitori notando questa "normalità " fecero un sospiro di sollievo.
La ragazza sentiva come se il cuore si fosse sbriciolato, le mancava moltissimo Wilhelm e ogni notte si addormentava piangendo, sperando di rivederlo il giorno dopo.

 

...THE END...

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Nome dell’autore: Hypnos

Titolo: Santa Tell Me

Elaborato:

Era appena scoccata la lancetta sulle 12 , io ero distesa comodamente sul mio letto a vedere la solita maratona di film natalizi. Dall'altra stanza provenivano rumori di persone gioiose che ridevano e scherzavano mentre io ero nel mio pigiama nel quale mi perdevo ; amavo quel pigiama , era così caldo e comodo , ogni volta che lo indossavo mi sentivo 'protetta' .Ritornado alla realtá , alla dura e orribile realtá , è ora che vada anche io dai miei parenti .Mi alzai con malavoglia e mi diressi verso quel buco di camera che era il salone , tutti i parenti mi guardavano , forse perché avevo il mascara sciolto a mo' di panda , ma io non curante di niente andai a sedermi in un angolino della stanza. Il mio cuginetto si avvicinó a me con fare quasi pauroso e mi porse un pacco un dei bellissimi nastri , io sorrisi e ringraziai ma non aprii subito il pacco. Andati tutti e ritornata nel mio letto , aprii tutta curiosa il pacco , era una bellissima spilla della disney , la solita faccia da topolino, e la misi sulla maglietta a righe che odiavo .Dopo qualche settimana iniziò nuovamente la scuola e come tutti i miei coetanei quindicenni non volevo andarci ,ogni mattina era una guerra con tanto di bombe gettate da mia madre per farmi abbandonare il mio pigiama e il mio letto .Freguento il secondo superiore e ammetto che vado abbastanza bene a scuola , non sono molto sociale ma ho amici davvero splendidi , l'unica cosa che mi manca è una persona che possa 'sostituire il mio pigiama' , insomma , un 'fidanzatino' come direbbe mia nonna. Oggi è arrivato uno nuovo in classe , Francesco , sembra simpatico .

《 salutate il vostro nuovo compagno ! 》

La prof urla peggio di un'oca isterica.

《 puoi sederti lì , vicino Alessia 》

"Guarda caso proprio vicino me , chi lo vuole sto tipo vicino" ripetevo in mente ma poi vidi che non ero io l'Alessia di cui la prof parlava e in testa pensavo "bhe dai sarebbe stato bello averlo vicino" . Si sono normale .

Finita la scuola Francesco si avvicina a tutti i miei compagni per presentarsi , "ha salutato tutti tranne me , vedi tu questo , non lo saluteró mai nemmeno io " pensavo ma poi venne da me 《 piacere Francesco ! 》 disse sorridendo 《 sto organizzando una festicciola a casa mia per potervi conoscere meglio , tu vieni ? è sta sera 》 , io molto timidamente dissi 《 oh certo 》 , mi diede tutte le informazioni e andó via.

Tornata a casa mi precipitai verso l'armadio ma non c'era niente , tutto completamente vuoto . Chiamai mia madre

《 mamma dove cavolo sono i vestiti ?》

《le ho portate dalla nonna visto l'imminente trasloco , ti ho lasciato la maglietta e i jeans che ti piacciono tanto , stanno sul ... 》 , le chiusi il telefono in facccia arrabbiata , dopo vidi i vestiti che mi 'piacciono tanto' , er quell'odiosa maglietta a righe e dei pantaloncini a jeans corti .Esasperate e non avendo tempo mi misi quei 'vestiti' e andai alla festa.

Non si capiva niente , tra musica ad alto volume e ragazzi che si buttavano addosso ; trovai Francesco e restai a parlare un po' con lui fino a quando venne un'oca a prenderlo. Salii al piano di sopra , " cristo ma non c'è una persona normale qui ?" pensai , mentre camminavo per il corridoio vidi una porta socchiusa e stranamente entrai. Un ragazzo sul letto gettó un urlo fortissimo e si nascose sotto il letto , " oddio che disagiato sará mai questo " pensai .Mi avvicinai al letto e porsi una mano verso il basso , il ragazzo l'afferró e uscୠ《 l'educazione è andata ad'altrove ? 》 disse con disprezzo , 《 scusami non volevo spaventarti 》 dissi e lui esclamando 《 io spaventato ? quando ? 》 e scoppio a ridere come me , 《 piacere Marco! Sono il fratello di Francesco 》 disse con il suo sorriso stupendo , 《 piacere Alessia ! 》 esclamai felice. Parlammo per tutta la durata della festa , alla fine andai e lo salutai.

Passarono giorni e mesi ma non lo rividi piú , arrivó Natale e tutto ció che volevo era lui , mi ero innamorata di Marco . Scrissi anche una lettera a Babbo Natale 'Santa Tell Me' , scrissi che tutto ció che volevo era lui .Nevicava e faceva molto freddo , io ero con il mio amato pigiama con in mano la lettera per Babbo Natale , ero determinata ad inviarla , ormai avevo solo lui come 'possibilitá' .Scesi e mentre la stavo per imbucare vidi un ragazzo con solo una felpa in mezzo alla neve e il forte vento , era Marco. Si avvicinó verso di me e mi porse una mano , 《 alla festa ti sei scordata questa spilla ,ho aspettato prima di dartela , volevo trovare il momento giusto 》 disse , era la spilla del topo della disney che mi aveva regalato mio cugino , era attaccata alla maglietta a righe che indossavo alla festa , 《 grazie mille , ma questo è il momento giusto per cosa ? 》 , lui si avvicinó alle mie labbra e speravo che facesse cosa pensavo e volevo .Mi bació , 《 il momento per questo 》 . Ha aspettato piú di un anno conservando la spilla solo per me , da questo ho capito di aver trovaro l'amore , la persona che puó sostituire il mio pigiama . Con lui mi sento al sicuro e al caldo , con quei ricciolini e il naso rosso . Grazie mille Santa !

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Sono sommersa dagli studi, perdonatemi se ho riesumato un mio vecchio racconto di qualche anno faà§_à§

Nome dell’autore: Vulpah

Titolo: Chapter II. Boulevard Of Broken Dreams

II.

BOULEVARD OF BROKEN DREAMS

“I walk a lonely road

The only one that I’ve ever known

Don’t know where it goes but it’s home to me

And I walk aloneâ€

Cristina camminava lentamente con passi lunghi e precisi, quasi come a voler misurare la lunghezza della strada.

I suoi stivali affondavano nella neve per poi risalire ancora, e ancora.

Dopotutto non aveva fretta.

Un sospiro, greve, si congelò prima di disperdersi nell'aria.

Si sistemò con cura l'ingombrante sciarpa ad anello che le avvolgeva il collo in modo che riuscisse a coprire anche il naso, i polpastrelli scoperti dai guanti si andarono a rifugiare nelle tasche della sua giacca a vento, probabilmente erano le uniche vittime di quella gelida notte di Dicembre.

Ogni tanto alzava la testa per guardare il cielo grigio e nuvoloso, quasi come se volesse che il primo fiocco di neve si sciogliesse sulla sua fronte.

Nonostante fossero le sette di sera la via era deserta, il che era incredibilmente confortante e deprimente al tempo stesso.

Un brivido freddo l'attraversò facendo irrigidire le sue guance, nonostante fossero avvolte da uno spesso giro di lana.

La periferia di Birmingham era muta, inerme, in preda ad un vento gelido che portava con sé le ultime foglie staccate dalle fronde, striminzite dal freddo.

La sua ombra era l'unica cosa che passeggiava accanto a lei: almeno poteva vantare di avere la compagna di viaggio più silenziosa dell'universo, l'unica che non avrebbe mai abbandonata, continuando ad accompagnarla per quella strada insignificante.

Non c'era nessuna insegna che ne attestasse il nome, probabilmente perché nessuno si era posto il problema di metterne una.

Immerso nel silenzio più assoluto, il suo cuore era l'unica cosa che sembrava dare segni di vita, perché lei non era sicura di darne, almeno nell'animo.

Non sapeva dove conducesse quel percorso, ma probabilmente non le interessava più di tanto: continuava a procedere con calma verso una meta indefinita in attesa di trovare qualcosa, o forse qualcuno.

Fino a quel momento avrebbe continuato a camminare da sola, non che la cosa le dispiacesse.

È divertente rimanere da soli.

Si, davvero divertente.

<<Un'altra bugia>> pensò tra se e se <<Un'altra schifosa bugia>>

Come un armadillo si ritirava nel suo guscio in cerca di protezione lei si nascondeva nel caldo della sua sciarpa, in cerca di un calore che nella sua vita era sempre stato assente.

Era sempre fuggita da qualsiasi cosa che rimandasse a quella sensazione che molti definivano piacevole e confortante, e non sapeva spiegarsi il perché: da piccola era sempre stata restia a cercare qualsiasi contatto fisico con le persone che le stavano accanto, familiari compresi.

Era convinta che loro odiassero una figlia come lei, ma in realtà  non avevano tempo per maturare un pensiero del genere, erano sempre occupati a litigare per le cose più stupide.

Un figlio dovrebbe essere il sigillo d'amore che lega per sempre i due genitori, che avrebbero curato con dedizione, insegnandogli a credere in se stesso per perseguire i suoi sogni.

Peccato che questa visione ottimista e sdolcinata era fin troppo semplice: bisognava scegliere per forza il percorso più difficile per complicarsi l'esistenza sino a sfiorare il divorzio.

Tra i suoi ricordi sbiaditi c'era una ragazzina quattordicenne consumata fino all'osso dalla solitudine con la convinzione che i suoi genitori dopo averla messa al mondo l'avessero abbandonata a crescere da sola. Era in cerca di un sorriso, di qualcosa che la prendesse per mano, di un aiuto.

Una ricerca che sembrava durare in eterno.

Si fermò un attimo, e vide che sul muretto di marmo dove si sedeva di solito per poi perdersi nel fascino della strada solitaria avevano scritto una frase con dello spray nero:

"Welcome on the Boulevard of Broken Dreams"

Quella frase fu in grado di strapparle un sorriso: spesso paragonava quel viale alla famosa Boulevard Of Broken Dreams che veniva descritta nella canzone dei Green Day, uno dei suoi gruppi preferiti.

Spesso vi si rifugiava quando aveva bisogno di stare da sola: ogni cittadino s'era dimenticato dell'esistenza di quella strada che nella maggior parte del tempo era vuota, abbandonata alla brezza notturna che occasionalmente smuoveva qualche foglia morta tra i rami e finiva sulla strada.

C'erano giorni in cui trovava anime assorte nei loro pensieri, che si lasciavano guidare dalla musica dei loro auricolari verso mete indefinite: camminavano lentamente, stanchi, nel tentativo di fuggire dalla monotonia delle loro insulse vite da adolescenti. Avrebbero voluto ribellarsi al sistema che poco a poco li opprimeva e li privava della loro personalità , costringendoli ad assorbire come spugne le notizie dei media per poi poter plasmarli a loro piacimento, e forse aspettavano ancora il momento giusto per scappare.

Ma non avrebbero saputo da dove iniziare, perché non avevano uno scopo.

Non avevano un sogno.

Non avevano un'ideale per cui lottare.

Esattamente come lei.

Quella via era tutto ciò che la riassumeva alla perfezione: sogni infranti prima di nascere, l'antitesi del perfetto sognatore senza rimpianti.

Le chitarre fortemente distorte e vibranti della canzone trascinavano dolcemente le parole del testo, creando un atmosfera decisamente malinconica per essere la vigilia di Natale.

Iniziò a camminare a passo più sostenuto: in lontananza era riuscita ad intravedere una serie di luci intermittenti che rapidamente passavano dal rosso al verde, tipiche del solito anonimo negozio di Natale che non si sarebbe immaginata di trovare alla fine di una strada desolata come questa.

Strano pensare che alla fine di una linea sottile di solitudine c'era un piccolo angolo di felicità  che aveva intenzione di raggiungere.

Aveva ancora venti euro in tasca che aveva intenzione di spendere per la sorella, ma dovette presto cambiare idea.

Almeno Giulia non sarebbe rimasta a mani vuote quest'anno, e lei non si sarebbe dovuta inventare un escamotage dell'ultimo minuto per non farla restare delusa, anche perché aveva esaurito le scuse.

Purtroppo l'unico regalo che avrebbe visto sarebbe stato l'albero di Natale. Pazienza, avrebbe trovato un modo per dirglielo.

Quando aprì la porta del negozio e si tolse le cuffie venne catapultata violentemente in un mondo stucchevole, finto, isolato dalla realtà , come se fosse rimasta intrappolata in una palla di vetro natalizia.

Si scostò dall'entrata, anche perché accanto a lei c'era un pupazzo di neve che accoglieva i visitatori alzando e abbassando le braccia, mentre gli occhi s'accendevano e si spegnevano: a vederlo era inquietante.

Non uscì dal negozio a mani vuote per fortuna: riuscì a prendere un albero ammaccato -che non era nemmeno in vendita per giunta- ad un prezzo stracciato. Dovette insistere per cercare di convincere la commessa, che tentò di rifilarle senza successo un albero troppo costoso per lei.

La scatola era abbastanza bassa, e riusciva a portarla sottobraccio.

D'improvviso ci fu un tonfo, e si ritrovò a terra prima che potesse vedere il viso di chi l’aveva fatta cadere.

<<Ma puoi stare un po' più attenta?>>

<<Sei tu che mi sei venuto addosso!>>.

Quando si alzò incontrò degli occhi verdi: sotto l'albero spoglio sormontato da un lampione vicino v'era un ragazzo poco più alto di lui. Era caduto anche lui.

<<Marco?>> disse lei, quasi d'istinto.

Sembrava piuttosto sorpreso anche lui.

<<Cristina! Tu che ci fai qui?>> disse, dopo essersi alzato.

Abbozzò un sorriso distratto.

<<Casa mia è dietro l'angolo, e non avevo preso ancora l'albero di natale… e tu?>>

S'aggiustò la coda spettinata che aveva arrangiato per uscire e si sciolse i capelli, scosse un po' la testa per farli ricadere uniformemente sulle spalle.

<<Io abito accanto al panettiere in fondo alla strada. Ormai sono sette anni che ci vivo>>

<<Sette anni? E perché non ti sei più fatto sentire?>> le scappò una risata ed alzò le spalle, distogliendo lo sguardo da Marco <<Mi ricordo dodici anni fa, quando giocavamo dietro al cortile con la corda>>

<< Eri pessima…>>

Gli stava per dare una spinta con la mano, ma lui indietreggiò per schivarla.

<<Smettila!>>

<<Va bene, va bene, la smetto>> disse lui, alzando le mani fingendo la sua innocenza.

Si guardarono per un attimo e sorrisero, ma i loro sguardi velocemente s'abbassarono per l'imbarazzo, e restarono inchiodati al pavimento.

Marco era stato un suo grande amico durante l'infanzia, e forse anche l'unico. Come tutte le cose belle è semplicemente sparito in una tiepida giornata di Maggio undici anni fa, senza dare troppe spiegazioni: aveva cambiato scuola, e quando ritornò a casa ebbe modo di vedere con tristezza che la sua era stata venduta.

Per anni aveva vissuto quel trasferimento come una sorta di abbandono da parte sua. Era convinta di averlo offeso, di aver urtato i suoi sentimenti.

In realtà , niente di tutto ciò.

Dopo la scuola lo aspettava ogni giorno per un' ora sotto la quercia dietro il parco della città  dove s'incontravano per giocare.

Aspettò per anni senza vedere quegli occhi verdi e quel sorriso che le avevano dato la forza per andare avanti per la sua strada e seguire il suo sogno, quel sorriso che adesso non vedeva più.

Non conosceva nulla di più bello del ritmo del suo cuore che si faceva agitato e irrequieto quando incrociava il suo sguardo.

Si, probabilmente un tempo erano stati innamorati. Ma erano passati troppi anni, ricordava poco e nulla del loro rapporto.

<<Non me lo hai mai detto, comunque>> mormorò, abbassando leggermente lo sguardo.

<<Cosa?>>

<<Perché ti sei trasferito?>>

<<Ah, sì… sai, è una lunga storia>> rispose.

Guardava il cielo, grigio e compatto come la schiena di un gatto assonnato. Voleva trovare una scusa per cambiare discorso.

<<Sta per nevicare>>

Il suo tono di voce s'incupì:<<Non hai risposto alla mia domanda>>

Marco si chinò per prendere la scatola dell'abete, che era caduta. Non ebbe paura di affondare le mani nella neve senza i guanti, aveva sperimentato cose ben peggiori.

Avvertì un leggero tremito che gli percorse tutta la schiena.

Quando s'abbassò, Cristina riuscì a notare che aveva dei lividi dietro al collo e alle caviglie. In un primo momento non si chiese la causa: non voleva sembrare troppo indiscreta, magari era caduto, o forse no.

Erano affari suoi dopotutto.

S'aggiustò il lungo cappotto nero e le diede la scatola.

<<Beh, adesso devo andare. Chi la sente poi, mia madre...>>

<<Il grande e coraggioso Marco ancora dipende dalla mamma, eh?>> gli diede una pacca sulla spalla, con l'intento di scherzare.

Lui non sembrava averlo capito, eppure poteva vantare di un certo senso dell'umorismo, ma lei non poteva sapere il grande peso che si portava dietro le spalle anche perché lui non lo avrebbe mai detto.

Cercò di minimizzare la cosa per non farla sentire in colpa: non l'aveva fatto con cattiveria, non era a conoscenza della sua situazione familiare.

Nel guardarla notò come gli anni fossero passati sulla sua pelle: il momento di crescere arrivava per tutti, e non faceva eccezione per nessuno. Ritardare quel momento era perfettamente inutile: si finiva per essere dei bambini intrappolati nel corpo di un adolescente.

Lui era un vecchio intrappolato nel corpo di un ragazzino: aveva provato il dolore fin troppo presto per rendersi conto che quelle esperienze avrebbero condizionato il suo modo di pensare e di rapportarsi al mondo.

Vedere la sciocca innocenza di quegli occhi azzurri era un qualcosa che non riusciva a spiegare a parole, era una di quelle poche cose che in quella notte del ventitré dicembre era riuscita a tirarlo su di morale: il suo sguardo nel suo.

Due visi sfregiati da un'adolescenza giunta quasi al termine, passata prima che avessero potuto viverla realmente.

Entrambi si sarebbero accorti che dopo esseri ritrovati non avrebbero potuto scambiare gli anni persi a cercarsi con la tristezza della loro solitudine.

Sarebbe stato inutile.

L’incrociarsi di due visi imbarazzati che dopo tutti questi anni avrebbe potuto far sbocciare un amore, ma il tempo s’agitava come in una tempesta, pronto a far erodere i ricordi di una storia mai sbocciata. Pronto a cancellare ogni cosa.

<<Magari un giorno ti racconterò questa storia. Stammi bene>>

Lo guardava allontanarsi nel bianco della neve, le mani dentro le tasche, la sciarpa lunga al vento.

Sperava si voltasse per sorriderle e raccontarle quello che era successo durante quei lunghi anni di silenzio, chiederle scusa per non essersi fatto sentire e perché no, anche baciarla. Sarebbe stato tutto perfetto.

Ma la strada dei sogni infranti non esisteva per far nascere amori mai nati, esisteva per sfatare le illusioni di adolescenti che credevano di avere il mondo in mano quando in realtà  tutto quello che stringevano era un amaro pugno di sabbia.

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Nome dell'autore: Fender


 


Titolo: Gen di Kurayoshi


 


Elaborato:


 



Gen di Kurayoshi


 


Domenica 18 maggio 1997, sono appena le 6:00 quando Gen apre delicatamente gli occhi illuminati dalla fioca luce mattutina primaverile. Non è stanco né euforico, semplicemente ha voglia di vivere pienamente la giornata. Poco importa se, vista la sua giovane età  e gli studi, la domenica è l’unico giorno a disposizione per riposarsi. Egli ritiene che l’uomo dorma fin troppo, sprecando addirittura quasi metà  della propria vita. Non gli piace nemmeno la pioggia, perché lo confina in casa. Tuttavia ne è attratto. Preferisce le emozioni e l’avventura ai beni materiali e non sopporta ricevere qualcosa senza esserselo guadagnato. Insomma, Gen è un ragazzo anormale e maturo, forse fin troppo rispetto ai suoi coetanei. Qualche volta pensa che sarebbe stato meglio crescere come tutti gli altri, ma poi capisce che è quell’anormalità  a permettergli di provare sensazioni “vere†e “vive†in momenti unici come un tramonto, una passeggiata nel bosco o in riva al fiume. Ed è proprio sulle sponde di un piccolo ruscello di paese che si svolge la vicenda di questa calda domenica di maggio, resa piacevole, però, da un nostalgico vento che passa solo lontano dalle città . Il giovane Gen, dopo aver fatto colazione, decide di uscire senza una meta precisa. Sulle sponde del ruscello trova Han, il suo grande amico con cui ha condiviso, nel bene o nel male, tutte le sue avventure d’infanzia. Han è un ragazzo ambizioso e spericolato, sincero e per la verità  non molto modesto. È solito sedersi sulla sponda sinistra del ruscello e, con le gambe nel vuoto, osservare il corso dell’acqua. Gen ha sempre apprezzato questo lato quasi zen del suo amico e lo ritiene l’unico momento in cui Han possa davvero avvicinarsi alla sua filosofia di vita. In silenzio, senza alcun cenno, Gen si siede accanto al compagno e contempla con lui la natura.


 


“La vedi  quella carpa che nuota contro corrente?†chiese quasi sussurrando Gen.


“La vedo†rispose secco Han.


“E vedi anche quel trifoglio che invece segue il ruscello?†ribatté Gen.


“Lo vedo†rispose nuovamente Han, questa volta più delicatamente.


“Tu chi preferiresti essere tra i due?â€.


“Sicuramente il trifoglio! È bello, elegante e guarda come segue dolcemente la corrente! Quella carpa invece non ha per niente una bella faccia e guarda che fatica che fa!â€.


“Io invece, vorrei essere la carpaâ€.


“La carpa? Che vantaggio c’è?â€.


“Vedi, io non voglio vivere come un trifoglio in balia del corso della vita. Voglio inseguire i miei sogni e raggiungerli, voglio realizzare le mie ambizioni e i miei obiettivi. Se questo significa dover andare contro corrente, allora preferisco essere la carpaâ€.


 


Le parole di Gen stupiscono Han e lo lasciano senza risposta. Sospirando, il ragazzo si alza e si dirige verso casa, sicuramente più ricco di prima.


 


È ora di pranzo e si può dire che Gen sia una “buona forchettaâ€. Sua madre ha cucinato gli udon, accompagnati dalla classica zuppa adornata con prezzemolo, uova e gamberi. Una vera leccornia. Il ragazzo non si fa pregare e in breve pulisce per bene la ciotola. Si reca in camera e soddisfatto della mattinata si getta sul morbido futon, rigorosamente su pavimento in tatami. Osserva prima il soffitto e in seguito sposta lo sguardo verso la finestra, dalla quale si scorge un ciliegio e qualche volatile di passaggio. Di primo pomeriggio Gen esce e con Han si dirige verso quella che è celebre come “La Montagna Magicaâ€. Il sentiero è lungo e man mano che si sale il percorso pare sempre meno battuto e percorribile. Lungo la montagna si trova qualche affascinante stele avvolta da muschio e radici e un tempio protetto da imponenti guardiani. Giunti in cima, là  dove molti non vedono nulla, i due giovani trovano ciò che cercano. La pace, la serenità  e un panorama introspettivo ed estremamente suggestivo. Si trovano sopra la loro Kurayoshi e in lontananza si vedono le vette del Kansai.


 


â€œÈ strano come mi senta completo con così poco†disse commosso Gen.


“Non è strano per niente, perché questo non è affatto poco†rispose altrettanto emozionato Han.


“Hai ragione Han, i nostri compagni sognano la grande città , caotica, luminosa, divertente e piena di opportunità . Eppure, non scambierei mai tutto questo con Tokyoâ€.


 


Le ore corrono e pare proprio che il Sole non abbia intenzione di fermare il suo moto quotidiano. I due giovani ragazzi sono costretti a tornare a casa prima che faccia buio e che giunga la sera. Fortunatamente, la primavera porta con sé qualche ora in più di luce consentendo a Gen e Han di tornare in tempo per la cena senza problemi. La madre di Gen, dopo aver preparato con cura e amore il pollo, vieta al figlio di uscire anche di sera. Gen si è già  stancato parecchio durante la giornata e necessita riposo per poter essere in forma a scuola il giorno seguente. Ma non sarà  di certo una finestra scorrevole a fermare il cuore ribollente di un adolescente che non può star fermo in camera a veder trascorrere i minuti sul suo orologio a pendolo in legno artigianale raffigurante Totoro. Considerando che le abitazioni di Kurayoshi non presentano più piani, il gioco è fatto. Gen, senza troppi pensieri, quasi apaticamente, esce di casa dalla finestra e passeggiando per le deserte vie della sua piccola e dolce cittadina osserva affascinato il firmamento giapponese. Affascinante, sorprendente, meraviglioso, magnifico, fantastico e infinito. Una prelibatezza rara e per pochi palati fini, una fortuna per pochi eletti, un premio per chi ha il coraggio di trovare nell’essenziale la vera bellezza e felicità . Gen cammina cogliendo ogni movimento. Il fruscio delle foglie mosse dal vento, il battito costante e lento, molto lento, dei suoi passi sulla terra, il respiro crescente e profondo, ma soprattutto il suo rumore preferito: il silenzio. Anch’esso una melodia rara e ricercata, si fa desiderare, il silenzio. Gen sa bene che tra poche ore inizierà  una nuova settimana e con essa la scuola e il caos del lavoro, della routine quotidiana. Non può permettersi di perdere l’unico momento in cui ha la possibilità  di assaporare questo suono. Ciò che è bello dura poco ed è forse per questo che rende quei momenti così preziosi. Gen deve tornare a casa prima che sua madre si accorga della sua assenza e così si rimette in cammino verso la sua camera passando per altre vie non ancora percorse. Giunto infine a casa, Gen si lava e dopo essersi comodamente messo nel futon spegne la luce, in attesa del giorno che verrà . Non è stanco né euforico, semplicemente ha voglia di vivere pienamente la prossima giornata.



 


 


 


Informazioni utili


 



- Gen è il protagonista di “Gen di Hiroshimaâ€, celebre opera di Keiji Nakazawa.


- Kurayoshi è una piccolissima città  del Giappone. Si trova nel Kansai, regione tradizionale.


- La carpa, in Giappone, è simbolo di forza.


- Gli udon sono un piatto tradizionale giapponese che consiste in grossi “spaghetti†integrali con brodo e diversi tipi di condimento.


- Il futon è il letto tradizionale giapponese.


- Il tatami è la pavimentazione tradizionale giapponese.


- “La Montagna Magica†esiste davvero e si trova per l’appunto a Kurayoshi. Jiro Taniguchi, celebre mangaka, le ha dedicato un’opera.



 


 


 


 


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Nome dell'autore: Fanny

 

Titilo: Fiore di campo

 

Elaborato:

Capitolo 1

Lily Cecil stava osservando il panorama dalla finestra del suo appartamento di Chicago. Tutto sembrava procedere nella normalità . Uomini d’affari che correvano in ufficio, donne indaffarate che spingevano passeggini per portare i bambini all’asilo e una lunga fila davanti all’edicola in attesa di acquistare il quotidiano con le ultime notizie da leggere.

Ma per Lily quella giornata non era affatto normale, anzi.

Sua nonna Penny, la sua amata nonna Penny, la donna che l’aveva cresciuta, era morta la settimana prima a causa di un tumore improvviso che l’aveva consumata molto, troppo rapidamente.

Dopo aver passato giorni in uno stato confusionario durante i quali Lily si era occupata solo di dormire e di fare una doccia di tanto in tanto, era giunto il momento di rialzarsi.

“Devo farlo per Penny†pensò mentre osservava una mamma tirare per il braccio un bambino capriccioso che tentava a tutti i costi di tornare indietro lungo la strada.

“Non avrebbe mai voluto vedermi così, sicuramente mi avrebbe preparato una bella tazza di tè e mi avrebbe detto con quel suo tono dolce ma fermo: "una bella tazza di tè aiuta sempre a superare tutti i problemi.†Certo lei era inglese, ovvio che la pensasse in quel modo.

Un sorrisetto affiorò sulle labbra di Lily. Nonna Penny era sempre così, ad ogni problema la sua tazza di tè.

Lily aveva sempre pensato che non sarebbe mai riuscita a superare tutte le sfide che la vita le aveva riservato senza sua nonna. Da quando i genitori erano morti in un incidente stradale, era stata lei a prendersi cura di Lily, lei ad ascoltare i suoi problemi, lei a consigliarla e sempre pronta ad aiutarla in qualsiasi momento.

Ma ora era il suo turno di fare qualcosa per Penny. Doveva andare nella sua vecchia casetta di provincia per riordinare tutto e prendere delle decisioni su una possibile vendita.

Avrebbe preferito non vendere la casa ma cosa avrebbe potuto fare? Con il suo lavoro di infermiera era impossibile mantenere un appartamento oltre il suo e da quello che ne sapeva non aveva altri parenti da cui farsi aiutare.

In effetti Penny era sempre stata misteriosa sul suo passato e non aveva mai fatto trapelare nulla sulla sua famiglia.

Da bambina Lily chiedeva spesso alla nonna di parlarle di suo nonno ma ogni volta lo sguardo di Penny si oscurava e con un sorriso triste rispondeva sempre raccontando la stessa storia.

<Nonno Lowell da giovane amava fare lunghe passeggiate nella campagna inglese, conosceva ogni albero e ogni fiore e si divertiva spesso facendomi domande trabocchetto per vedere se ero attenta alle sue spiegazioni>. Lily rideva sempre a questo punto del racconto. Il nonno doveva essere davvero tremendo! A quel punto Penny proseguiva con la parte che le piaceva di più.

<Un giorno passeggiando tra i soliti sentieri notò però una cosa strana, un fiore insolito, una fantastica margherita con dei petali del colore dei coralli, circondata da tanti piccoli fiorellini di campo. Sembrava una regina con le sue damigelle, la luna con le sue stelle>. Giunta a questo punto la nonna abbassava la voce per creare un’atmosfera magica.

<Lowell era talmente ammaliato da quel fiore così diverso dagli altri che prese una decisione spinta dall’istinto. Colse il fiore e si incamminò verso una nuova strada, per portarlo in un luogo sicuro in cui proteggerlo sempre>.

“E poi nonna? Dove ha portato il fiore il nonno Lowell?†Chiedeva Lily sempre impaziente di sentire la fine del racconto.

Penny le dava un buffetto sulla guancia e guardandola con affetto le rispondeva < Un giorno, forse, lo scoprirai>.

Lily si riscosse dai suoi ricordi e si allontanò dalla finestra. “Forza è ora di reagire e darsi una mossa†pensò. Si avviò verso il bagno, prese il bagnoschiuma alla vaniglia, il suo preferito, e riempì la vasca per fare un bel bagno rilassante.

Dopo essersi spogliata si immerse nell’acqua calda piena di bolle e iniziò a pettinare i lunghi capelli biondi.

“La nonna adorava i miei capelli, diceva che erano dello stesso colore di quelli del nonno…e pensando al nonno chissà  cosa intendeva con il finale di quella favolaâ€. Si diede una vigorosa spazzolata su tutto il corpo, come se quel gesto fosse sufficiente per spazzare via il dolore che la attanagliava.

“Meglio non pensarci più , una favola è solo una favola Lily†si disse. “ Non essere sempre così sentimentale da cercare un senso in tuttoâ€. Molto probabilmente la nonna le raccontava quella storia solo per farla stare buona.

Sciacquò via il sapone e uscì dalla vasca poggiando i piedi sul tappetino antiscivolo azzurro con le bolle, indossò un morbido accappatoio e si asciugò i capelli con cura, usando il pettine per fare quei boccoli dorati che la nonna amava tanto. Uscita dal bagno Lily indossò un semplice abito verde e dei sandali dorati, prese le chiavi dell’auto e senza pensare si diresse verso la casa della nonna.

 

Capitolo 2

Dopo aver guidato per un paio d’ore buone, Lily giunse alla vecchia casa della nonna.

“è sempre la stessa†pensò osservando il pergolato con il glicine rampicante che tanto le piaceva. Parcheggiò la macchina nel vialetto e scese facendo attenzione a dove metteva i piedi per via della strada sterrata.

Frugò nella borsetta per cercare le chiavi e aprì la porta. Subito un odore di chiuso le investì le narici.

“Accidenti, sarà  il caso di aprire la finestra o rischio di soffocare qui dentro†pensò Lily avvicinandosi alla finestra del salotto. Scostò le tende di lino ricamate e spalancò la finestra. Un getto d’aria fresca e profumata entrò immediatamente, risollevando il morale di Lily. “Ora va molto meglio†pensò. Si guardò attorno nel salotto impolverato, dove ogni cosa le ricordava nonna Penny, dalla poltroncina di velluto rosa con il poggiapiedi proprio accanto alla finestra alla piccola e graziosa libreria di mogano che conteneva tutti i romanzi preferiti di Lily.

<Come è difficile stare qui senza di te nonna> sospirò Lily. Percorse il piccolo corridoio che la separava dalla cucina e vi entrò, si avvicinò al lavello e aprì un’anta dove sapeva già  che avrebbe trovato una serie di tazze da tè ordinatamente disposte. Ne prese una, riempì il bollitore con l’acqua minerale ( nonna non voleva assolutamente che si usasse quella del rubinetto, una delle sue piccole manie) e lo mise sul fuoco. <Come direbbe nonna, un bel tè aiuta a risolvere tutti i problemi> disse Lily tra sé e sé. In attesa che l’acqua raggiungesse la giusta temperatura Lily decise di fare un giro della casa. Si alzò dalla sedia su cui si era seduta e uscì dalla cucina svoltando verso destra. Sorpassò il bagno colorato completamente di lilla, dalle pareti agli asciugamani fino al portasapone e arrivò nella camera da letto.

Lily sentì un sorriso rischiararle il volto. Quella stanza sembrava ospitare ancora sua nonna, con la foto di loro due in visita al parco acquatico conservata accuratamente sul comodino, quella della sua laurea e persino quella in cui da bambina teneva il broncio per via di un taglio di capelli particolarmente orrendo che le aveva fatto il nuovo parrucchiere della città .

Lily prese la cornice con la foto di loro due al parco acquatico e si sedette sul copriletto per osservarla meglio. Sembrava così felice in quella foto, una mano avvolta in quella della nonna e l’altra stretta saldamente attorno a un cono gelato che sarebbe caduto a terra pochi minuti dopo. Penny era stata così dolce da prendergliene un altro per placare le sue lacrime. Lei era sempre così, affettuosa e sempre disposta a concedere una nuova occasione. Lily notò negli occhi della nonna la solita ombra che le offuscava lo sguardo, che la faceva sembrare sempre pensierosa. Aveva attribuito questa caratteristica alla morte prematura di suo figlio Tom, doveva essere terribile perdere un figlio. Considerando poi che l’aveva cresciuto da sola per l’assenza di suo nonno Lowell, la nonna doveva aver avuto una grande tempra morale per essere riuscita ad andare avanti e al contempo di occuparsi di una bambina piccola ed esigente.

Lily posò la foto sul comodino nel punto esatto in cui si trovava prima e notò un piccolo cassetto a cui non aveva mai fatto caso. La nonna non amava che andasse a giocare nella sua stanza e una volta cresciuta non aveva mai avuto motivo di entrarci se non in sua presenza. Spinta dalla curiosità  aprì il cassetto e vide al suo interno un fazzoletto di tela ricamato, un portapillole d’argento, un quadernetto e un sacchettino profumato. “Nulla di straordinario direi†pensò Lily ma un attimo dopo la sua attenzione venne attirata dal quadernetto con la copertina di pelle su cui erano incise due lettere dorate P.P. “Le iniziali della nonna, Penelope Parker†l’intuizione arrivò in un lampo.

Lily sollevò quello che fino a un attimo prima pensava che fosse un semplice quadernetto rendendosi conto che poteva essere molto di più. Aprì la copertina rigida con cura e con attenzione lesse la scritta sulla prima pagina <Diario di Penelope Parker>. In tutti gli anni che aveva vissuto con la nonna, Lily non si era mai resa conto che avesse un diario. Esitò fissando le pagine e chiedendosi se fosse giusto leggerne il contenuto senza permesso. “Ma dopotutto che differenza fa†pensò Lily, “ Penny non c’è più e se ha lasciato il diario a portata di mano significa che sapeva che avrei potuto trovarlo e leggerloâ€. Risollevata da questa nuova consapevolezza girò la prima pagina e iniziò a leggere.

 

Capitolo 3

Londra 1938

Penelope Parker era considerata da tutta la società  una vera bellezza. Un fisico longilineo, capelli biondo ramati e due grandi occhi azzurri sempre attenti a cogliere ogni novità .

<Daisy!>Penelope si girava irrequieta nella sua stanza. < Daisy!!!!! Ti vuoi sbrigare?>

<Sono qui miss Penny solo un attimo>.Nella stanza entrò una cameriera dall’aria trafelata, che sembrava aver appena corso una maratona. <Mi perdoni miss Penny, sua madre aveva bisogno del mio aiuto giù nel salone, per la disposizione delle composizioni floreali> disse Daisy, osservando al contempo le guance rosee di Penelope che continuava a camminare su e giù per la stanza.

< Vi sentite poco bene miss Penny?> Daisy la guardò con aria preoccupata. <Non vi sarete presa la febbre proprio oggi spero>.

Penelope interruppe la sua frenetica camminata e la guardò come se fosse una sciocca fantasia.

< Non dire sciocchezze Daisy sono solo molto preoccupata> disse Penelope tornando a camminare su e giù.

< Sai cosa mi ha comunicato mia madre questa mattina?>.

Daisy era certa che lo avrebbe scoperto a breve.

Infatti Penelope proseguì il suo discorso senza aspettare una risposta.

<Al ballo di questa sera parteciperanno anche i Cecil. I Cecil capisci? La famiglia più in vista della città . E saranno accompagnati dal loro unico figlio, Lowell> Penelope emise un lungo sospiro e si accasciò sulla chaise longue.

<Lowell Cecil, il futuro duca qui?> Daisy era decisamente stupita. Aveva sentito molte voci giù in paese secondo le quali il giovane Lowell era il miglior partito del Paese e tutte le famiglie nobili con delle figlie da accasare lo invitavano di continuo ad ogni festa con qualsiasi scusa.

“Ovvio che venga qui†pensò Daisy senza dar voce ai suoi pensieri. “Mr e Mrs Parker vorranno di sicuro vincere la competizione e ottenere il matrimonio migliore per la loro adorata figliolaâ€.

Daisy andò alle spalle di Penelope per riscuoterla dal suo stato e fece finta di provarsi il suo abito da ballo.

<Mettilo giù immediatamente, non vorrai stropicciarlo> tuonò Penelope che balzò subito in piedi.

Daisy la guardò con rimprovero.

< Scusami Daisy non so che mi prende oggi> disse Penelope guardando Daisy con aria dispiaciuta.

<Non importa miss Penny lo capisco> lo sguardo di Daisy si addolcì < Vi piace davvero molto Lowell vero?>

Penelope arrossì fino alla radice dei capelli.

<Be certo che mi piace> balbettò < è così bello e alto e biondo e forte..>

<Ho capito ho capito> Daisy scoppiò in una risata allegra.

< Non dovete preoccuparvi di nulla miss Penny> disse guidandola verso la sedia davanti alla toletta e iniziando a spazzolarle i capelli < sarete la più bella questa sera e sono certa che Lowell non avrà  occhi che per voi>.

Penelope chiuse gli occhi per godersi al massimo la spazzolata e si rilassò sotto il tocco delicato di Daisy.

<E poi indosserete quel meraviglioso abito azzurro che vostro padre ha ordinato direttamente dal miglior stilista di Parigi> Daisy gli lanciò un’occhiata di sfuggita e lo vide appoggiato sul grande letto a baldacchino, scintillante e perfetto per la bellissima Penelope.

< Sai una cosa Daisy?> disse Penelope aprendo gli occhi e rimirandosi nello specchio. <Hai proprio ragione> scosse i capelli ramati che le avvolgevano il viso in morbide onde, < Io sono Penelope Parker, ammirata da tutti, e stasera Lowell sarà  mio>.

 

Capitolo 4

Lily continuava a fissare la pagine del diario appena lette ed era del tutto sconcertata. “Nonna Penny apparteneva alla nobiltà  inglese? E perché mai non ne ha mai fatto parola con nessuno?†il pensiero continuava a frullarle per la mente nonostante la tazza di tè appena finita.

Sapeva che la nonna era inglese, ma nobile…era tutto così assurdo che le venne mal di testa e decise di prendere aria facendo una passeggiata per schiarirsi le idee, così chiuse il diario e lo mise nella sua capiente borsa per poi avviarsi verso la strada principale del paese.

Passeggiando tra i vari negozietti iniziò a rilassarsi anche se il pensiero di sua nonna non la lasciava in pace.

Non si spiegava troppe cose, se Penny era nobile perché aveva lavorato tutta la vita per mantenere lei e suo figlio Tom? E Lowell che ruolo aveva in tutto questo? Che fine aveva fatto?

Immersa nei suoi pensieri non si era accorta di essere arrivata di fronte ad una agenzia di viaggi e si fermò a scrutarne la vetrina. Annunci di viaggi in Egitto, Australia, Amsterdam e… Londra….un’idea iniziò a farsi spazio nella sua mente.

“E se…†pensò, “ma no sarebbe una follia†fece un passo avanti. “Però..â€

< Ha bisogno di aiuto signorina?> una voce le arrivò dalla porta del negozio < Se è indecisa su qualche meta perché non entra? Magari posso darle una mano>.

Lily si voltò e vide un uomo di mezza età  poco più alto di lei con dei grossi baffi neri che gli spuntavano da sotto il naso e una pelata su cui si rifletteva la luce del sole.

< Veramente non era mia intenzione partire è solo che..> Lily osservò il sorriso invitante dell’uomo e decise che forse era un segno del destino.

< Sa una cosa? Effettivamente mi è appena venuta voglia di fare le valigie> .

< Fantastico> disse il proprietario dell’agenzia < e sa già  dove le piacerebbe andare?>.

Lily spostò la mano sulla borsa che conteneva il diario.

< Sì> disse < torno a casa>.

 

Capitolo 5

Londra 1938

Penelope si stava osservando nel lungo specchio dalla cornice dorata che aveva posizionato strategicamente accanto al guardaroba.

L’abito azzurro la avvolgeva alla perfezione ed esaltava il suo incarnato donandole un colorito roseo sano e naturale. La collana di zaffiri e diamanti ricevuta in dono dal padre era perfettamente abbinata all’abito e scintillava come la luce riflessa su uno specchio d’acqua.

< Siete bellissima miss Penny> Daisy era accanto a lei e aveva appena terminato di sistemarle l’acconciatura fatta di riccioli elaborati, che tanto andavano di moda.

< Lo pensi davvero Daisy? Non lo dici solo perché sei la mia cameriera?> Penelope la guardò con gli occhi colmi di speranza.

Daisy sorrise amorevolmente. Penelope era come un’arancia dalla scorza dura all’esterno e dal cuore tenero.

< No miss Penny, lo dico perché lo siete davvero, e non lo dirò solamente io sapete> Daisy la guardò con aria furba <sono certa che Lowell non avrà  occhi che per voi>.

Penelope si guardò per l’ultima volta allo specchio e si voltò verso Daisy.

< Grazie Daisy sei la mia più grande amica e ti sono grata per tutto quello che hai fatto per me> gli occhi le si riempirono di lacrime < Non so cosa farei senza di te>.

Daisy la abbracciò stretta facendo attenzione a non rovinarle l’abito né a sporcarlo accidentalmente.

< E voi lo siete per me miss Penny. Siete come una sorella per me, dopotutto siamo cresciute insieme> Daisy si scostò da Penelope e le asciugò una lacrima.

< Ora basta è ora di scendere e conquistare il vostro principe>.

Penelope la guardò roteando gli occhi verso l’alto.

<è un duca Daisy, un duca! Possibile che in tutti questi anni non hai ancora imparato i titoli nobiliari? Eppure sono semplici>  fece schioccare la lingua sul palato <Però è davvero ora di scendere o non sarò pronta per ricevere gli ospiti> Penelope uscì dalla porta della sua stanza lasciando Daisy impalata nel punto esatto in cui aveva sciolto l’abbraccio poco prima.

Un secondo dopo rientrò.

<Daisy?>

Daisy la guardò sospettando che si fosse accorta di averla ferita e volesse scusarsi.

<Sì miss Penny?>

Penelope fece un ampio sorriso.

<Ricordati di rassettare la stanza, piegarmi gli abiti, cucire lo strappo sul mio guanto e di farmi trovare il letto caldo per quando sarò tornata>. La guardò con aria interrogativa.

<Be che fai lì immobile muoviti no? Non ti aspetterai che queste cose si facciano da sole> si voltò e con una risatina divertita sparì nel corridoio diretta verso la scalinata che conduceva all’ingresso della tenuta.

Daisy si riscosse e si guardò intorno nella stanza che vedeva ogni giorno e in cui nulla le apparteneva.

“ Chissà  se mi considererebbe ancora una sua grande amica se non le rifacessi il letto ogni giorno†pensò Daisy, ma subito si pentì del suo pensiero maligno e si mise al lavoro.

 

Penelope era nella sala da ballo gremita di gente ma ancora Lowell non si vedeva. “Ma dove sarà ?†pensò angosciata continuando ad alzarsi in punta di piedi per cercare di sbirciare sopra le teste degli invitati. “ Tutti gli ospiti sono già  qui ma lui non c’è, e se mia madre avesse capito male? Se avesse cambiato idea all’ultimo momento preferendo un altro ricevimento?†“ma no†si disse poi, “Questo è il party più importante della città , sicuramente arriverà , devo avere pazienzaâ€. Penelope si avvicinò a delle sue coetanee verificando con un rapido colpo d’occhio che non sembravano essere alla sua altezza. < Penelope Parker, la star della serata> disse la ragazza più vicina a lei, lady Mary, nient’altro che una ragazzina scialba stretta in un abito vaporoso rosa che la faceva assomigliare ad un confetto.

<Ho saputo che stasera avremo un ospite d’onore, Lowell, futuro duca Cecil>guardò Penelope con aria maligna.

<Peccato che non si sia ancora visto, non è che avete messo in giro questa voce per attirare gli ospiti vero?>le altre ragazze iniziarono a sogghignare tra di loro e Penelope si sentì arrossire per la rabbia.

<Non credo Mary> Penelope fece sfoggio del suo migliore autocontrollo per rispondere all’offesa.

<Avrà  sicuramente avuto qualche contrattempo ma sono certa che presto sarà  qui> “o almeno lo spero†pensò Penny che iniziava ad agitarsi. “Sarà  un disastro se non si presenterà , non potrò più mostrarmi in pubblico per la vergognaâ€.

Penelope si allontanò dalle ragazze e uscì sul balcone per prendere una boccata d’aria. Da quel piano rialzato poteva scorgere l’intero giardino della tenuta rischiarato dalla luna. “Ti prego†pregò guardando il cielo, “ fa che arrivi prestoâ€.

Come per incanto iniziò a sentire dei rumori sul vialetto di ingresso. Si sporse facendo attenzione a non farsi vedere troppo e vide l’auto guidata dall’autista dei Cecil parcheggiare proprio davanti all’ingresso mentre un cameriere correva immediatamente ad aprire la portiera. Il duca Abraham Cecil scese per primo dalla vettura e porse la mano alla moglie per aiutarla a scendere. Penelope si accorse che i battiti del suo cuore erano aumentati notevolmente.

“Sta per scendere e ora finalmente lo vedrò†ma con sua enorme delusione il cameriere richiuse la portiera e fece strada ai nuovi ospiti verso il portone di ingresso.

“Ma cosa significa?†Penelope ormai era disperata. “Perché non c’è?â€. Con questo pensiero che le frullava in testa rientrò nella sala da ballo per richiedere spiegazioni, sotto lo sguardo di compatimento lanciatole da lady Mary.

 

Nella stanza di Penelope, Daisy aveva finito di riordinare e si era seduta sulla comoda poltroncina davanti al fuoco per rilassarsi prima della fine della serata.

“ Chissà  come starà  andando giù di sotto†Daisy era certa che Penelope avrebbe raggiunto il suo obiettivo.

La determinazione era la sua dote migliore. Con la coda dell’occhio vide un abito scarlatto nel guardaroba che era caduto dalla sua gruccia. “Che maldestra†pensò Daisy alzandosi dalla poltroncina “ meno male che me ne sono accorta prima di miss Penny o chissà  che tragedia†si avvicinò all’abito e lo prese con attenzione.

La seta le frusciò tra le dita. Aveva sempre desiderato un abito come quello ma ovviamente non avrebbe mai potuto permetterselo. “Però potrei provarlo anche solo per un secondo..†il pensiero la colse di sorpresa. Daisy si era sempre ritenuta una ragazza semplice e di poche pretese. Era nata in una famiglia povera e la sua assunzione come cameriera personale di miss Penny era stata davvero una fortuna per lei. Aveva un buon guadagno, un tetto sulla testa e pensava anche di aver trovato un’amica. In fondo nonostante Penelope fosse viziata e capricciosa non era crudele e la sua compagnia era indubbiamente migliore rispetto a quella dei delinquenti che vivevano nella strada in cui abitava da bambina. Senza contare che crescere con Penny si era rivelato utile perché aveva beneficiato del suo precettore personale per prendere lezioni di matematica, letteratura e filosofia. Sapeva leggere e scrivere e solo per questo si sentiva già  molto fortunata. “Ma sì che male posso fare a indossare questo abito†per una volta anche Daisy voleva sentirsi bella e importante e non sempre infilata nel suo grembiule di servizio che la faceva sembrare goffa e impacciata. Si tolse la divisa appoggiandola sul piccolo pouf nel guardaroba e si mise l’abito che le calzava a pennello.

Aveva un bustino incrostato di brillanti rosso sangue e un’ampia gonna che arrivava al pavimento. Calzò le scarpette di raso abbinate con un piccolo tacco e si posizionò davanti allo specchio sciogliendosi i capelli. Una cascata di boccoli neri come la notte le arrivò fino alla vita. Daisy amava i suoi capelli, erano il suo tallone d’Achille. Ogni sera prima di coricarsi li spazzolava accuratamente per rimuovere tutti i nodi e durante il giorno li legava in un morbido chignon per non rovinarli. Guardandosi allo specchio Daisy faticò a riconoscersi. Il rosso scarlatto era decisamente il suo colore, faceva brillare i suoi grandi occhi verdi e la sua pelle pareva di porcellana.

<Però niente male> Daisy si spaventò terribilmente sentendo una profonda voce maschile alle sue spalle e fece un balzo che avrebbe reso invidiosa persino una lince.  

Si voltò e vide un ragazzo alto, biondissimo e dalle spalle larghe subito fuori dalla stanza con un sorrisetto sornione dipinto sulla faccia. Fece un passo avanti e si appoggiò allo stipite della porta incrociando le braccia mentre Daisy lo fissava a bocca aperta. Era il ragazzo sicuramente più bello che avesse mai visto. “E di certo anche il più arrogante†pensò quando aprì bocca un secondo dopo.

<Come mai una bellezza come te si nasconde quassù?>il ragazzo fece qualche passo avanti guardandosi attorno come se fosse nella normalità  entrare senza permesso nella stanza di una ragazza sola.

<Allora, ti hanno mangiato la lingua?>disse guardandola con curiosità . Solo in quel momento Daisy si rese conto che lo stava fissando con la bocca leggermente socchiusa, senza proferire un suono. Di colpo fu come se le fosse risuonato un gong nella testa, si riscosse e cercò di riprendere il controllo della situazione.

<Che cosa ci fate qui? Non potete restare in questa stanza, vi prego di andarvene immediatamente> il tono duro di Daisy non fece altro che far aumentare il ghigno sul volto del bel ragazzo.

<Vi prego di perdonarmi allora, toglierò il disturbo>disse il ragazzo con un tono decisamente ironico anche se non sembrava affatto intenzionato ad andarsene. Girò attorno alla poltrona e si avvicinò a Daisy che restava immobile davanti alla toletta.

<Oppure…>si avvicinò ancora < potreste dirmi il vostro nome e scendere con me>ormai era a pochi passi di distanza.

<O forse> Daisy fece un passo di lato per cercare di allontanarsi da lui <non mi interessa affatto scendere di sotto con voi ma soltanto vedervi sparire da qui> il tono fu più aspro di quello che si aspettava ma non sortì l’effetto che aveva sperato.

Il giovane affascinante fece una risatina sommessa e allungò il braccio fino a toccare la parete bloccando il suo tentativo di fuga.

<Ogni vostro desiderio è un ordine milady> disse facendo un finto inchino. Daisy abbassò lo sguardo sui capelli biondi di lui che sembravano così soffici e morbidi e uno strano istinto la spinse a sfiorarli con le dita.

Tutto il resto avvenne così rapidamente che poi passò tutta la notte a pensarci e ripensarci.

Lui si risollevò e si piegò verso di lei fino a incontrare le sue labbra mentre la mano di Daisy si immerse di più tra i suoi capelli. Fu un bacio veloce ma intenso che scatenò nel cuore di Daisy delle sensazioni contrastanti.

C’era qualcosa la spingeva verso quel ragazzo così affascinante ma allo stesso tempo la metteva a disagio. Di colpo si rese conto di quello che stava succedendo e lo spinse via.

<Io non so cosa mi sia preso> balbettò Daisy in preda alla confusione. Lui la guardò ancora un istante prima di scostarsi da lei. Le diede le spalle e in silenzio si avviò verso la porta.

<A proposito milady> disse con quel suo sorrisetto < nel caso vi interessi saperlo, il mio nome è Lowell> e con queste parole lasciò la stanza.

 

Penelope si accorse della presenza di Lowell nella sala da ballo solo grazie ai sospiri che si sollevarono all’unisono dalle donne nella sala. Al momento della sua comparsa lei si trovava di fianco a sua madre, bisbigliandole fastidiosamente all’orecchio per sapere dove diavolo fosse finito. “Finalmente è qui!!!!†Penelope sorrise al massimo della felicità  e si affrettò a raggiungerlo.

Una volta giunta alla fine della scalinata lui la guardò e sorrise prendendole la mano e inchinandosi a baciarla leggermente.

<è un piacere fare la vostra conoscenza lady Penelope>Lowell la guardò con quei suoi occhi penetranti.

<Il piacere è mio> disse Penny chinando leggermente la testa come le era stato insegnato.

<Ma vi prego, chiamatemi Penny>aggiunse subito dopo < Dopotutto da oggi passeremo molto tempo insieme e vorrei conoscervi meglio>. Penelope lo prese sotto braccio e iniziò a spingerlo verso la sua famiglia.

<Vorrei presentarvi i miei genitori> Penny sorrise raggiante mentre Lowell la guardava leggermente infastidito dal suo modo di fare.

<A proposito> Penny arrestò la sua corsa e si voltò di colpo verso Lowell <Come mai non siete arrivato con i vostri genitori?> .

Lowell sollevò un sopracciglio e le rispose semplicemente <Non amo molto entrare dall’entrata principale tutto qui>.

Penelope non si diede pena di domandare altro, gli strinse la mano e lo trascinò di nuovo verso l’obiettivo.

Mentre Lowell passava il resto della serata ad essere trascinato da ogni ospite possibile, Daisy nella sua stanza era ancora sotto shock.

“Ho baciato un perfetto estraneo che per di più si è rivelato essere il ragazzo tanto sognato da Penny†pensò Daisy in completa agitazione mentre si toglieva l’abito da sera per indossare di nuovo la sua uniforme.

Uscì dal guardaroba e aprì la porta comunicante con la stanza principale che si apriva sulla sua piccola stanzina.

Dormiva lì per essere sempre vicina a Penelope in caso avesse bisogno di lei. Si sedette sul letto e poi si gettò indietro sdraiandosi completamente e buttando la testa sul cuscino. L’unico pensiero che le frullava per la testa era il bacio di Lowell. L’aveva stregata nei pochi minuti che era stata in sua compagnia nonostante i suoi modi arroganti, come se fosse abituato ad avere tutte le ragazze ai suoi piedi. “E probabilmente è proprio così†pensò con un moto di stizza. “Sono stata una vera sciocca, non dovrà  accadere mai piùâ€. E con questo pensiero in testa si addormentò.

 

Capitolo 6

Lily era andata avanti con la lettura del diario di nonna Penny durante il suo viaggio in aereo. Mentre viaggiava in taxi diretta alla tenuta dell’antica famiglia Cecil si stava ancora chiedendo come doveva essere stato essere una ragazza appartenente all’alta nobiltà  inglese per poi ritrovarsi in povertà , secondo i suoi calcoli, neanche troppo tempo dopo la scrittura di quel diario. L’immagine di Penelope che trapelava dalle pagine contrastava nettamente con i ricordi di Lily. “Chi avrebbe mai detto che la nonna da giovane era una ragazzina capricciosa e viziata e circondata da camerieri†Lily si ricordava di sua nonna come di una donna forte e indipendente, che si era guadagnata tutto quello che aveva con le sue mani senza chiedere nulla a nessuno. “Come si cambia nella vita quando si incontrano delle difficoltà â€ pensò osservando i cambiamenti nel panorama fuori dal finestrino. Il cielo stava lentamente cambiando colore e un raro sole estivo iniziò a comparire tra le nuvole. Il taxi rallentò e accostò davanti ad un enorme cancello in ferro battuto.

<Siamo arrivati a destinazione signorina> disse l’uomo alla guida del taxi <vuole una mano con i bagagli?>

<No non ce ne sarà  bisogno la ringrazio> Lily pagò il tassista con un paio di banconote e aprì la portiera per scendere. <Viaggio molto leggera> aggiunse mostrando il piccolo borsone a righe viola e rosa che utilizzava per le sue gite da quando era piccola.

“Eccoci qui dunque†pensò Lily mentre osservava il lungo vialetto sterrato circondato da grandi alberi frondosi da dietro il cancello chiuso. L’imponente casa si vedeva nonostante la distanza. Le sembrava incredibile che la sua famiglia avesse vissuto lì. Lily notò un grazioso citofono dorato con un solo pulsante e decise di fare un tentativo suonando.

<Sì?> rispose dopo pochi secondi una voce femminile.

<Sì, buongiorno signora mi chiamo Lily Cecil e vorrei parlare con il gestore della tenuta se possibile>Lily sperò di aver avuto un tono di voce tranquillo e non tremolante per l’agitazione.

All’altro capo del citofono ci fu qualche istante di silenzio.

<Cecil ha detto?>la signora aveva un tono decisamente sorpreso <Le mando subito il giardiniere ad aprire il cancello> .

Lily dovette attendere solo pochi secondi prima di veder apparire all’orizzonte una piccola vettura con un uomo alla guida.

<Salve, è lei la signorina Cecil?> L’uomo aveva l’aria simpatica, con una lunga barba in cui erano ancora impigliate delle foglioline.

<Proprio io> disse Lily sorridendo.

<Che aspetta allora, salga su che la accompagno alla casa>.

Lily chiacchierò allegramente con James, che scoprì lavorava alla tenuta già  da parecchi anni.

James non la lasciò davanti all’ingresso principale come si aspettava ma la condusse lungo una stradina sulla sinistra che portava a una piccola dependance.

<La lascio qui signorina Lily> Lily lo aveva pregato di chiamarla per nome <Io proseguo fino alla rimessa per le auto>.

Lily lo ringraziò e scese dall’auto. Salì i due scalini davanti alla porta ma prima che potesse bussare questa si spalancò e una signora grassottella con un ampio sorriso le andò subito incontro.

<Piacere di conoscerti cara io sono Rose e lavoro alla tenuta ma vieni pure entra, gradisci una tazza di tè?> disse tutto questo senza quasi prendere fiato.

<Sì la ringrazio molto>. Lily si sedette sulla sedia che la signora le aveva scostato dal tavolo della cucina e si sedette iniziando a giocherellare nervosamente con il bordo della tovaglia a fiori.

Adesso che si trovava lì non sapeva bene che cosa fare. “Coraggio Lily concentrati†fece un grosso respiro per rilassarsi e aprì la bocca per iniziare il suo discorso ma venne preceduta dalla signora che le posò davanti una tazza di tè fumante.

< Allora da quello che mi hai detto al citofono cara, il tuo cognome è Cecil giusto? Come gli antichi padroni della tenuta>. Ancora una volta Lily cercò di parlare ma non ci riuscì <sai mia nonna lavorava alla tenuta come cameriera molti anni fa e io sono cresciuta ascoltando le sue storie sulla famiglia Parker> prese fiato un secondo e andò avanti <Sapevi che prima di appartenere ai Cecil la casa era della famiglia Parker non è vero? Divenne di proprietà  dei Cecil solamente dopo il matrimonio dell’unica figlia della famiglia, Penelope Parker con il giovane rampollo Lowell Cecil. Mia nonna ripeteva sempre che era un giovane molto bello e con uno stuolo di ammiratrici> sorrise sognante e Lily approfittò del momento per introdursi nella conversazione <Sì il mio nome è Lily e.. > e ora che era lì tutto quello che aveva pensato le sembrò assurdo e ridicolo. Cosa poteva dire, che aveva scoperto tramite un diario che sua nonna viveva lì? Anzi non viveva semplicemente lì, era la figlia dei padroni? L’avrebbe sicuramente presa per una pazza e avrebbe chiamato la polizia. Decise di non rivelare nulla per il momento e di stare a vedere come si evolveva la situazione. Per fortuna non doveva preoccuparsi che la conversazione languisse vista la parlantina di Rose che approfittò del momentaneo silenzio per riprendere il discorso.

<Ma scommetto che non sei qui per sentire le storie di una vecchia signora vero?>Rose le diede un buffetto sul braccio <in realtà  so perfettamente come mai sei qui cara> il cuore di Lily iniziò a battere più forte “che sappia davvero qualcosa?†<Dato il tuo cognome sarai voluta venire a visitare il museo dedicato alla famiglia, vero?>. Rose prese l’espressione stupefatta di Lily come una risposta positiva. <Purtroppo il museo riaprirà  lunedì perciò dovrai aspettare un paio di giorni ancora prima di visitarlo ma se ti va perché non ti fermi qui? Ho una stanza in più e potrei mostrarti i giardini se vuoi, Lowell Cecil li adorava> Rose aveva un’espressione così carica di aspettativa che Lily proprio non se la sentì di deluderla.

<D’accordo perché no> Lily sorrise <E magari potrebbe raccontarmi qualche altra storia sulla famiglia che abitava qui>.

Rose era a dir poco raggiante da quella proposta <Ma certo, cara ma certo> si alzò e le fece segno di seguirla <Domani ti racconterò tutte le storie che vuoi ma per oggi dovrai solo goderti un po’ di riposo, hai l’aria affaticata>. Salirono la scala che portava al primo piano e Rose aprì la prima porta a destra <Ecco qui la tua stanza cara. La mia si trova in fondo al corridoio nel caso ti servisse qualcosa>si avvicinò alla finestra e scostò le tende per far entrare la luce <Ti preparo un bel bagno caldo, ti avviso non appena sarà  pronto> e detto questo uscì dalla stanza.

Lily si guardò attorno. La camera era piccola ma confortevole con un letto dall’aria molto comoda, un piccolo armadio nell’angolo che sarebbe bastato a contenere i suoi pochi vestiti e c’era persino uno scrittoio con uno sgabello.

“Chissà  se riuscirò a scoprire qualcosa di più sulla mia famiglia†penso Lily sdraiandosi sul letto.

“Cosa nascondevi nonna Penny?†con questo pensiero e avvolta dalla stanchezza si addormentò.

 

Capitolo 7

Londra 1938

Non era neanche l’alba quando un bussare incessante alla porta costrinse Daisy a svegliarsi.

<Che succede? Miss Penny siete voi?> disse Daisy con la voce ancora impastata dal sonno.

La porta si spalancò facendo sobbalzare Daisy dallo spavento. “Sta succedendo un po’ troppo spesso per i miei gusti†pensò, ma un secondo dopo la sua attenzione venne attirata da Penelope che la prese per un braccio e la scaraventò letteralmente fuori dal letto.

<Oh Daisy non puoi sapere cosa è successo ieri sera, ho delle notizie incredibili, rimarrai a bocca aperta dallo stupore>.

“Mai quanto te se ti raccontassi le mie†penso Daisy che però ebbe il buon senso di non dire nulla.

<Allora ieri sera dopo essere scesa ad accogliere gli ospiti..> a Daisy la voce di Penelope arrivava come da molto lontano. “A quanto pare non sa nulla meno maleâ€. Daisy aveva dormito malissimo per la paura che Penny scoprisse quello che era successo la notte prima.

“Stupida, stupida, stupida†continuava a ripetersi. “Non avrei mai dovuto comportarmi cosìâ€. Mentre pensava guardava con aria assorta la bocca di Penelope che si muoveva a una velocità  frenetica per raccontarle tutto nei minimi particolari ma le pervenivano solo pezzi di frasi sconnesse. <Dovevi vedere la faccia di Lady Mary>….

<..voleva mettermi in ricolo davanti a tutti>…

<..sceso Lowell>…il nome le fece battere il cuore più velocemente.

<…chissà  che faceva al piano di sopra..> Daisy si accorse di aver assunto un colorito violetto ma per fortuna Penny non sembrava avervi dato peso data la sua concentrazione nel proseguire il racconto.

“Oh cielo per un attimo ho pensato stesse per chiedermi se l’avessi visto†Daisy tornò a rimuginare sugli avvenimenti della sera prima. “Se non gli avessi toccato i capelli mi avrebbe comunque baciata? Forse gli ho dato l’impressione sbagliataâ€.

Penelope non si accorse minimamente del turbamento di Daisy né che non la stesse affatto ascoltando. Proseguì il suo racconto infervorata e Daisy annuiva di tanto in tanto per dare l’impressione di ascoltare attentamente invece di essere immersa nei suoi pensieri.

<..abbiamo parlato tutta la sera…>.

“non mi avrà  scambiata per una poco di buono speroâ€.

<…ha detto di essere interessato ai giardini…>.

“Ma perché dovrei essere io quella a preoccuparmi, è stato lui a entrare in una stanza senza permessoâ€.

<…personalmente detesto il giardino lo sai, con quegli orrendi insetti e il fango ovunque quando piove…>.

“Oltretutto mi ha spaventata da morire, poteva essere un assassino per quello che ne sapevo ioâ€.

<…invitato oggi…>.

“Aspetta cosa??†Daisy sembrò uscire dal suo stato di trance e guardò Penelope inorridita.

<Cosa avete detto miss Penny? Lowell verrà  qui?> Daisy era sbiancata di colpo.

<Per l’amor del cielo Daisy svegliati te l’ho detto un secondo fa> Penny la osservò con aria sospettosa.

<Mi stavi ascoltando non è vero?> disse socchiudendo gli occhi <Ma ti senti bene? Hai una faccia orribile, sembri un cadavere> si spostò leggermente indietro come per mettere un po’ di distanza tra loro due.

<Sì miss Penny sto bene scusatemi, ho solo dormito poco> rispose Daisy senza scomporsi per la mancanza di delicatezza di Penelope. Ormai ci aveva fatto l’abitudine.

<Fantastico, bene>esclamò Penny tornando un passo avanti.

<Come ti stavo dicendo, questo pomeriggio i miei genitori hanno invitato Lowell con la scusa di mostrargli i giardini alla luce del sole> fece una smorfia <come se importasse a qualcuno vedere tutte quelle noiose piante> si voltò e si diresse verso lo specchio per ammirarsi <Che avrà  mai da vedere quando ha di fianco una bellezza come me?> mentre lo diceva sorrise alla sua immagine riflessa e si sistemò i capelli, come per delle prove prima dello spettacolo.

<Ovviamente tu verrai con noi Daisy, così potrai portare il cestino con il rinfresco. Non so perché ma Lowell ha insistito per fare un picnic all’aria aperta e non c’è stato verso di dissuaderlo…> andò verso il guardaroba e mentre parlava iniziò a tirare fuori un vestito dopo l’altro per decidere quale dei tanti le sarebbe stato meglio. Ne prendeva uno , lo avvicinava, faceva una smorfia e lo lanciava a terra come se fosse uno straccio vecchio e non un abito di sartoria che Daisy non si sarebbe potuta permettere neanche con la paga di un mese.

<Sai che non sopporto queste attività  campagnole> sbuffò lanciando un abito verde acceso che centrò in pieno la poltrona.

<Sarà  così noioso, ma almeno starò in compagnia del mio Lowell> sorrise e si soffermò ad osservare un vestito giallo con le maniche a sbuffo e dei ricami di pizzo.

<Questo è perfetto> disse soddisfatta della scelta. Daisy pensò che sarebbe stato più opportuno a una serata di beneficienza che a un semplice picnic sul prato ma si guardò bene dal dirlo.

Penelope si guardò attorno nella stanza come se ci fosse appena entrata ed esclamò <E sistema questo caos Daisy, non vedi che ci sono vestiti ovunque? Devo sempre dirti tutto che pazienza>.

Daisy non rispose a quell’ingiustizia e la aiutò a prepararsi per il pomeriggio fuori ma al contempo stava cercando una possibile scusa per non presentarsi. Era impensabile che andasse con loro. No, non poteva certo rivedere Lowell, cosa gli avrebbe detto? Lui l’aveva sicuramente scambiata per una ragazza di buona famiglia visto che indossava  l’abito di Penny. Che avrebbe fatto se avesse scoperto di aver baciato una cameriera? Daisy non era certa di volerlo scoprire.

<Miss Penny..> disse Daisy titubante mentre il suo cervello lavorava furiosamente per trovare una soluzione.

Penelope la guardò con aria interrogativa.

<Ecco.. io in effetti non mi sento molto bene, ho avuto dei terribili dolori di stomaco questa notte e..> non fece in tempo a finire la frase che Penny si era allontanata da lei alla velocità  della luce.

<Ma perché non l’hai detto subito Daisy?> esclamò concitata.

<Quante volte ti ho ripetuto che devi avvisarmi immediatamente quando non ti senti bene? Vai a sdraiarti. No non qui> Disse subito quando vide Daisy avviarsi verso la porta del suo stanzino.

<Va’ giù in cucina e chiedi alla cuoca di prepararti un brodo caldo> Daisy era quasi commossa dalla gentilezza di Penny.

<Magari chiedile anche se puoi dormire lì> aggiunse <Non vorrei che ti fossi presa una malattia infettiva, e in tal caso non vorrai attaccarmela>Penelope sorrise incoraggiante.

<Su vai>.

Daisy le diede le spalle e uscì senza dire una parola. Era mai possibile che Penelope dovesse essere così scortese? Ma perlomeno aveva trovato il modo di evitare quel pomeriggio. Diciamo che era un piccolo prezzo da pagare per evitare il problema. Immersa nei suoi pensieri svoltò l’angolo e andò a imbattersi in cinque persone che stavano andando verso il salotto. Con suo grande orrore si accorse che erano i genitori di Penelope in compagnia dei signori Cecil e del loro unico figlio Lowell. Il suo cuore iniziò a battere forte. “ E adesso cosa faccio?†abbassò la testa e continuò a camminare cercando di non dare nell’occhio ma quel giorno la fortuna non era dalla sua parte.

<Daisy saresti così gentile da andare in cucina e far portare del tè per i nostri ospiti?>le disse la signora Parker.

<Sì signora subito> rispose prontamente Daisy che si mise quasi a correre per la fretta di arrivare in cucina.

Dal corridoio sentì la voce della signora Parker dire agli ospiti <..di solito è così affabile, non so cosa le sia preso>.

Vergognandosi per la pessima figura Daisy entrò in cucina e riportò alla cuoca la richiesta della signora.

Scostò una sedia dal tavolo e si sedette con un sospiro.

<Tutto a posto cara?> la cuoca la guardò un istante per verificare che stesse bene.

<Sono solo stanca tutto qui> rispose Daisy <Penelope a volte si comporta peggio di una bambina>.

La cuoca alzò gli occhi al cielo. I capricci di Penelope erano famosi tra tutta la servitù.

<Mi dispiace piccola ma temo che non potrai ancora riposare per oggi>. Daisy si voltò e vide che le stava porgendo il vassoio con l’occorrente per il tè.

<La mia nuova sguattera si è bruciata una mano questa mattina e ho dovuto mandarla di corsa dal medico giù in paese..>

“Oh no, oh no, oh no, dimmi che non sta per dire quello che penso†pensò Daisy in una muta preghiera.

 <…perciò ho bisogno che porti di sopra tutto quanto> terminò.

“Sono finita†pensò Daisy affranta mentre percorreva la strada che la separava dal salotto e da Lowell.

“Magari vestita così non mi riconoscerà  neppure†cercò di darsi speranza “non ho nemmeno i capelli scioltiâ€.

Entrò nel salotto con la maggiore discrezione possibile e con sollievo si accorse che Lowell stava conversando con il padre di Penelope dandole le spalle.

Stava quasi per mettersi a saltare dalla gioia.

Versò il tè nelle tazze il più rapidamente possibile per togliersi dai piedi, fece un mezzo inchino e si diresse verso la porta ma come ben si sa, la fretta è cattiva consigliera. Cercando uscire alla svelta Daisy inciampò nel tappeto e andò a sbattere un ginocchio contro il piccolo tavolino su cui aveva appena appoggiato il servizio da tè, facendolo tintinnare vigorosamente. La signora Parker urlò dallo spavento mentre la madre di Lowell strillò “ma cosa..†quando uno schizzo di tè le macchiò l’abito. Daisy si ritrovò seduta sul morbido tappeto fissata con sgomento da tutti.

Ma non erano gli occhi preoccupati della signora Parker o quelli colmi di rimprovero della signora Cecil che stava guardando, bensì quelli di Lowell. Se aveva sperato che non l’avrebbe riconosciuta si sbagliava di grosso.

La stava fissando con uno sguardo che avrebbe trapassato una parete e non riusciva a capire cosa stesse provando. Rabbia? Delusione? Daisy si scusò mortificata alzandosi da terra e uscì dalla stanza a testa bassa.

“Non mi sono mai vergognata tanto in vita mia†pensò avanzando lungo il corridoio in direzione della cucina. “Mi ha riconosciuta e ora avrà  di certo capito tuttoâ€. Mentre allungava il passo cercando di non mettersi a correre si sentì agguantare per un gomito e fu costretta a voltarsi. Lowell in persona tenendo ben saldo il suo braccio la spinse contro il muro per non farla muovere.

<Così mi hai ingannato> le disse con la voce alterata dalla rabbia. Daisy lo guardò sconvolta. “ Ingannato? Ma se neanche le aveva dato il tempo di parlare†era così sorpresa da non avere la forza di ribattere.

Lui le si avvicinò ancora dandole modo di osservare i suoi occhi azzurro grigi. Era bello anche da arrabbiato.

<Cosa credevi di fare con quella messinscena? Farmi fare la figura dello stupido? Vantarti con le tue amiche di aver baciato un uomo di alto lignaggio?> Daisy notò che profumava di pino ma in quel momento non le importava perché la rabbia le stava offuscando la ragione.

<Io ti avrei ingannato?> gli diede una spinta ma non riuscì a liberare il braccio.

<Sei stato tu a comparire nella mia camera, tu a dare per scontato che fossi una ragazza nobile e sempre tu a baciarmi> cercò di divincolarsi <se sei così superficiale da pensare che solo una ragazza ben vestita sia alla tua altezza allora ti sbagli> riuscì a liberare la mano e con uno scatto si liberò da lui.

<Per quel che mi riguarda valgo cento volte più di te>si voltò e corse via per rifugiarsi nella cucina lasciando Lowell allibito in mezzo al corridoio.

 

Qualche ora dopo Daisy era seduta su una panchina al riparo del roseto, il suo posto preferito, e stava rimuginando sugli avvenimenti avvenuti nel pomeriggio.

Non solo aveva parlato a Lowell come se fosse una persona qualunque ma lo aveva anche insultato. “Se raccontasse questa cosa ai signori Parker mi butterebbero fuori di qui in un secondo†pensò affranta. Sapeva di aver commesso un errore a essersi lasciata trasportare dai suoi sentimenti ma come poteva restare tranquilla davanti a tanta presunzione? Non solo Lowell si era comportato da damerino, aveva poi cercato di incolparla.

Daisy si sentiva molto delusa ma si rese conto di esserlo perché in fondo Lowell aveva smosso qualcosa nel suo cuore.

Non era solo una questione di bellezza esteriore, era come se ci fosse una forza che la spingeva nella sua direzione, che la portava a stargli vicino.

D’un tratto un’ombra comparve alla sua destra.

<Posso sedermi accanto a te? Non ti toccherò lo prometto> Lowell era in piedi accanto a lei e la stava guardando con un’aria da cucciolo bastonato che la intenerì immediatamente.

Daisy gli fece cenno di sedersi ma non proferì parola. Restarono seduti uno accanto all’altra in silenzio per qualche minuto, osservando gli uccelli volare in alto nel cielo che ormai aveva assunto una sfumatura rossastra, a indicare che la giornata era quasi giunta al termine.

<Ecco io non so bene cosa dire ma…> se possibile Lowell sembrava ancora più impacciato di lei. Prese un bel respiro e iniziò il discorso da capo.

<Ti chiedo perdono per il mio comportamento> disse tutto d’un fiato.

<Sia per questo pomeriggio che per la scorsa serata> Lowell la guardò di sottecchi. Daisy continuava a restare in silenzio.

<Mi sono comportato da perfetto stupido e avete, hai… posso darti del tu?>.

<Mi sembra che abbiamo già  superato il momento in cui si prende confidenza no?> Daisy si rese conto di avere un tono piuttosto acido ma non poteva farne a meno <dopotutto ci siamo già  scambiati un bacio> concluse.

<Daisy..>il tono di Lowell si fece implorante.

<Come sai il mio nome?> disse voltandosi verso di lui. Fu un errore fatale. Quando i loro occhi si incontrarono Daisy capì che non sarebbe rimasta arrabbiata a lungo con lui. Aveva già  voglia di accarezzargli i capelli e sfiorare quell’accenno di barba che aveva sul viso.

<Già  che sciocca sono, chissà  che cosa ti avranno detto i signori Parker della mia figuraccia di oggi in salotto> in quel momento si ricordò che c’erano anche i signori Cecil.

<Il vestito di tua madre…oddio l’avrò sporcato, devi dirle che mi occuperò io del lavaggio e tuo padre…mi avrà  scambiata per una imbranata..>Lowell le mise una mano su una guancia e la fece voltare verso di lui. Sorrideva.

<Ti prego ora calmati, non è successo nulla e mia madre può tranquillamente far lavare il suo abito da uno dei nostri servi..>. Daisy si oscurò in volto <Perdonami, non volevo offenderti> disse Lowell resosi conto di quello che aveva appena detto.

<Non c’è bisogno di scusarsi>. Daisy lo guardò con severità  <Hai detto soltanto la verità , ovvero che in questo mondo io non sono che una serva e tu il padrone>. Lowell aprì la bocca per ribattere ma lei lo precedette.

<Non dire nulla, sai che è così> anche se nonostante quelle parole Daisy sapeva che tra lei e Lowell c’era qualcosa di più ed era così anche per lui ne era certa.

<Come è andata la gita con miss Penny?> chiede per cambiare argomento. “Non devo dimenticare che è per lei se lui è qui†si ripeté Daisy “solo per lei perciò basta fantasieâ€.

Lowell ci mise un secondo prima di rispondere.

<Le vuoi molto bene vero?>. La domanda la stupì.

<Sì certamente> rispose. <Sono cresciuta con Penelope e nonostante il suo carattere lunatico non si può non volerle bene>.

Lowell non sembrò molto convinto da quello che gli stava dicendo.

<Non ti ha fatto una buona impressione?> aggiunse Daisy nel tentativo di farlo parlare.

Lowell soppesò attentamente le parole prima di parlare.

<Sicuramente è una ragazza molto bella> Daisy sentì una lama nel petto ma fece finta di niente e continuò a guardare davanti a sé.

<Ma ho accettato il suo invito questo pomeriggio perché il mio obiettivo era un altro>.

<Ovvero?> Daisy non riuscì a trattenersi dal chiedere.

<Quando ieri mi sono presentato qui, pensavo che avrei passato una delle solite, noiose serate circondato da un gruppo di ragazzine adoranti e da genitori che cercano a ogni costo di ricoprirle di complimenti. Sono abituato a questo genere di episodi e francamente li detesto>.  Il tono di voce di Lowell era decisamente aspro.

<Detesto il modo in cui mi guardano, come se fossi soltanto un carro pieno d’oro e non una persona> scosse la testa come per allontanare un pensiero spiacevole e prese una mano di Daisy tra le sue.

<Ma poi quando mi sono intrufolato di sopra e ti ho vista lì, intenta a guardarti nello specchio con quegli occhi grandi pieni di vita, non ho saputo resistere. So di essermi comportato da perfetto idiota ma eri così bella…>.

Daisy si accorse di essere arrossita.

<Per cui, quando il padre di Penelope mi ha chiesto se volessi tornare a visitare i giardini ho colto l’occasione. Volevo chiedere il tuo nome senza dare troppo nell’occhio ma sono stato più fortunato>disse sorridendo < E non mi sono arrabbiato perché sei una cameriera, è solo che..>.

<Che una cameriera non ha alcuna speranza di stare con uno come te> Daisy completò la frase per lui.

<Già > disse Lowell malinconico.

Daisy sentiva la mano bruciarle tra quelle grandi e forti di Lowell.

<Voglio chiederti solo un favore Daisy> disse Lowell stringendole la mano <verrò qui ogni giorno come desidera mio padre ma promettimi che al termine di ogni giornata ti troverò qui, su questa panchina ad aspettarmi>.

<Non posso fare una promessa del genere Lowell> a Daisy piangeva il cuore.

<Sarebbe scorretto nei confronti di Penelope> aggiunse. Lowell scoppiò in una risata amara.

<Perché non pensi a te prima di Penelope?> le disse <perché non ascolti il tuo cuore e ammetti la verità ?>Lowell la tirò verso di sé e la strinse tra le braccia.

<Ti chiedo solo un po’ di tempo tutto qui> sussurrò vicino al suo orecchio. Quel suono le provocò dei brividi lungo tutta la schiena. Daisy rimase accoccolata tra le sue braccia per qualche minuto.

<D’accordo> si arrese Daisy.

<Sarò qui ogni giorno, solo per te>.

 

Da quel giorno Lowell iniziò a frequentare la casa dei Parker assiduamente. Passava la mattinata o il pomeriggio in compagnia di Penelope, che amava raccontargli fin nei minimi dettagli tutti i pettegolezzi che aveva sentito dalle sue amiche al circolo del ricamo  o chiedere la sua opinione riguardo a questo o quell’abito che si sarebbe fatta comprare da suo padre. Lowell aveva una certa mal sopportazione nei confronti di Penelope.

<Sembra solamente una bella bambola di porcellana, tutto qui>disse a Daisy un tardo pomeriggio con la testa appoggiata sul suo grembo e le gambe allungate su quella che ormai era la loro panchina.

<Non ha una personalità , è identica a tutte le ragazze nobili che ho conosciuto, una viziata che parla solo di se stessa>.

Daisy, che gli accarezzava i capelli dolcemente, divenne pensierosa e un attimo dopo gli tirò il naso.

<Non dire cattiverie su Penny, Lowell, tu non la conosci> rimuginò un attimo e aggiunse <Lavoro per lei da molti anni e so che può sembrare molto egoista ma in fondo ha un cuore buono>.

<Se lo dici tu, va bene> rispose Lowell che si liberò dalla presa delle sue dita sul naso e allungò una mano verso i suoi capelli stretti in una crocchia per scioglierli. Lowell le aveva rivelato che amava i suoi lunghi capelli e Daisy ne era molto orgogliosa.

Le loro giornate scorrevano sempre nello stesso modo, una volta portati a termine quelli che Lowell definiva i suoi “momenti di supplizio con Pennyâ€, la raggiungeva nel loro luogo segreto e passavano il tempo rimasto a disposizione a parlare o a coccolarsi al riparo degli alberi. Soltanto la domenica, quando Daisy aveva più libertà , potevano concedersi qualche lunga passeggiata. Daisy scoprì che Lowell era un vero esperto di botanica. Le indicava spesso questo o quel fiore spiegandole il nome latino, l’habitat ideale e quali esemplari gli piacevano di più o di meno.

<Sai il mio sogno è sempre stato quello di avere una serra con tutti i fiori del mondo, anche i più rari>le disse un giorno mentre erano stesi sul prato soleggiato.

<E perché non lo fai> gli chiese Daisy girandosi su un fianco per trovarsi di fronte a lui <Dopotutto le risorse non ti mancano> gli fece notare.

Lui la guardò con tristezza prima di parlare.

<Mio padre considera questo mio hobby una completa perdita di tempo. Secondo il suo parere dovrei solo occuparmi di affari e di come aumentare le rendite, senza distrarmi con attività  più adatte a una donna> disse con una punta di acidità  nella voce.

<Essendo l’unico erede di famiglia lui desidera che io impari a occuparmi della tenuta e dei suoi affari, in modo da poter prendere le redini in caso della sua dipartita capisci?>aggiunse.

Daisy capiva bene quello che intendeva dire. Sapeva come funzionava in quel genere di famiglia privilegiata. Nonostante tutti gli agi nessuno aveva la libertà  di scegliere il proprio destino, era già  tutto scritto.

Questo la fece riflettere sulla sua storia con Lowell. Daisy sapeva che il loro rapporto si stava facendo molto pericoloso. Non c’era giorno che non lo attendesse con ansia e quando non poteva presentarsi per qualche impegno imprevisto, il suo umore peggiorava terribilmente. Iniziò ad avere sbalzi d’umore sempre più frequenti, un attimo era felice e l’attimo dopo aveva solo voglia di piangere. In più, ogni volta che Penelope a fine giornata le raccontava per filo e per segno le sue uscite con Lowell, si innervosiva e una sera arrivò persino a tirare un po’ troppo forte la spazzola che aveva incontrato resistenza nei boccoli di Penny.

<Ahi, ma che fai, stai attenta Daisy> strillò Penelope balzando in piedi.

<Sei forse impazzita? Mi rovinerai i capelli e sai che Lowell li adora>.

Daisy provò una fitta di gelosia improvvisa a quel commento e la nascose con un rapido colpo di tosse.

<Perdonatemi miss Penny, farò più attenzione> anche se il tuo tono di voce faceva intendere ben altro.

<Sarà  meglio per te sai?> Penny la guardò con sguardo inquisitorio <Sei strana ultimamente, sembri distratta>le tolse la spazzola dalle mani e proseguì da sola <Ma penso di aver capito cos’hai, non sono una stupida Daisy> aggiunse sorridendole guardando lo specchio.

<Davvero?> disse Daisy con voce tremolante.

<Ma certo> esclamò Penny continuando a pettinarsi.

<Sei gelosa di me e Lowell non è così?>. Daisy rimase a bocca aperta. Penelope aveva davvero capito tutto? Che sarebbe successo ora?

<Mi sembra perfettamente normale, non devi preoccuparti Daisy> disse Penny posando la spazzola e alzandosi in piedi. Si diresse verso il letto mentre Daisy non aveva il coraggio di fiatare. Davvero Penelope credeva che fosse tutto normale? Si era aspettata una reazione diversa.

<Però avrei voluto che me ne parlassi prima sai>. Penny si sedette sul letto e le fece cenno di accomodarsi accanto a lei. Daisy avanzò titubante e fece come Penelope desiderava.

Penny la guardava con compassione e Daisy si sentì davvero male per questo. Come era dolce Penelope a perdonarle i suoi sentimenti per Lowell! Forse aveva capito che non era l’uomo per lei e di conseguenza aveva preferito lasciar perdere la questione.

<Oh miss Penny siete troppo buona>. Daisy iniziò a piangere.

<Mi dispiace così tanto non avervi detto nulla ma non potevo, data la mia posizione>. Mentre parlava si tormentava le dita. Penelope le prese una mano per cercare di calmarla.

<Ascoltami Daisy voglio dirti una cosa molto importante> Penelope la guardò intensamente.

<Voglio che tu ti senta libera di dirmi quello che vuoi, soprattutto perché d’ora in avanti le cose saranno molto diverse>.

Daisy non sapeva cosa rispondere.

<Resterai sempre con me non è vero Daisy?> disse Penny guardandola con i suoi occhioni azzurri <Da oggi avrò bisogno di te più che mai>.

Daisy scosse la testa confusa.

<Ma di cosa state parlando miss Penny? Come farò a starvi vicina?> Daisy non riusciva proprio a capire. Se Penelope sapeva dei suoi sentimenti come poteva volerla accanto? Non la odiava? Di certo non si era aspettata una simile richiesta.

Penelope le strinse forte la mano prima di proseguire.

<Come di certo saprai dai giornali e dalle voci che girano in paese, la guerra sta avanzando e tutti saranno tenuti a dare una mano>prese fiato e tornò a parlare.

<Stamani mio padre è stato richiamato nell’esercito> la voce di Penny divenne tremula <Dovrà  guidare i soldati come tenente e  dovrà  partire quanto prima>. Nonostante Daisy sapesse del nuovo conflitto non si era di certo aspettata una notizia del genere. Forse credeva che i problemi mondiali non sarebbero mai arrivati fino alla tenuta.

<Mi dispiace molto miss Penny> disse Daisy senza sapere come proseguire.

<Grazie Daisy> Penelope tirò su con il naso. <Purtroppo mio padre sostiene che presto anche Lowell verrà  chiamato per dare il suo contributo>. A quelle parole Daisy si senti precipitare nel vuoto. Lowell al fronte? Ma se non sapeva neanche fare del male a una mosca. Penelope cercò di rassicurala.

<So cosa pensi Daisy, ma non devi avere paura. Lowell tornerà  vedrai> disse sorridendo.

<E c’è un’altra cosa importante che ora vorrei dirti perciò dovrai prestarmi la massima attenzione> .

Daisy la guardò piena di aspettativa. Che altro poteva esserci ancora? Si sentiva già  il cuore pesante per l’imminente partenza di Lowell e l’unica cosa che desiderava al momento era correre da lui.

Penelope si alzò in piedi di scatto e fece una piroetta in mezzo alla stanza facendo ruotare la gonna che le scoprì le caviglie sottili.

<Io e Lowell ci sposiamo> disse Penny raggiante di felicità .

La notizia colpì Daisy forte come un pugno.

 <Mio padre desidera che il matrimonio avvenga la settimana prossima in modo che quando partiranno io potrò restare qui come signora Cecil> continuò a dire Penelope scambiando il turbamento di Daisy solo per sorpresa.

<Ha già  preso tutti gli accordi con la famiglia Cecil perciò anche Lowell lo avrà  saputo questa mattina>proseguì <E spero che sarai felice di sapere che mio padre ha acconsentito a farti restare come mia cameriera personale>. Penelope terminò la frase guardando Daisy e chiedendosi come mai non avesse un’espressione felice.

<Mi hai sentito Daisy? Non dovrai più essere gelosa di me e Lowell perché non cambierà  mai niente tra di noi. Resteremo sempre insieme, non sei felice?> disse Penny che sembrava l’immagine della felicità .

Daisy non sapeva cosa fare. Le parole di Penelope l’avevano colpita più a fondo della lama di un coltello. Non aveva capito nulla di lei e Lowell, pensava solamente che fosse gelosa per lei. E ora lo avrebbe sposato.

Daisy aveva la nausea. Penelope continuava a guardarla aspettandosi una reazione ma Daisy era ancora seduta sul materasso incapace di muoversi. Mille pensieri le frullavano per la testa ma nessuno di questi poteva essere espresso a parole. Si stampò un falso sorriso sulla faccia e cercò di dire quello che Penelope voleva sentire.

<Grazie miss Penny sono davvero felice per voi> senza rendersene conto una lacrima le scese su una guancia.

<E grazie per avermi fatta restare insieme a voi, siete molto generosa> la voce le si ruppe in gola e incapace di continuare fissò il pavimento.

<Non piangere Daisy, oggi è un giorno felice> come sempre Penelope aveva frainteso i sentimenti di Daisy.

<Dobbiamo iniziare a darci da fare con i preparativi per il matrimonio, scegliere l’abito, i fiori, le decorazioni…> Penelope stava piroettando per la stanza in preda alla felicità  e Daisy ne approfittò per fingere di avere da fare in cucina.

Doveva assolutamente allontanarsi da quella stanza e vedere Lowell. Daisy uscì dall’ingresso sul retro e attraversò il giardino quasi di corsa per raggiungere la sua panchina. Non poteva credere che non avrebbe più visto Lowell seduto lì, che non l’avrebbe più stretta a sé né sentito i suoi capelli tra le dita. Quando arrivò al roseto vide che Lowell era già  seduto lì. Appena la vide si alzò per andarle incontro.

<Daisy> iniziò a dire Lowell ma Daisy lo interruppe.

<Non dire nulla…>

<Dobbiamo andarcene>  dissero in contemporanea.

<Cosa?>Daisy era senza parole. <Che stai dicendo Lowell, andare dove?>.

<Ancora non lo so ma ho del denaro, ce ne andremo lontano, dove nessuno ci conosce e ci rifaremo una vita> Lowell aveva gli occhi fuori dalle orbite, sembrava impazzito.

Daisy cercò di riprendere la calma.

<Lowell non possiamo farlo e lo sai>.

<Sì invece> Lowell la prese per le spalle <Non starò senza di te Daisy. Andremo al porto e prenderemo una nave per l’America. Lì avremo delle nuove possibilità , vedrai ce la faremo. Io e te Daisy>.Lo sguardo di Lowell era implorante.

<E cosa dirai a tuo padre?> Daisy voleva essere realista< Te ne andrai nella notte come se nulla fosse? Come un ladro qualunque?> scosse la testa. Era impossibile.

<Questa mattina ho detto a mio padre che non intendo sposare Penelope> disse Lowell di colpo lasciando Daisy di stucco. <Mi ha risposto che non è un suo problema. Che dovrò farmene una ragione perché questo matrimonio si farà . Se non ho intenzione di fare il suo volere posso anche andarmene ma non avrò un centesimo del suo patrimonio>.

<Verrai diseredato> disse Daisy sottovoce. In quel momento Daisy si rese conto che il suo amore per Lowell l’avrebbe portato alla rovina.  â€œPerderà  tutto a causa mia†pensò. Le sembrava di avere un peso sul cuore ma prese la decisione che in cuor suo sapeva essere la migliore.

Si voltò verso Lowell e con tutto il coraggio che riuscì a mettere insieme in quei pochi secondi disse quello che mai avrebbe voluto.

<Non partirò con te Lowell. Perché non ti amo> quella bugia le pesava più di quel che credesse. “Lo faccio per lui†pensò per farsi forza. Cercò di non guardare l’espressione ferita che era comparsa sul suo volto.

<Stai mentendo>.

<No. Speravo che mi sposassi così avrei avuto una vita agiata ma a queste condizioni non mi servi più>. Ogni parola era un colpo al cuore di Lowell.

<Me ne vado Lowell, cercherò fortuna altrove. Non cercarmi mai più>. Daisy si voltò e corse via il più velocemente possibile.

Quella sera stessa andò da Penelope per dirle che non avrebbe potuto partecipare al suo matrimonio perché aveva deciso di iscriversi ad una scuola per infermiere. Anche lei voleva dare il suo contributo nella guerra imminente.

Il giorno dopo, all’alba, Daisy prese la sua piccola borsa e se ne andò da casa Parker. Aveva perso tutto.


Capitolo 8

Lily aveva passato tutto il giorno successivo al suo arrivo in compagnia di Rose che le aveva raccontato le abitudini di vita alla tenuta al tempo di sua nonna. Lily trovava una corrispondenza sorprendente tra i racconti di Rose e le sue letture sul diario di Penny.

Al momento stava passeggiando nell’immenso parco che circondava la casa mentre Rose le indicava quali parti della tenuta erano state ricostruite per via dei danni subiti durante la guerra. Si trovava bene in compagnia di quella buffa signora. Rose le aveva spiegato che era stata sua l’idea di creare un museo all’interno della tenuta ed era stata davvero felice del successo che aveva ottenuto. Ogni giorno venivano in visita molti turisti per vedere con i propri occhi gli arredi opulenti e l’argenteria. Ma l’attrazione migliore consisteva nella serra che si trovava poco distante alla dependance dove Lily era momentaneamente ospite ed era proprio lì che Rose la stava portando.

<La serra è stata costruita molto più di recente rispetto alla casa> le stava spiegando Rose mentre passeggiavano lungo la piccola stradina che le avrebbe portate a destinazione.

<A quanto mi raccontava mia nonna, il padrone, Lowell Cecil, passava la maggior parte del suo tempo proprio chiuso lì dentro nonostante il caldo soffocante> proseguì con il suo miglior tono da guida turistica.

Lily sapeva già  tutto quello che le stava dicendo perché lo aveva letto nel diario di sua nonna. Penelope in seguito al matrimonio aveva iniziato a scrivere più raramente e sembrava profondamente infelice. Non scriveva più con quell’allegria e quell’esuberanza che tanto la caratterizzavano, anzi, non aveva mai più parlato né delle visite alla sarta né del suo aspetto di cui era tanto fiera ma descriveva le sue giornate come monotone e prive di qualsiasi gioia. Tutte le pagine però avevano lo stesso protagonista : Lowell. Penelope ne parlava come di uomo cupo e freddo, che non le dedicava mai una minima attenzione e che preferiva non averla tra i piedi. Penny aveva attribuito il suo cambiamento alla partenza imminente con l’esercito inglese e per cercare di compiacerlo aveva ordinato di costruire una serra appositamente per lui, per conservare tutti quei fiori che a lei non dicevano nulla ma che sapeva che lui adorava. Purtroppo questo non fece altro che allontanare Lowell ancora di più. Passava ogni momento della giornata a catalogare fiori di campo nel suo libro, a ordinare esemplari rari per aggiungerli alla sua collezione e sembrava non avere pensieri al di fuori di quello. Penelope si era offerta di aiutarlo nel suo lavoro, di trapiantare i fiori nei vasi, qualsiasi cosa, ma non c’era stato tentativo che avesse funzionato. Lowell era infastidito dalla sua presenza e dopo l’ennesima risposta brusca, Penny aveva deciso che era meglio rinunciare e lasciargli il suo spazio.

<Grazie ai pettegolezzi dei domestici sappiamo che il signor Lowell passava del tempo in compagnia della signora Penelope solo quando era costretto, ovvero durante la notte> disse Rose continuando a camminare.

<Ma non restava mai a lungo con lei, perché al mattino il suo domestico personale lo trovava sempre nella sua stanza privata>scosse la testa dispiaciuta.

<Deve essere stato molto difficile per Penelope ma era così che funzionava una volta sai? Le coppie si sposavano per accordi presi dalle rispettive famiglie e solo per una questione di convenienza, non certo per amore. Anche se mia nonna mi ripeteva spesso che la signora cercava in ogni modo di attirare l’attenzione di Lowell senza riuscirci. Povera cara>aggiunse come se fosse stata una sua vecchia amica.

Lily annuì senza aggiungere nulla. Non sapeva cosa dire perciò lasciò che Rose riprendesse il racconto nella speranza di scoprire qualcosa di interessante che lei non sapeva.

<Eccoci arrivate cara> disse Rose estraendo una piccola chiave dall’unica tasca del suo grembiule a fiori da cui non si separava mai. La inserì nella serratura argentata che stonava con il resto della costruzione e si sentì un sonoro clack.

Rose aprì la porta verso l’interno e Lily si ritrovò avvolta dal profumo di fiori. C’erano lunghi tavoli ricoperti di vasi con rose, gerbere, gigli e orchidee ma la sua attenzione venne attirata da un arcobaleno di colori poco distante da lei. Si voltò e ritrovò a guardare centinaia di margherite dai diversi colori. C’era la classica margherita bianca, quella arancione, rosa, gialla, ma la più bella di tutte era una particolare margherita dal colore rossastro con delle venature più scure lungo i petali. Lily si avvicinò per osservarla meglio.

<Vedo che hai un ottimo gusto cara>disse Rose avvicinandosi mentre si faceva aria con la mano per il caldo.

<Non avevo mai visto una margherita di questo colore> Lily si chinò per cercare di sentirne il profumo <E ha anche un ottimo profumo> esclamò.

<Ti interesserà  sapere allora che quello era il fiore preferito da Lowell>disse Rose ammiccando nella sua direzione.

<è una particolare varietà  che aveva trovato personalmente nei dintorni, durante una delle sue numerose passeggiate. Mia nonna mi disse che un giorno venne qui per innaffiare alcuni esemplari sotto richiesta di Lowell e trovò la signora Penelope proprio con quel vaso in mano>.

Lily la guardò incuriosita. Nel diario Penny aveva scritto chiaramente di non essere mai più tornata nella serra.

<Sai cara, mia nonna aveva ricevuto il compito di occuparsi dei fiori quando Lowell era di stanza nell’esercito e dato il suo ottimo lavoro l’aveva incaricata di prendersene cura anche quando era troppo impegnato> . Lily notò che l’espressione di Rose era piena di orgoglio mentre ne parlava.

<Perciò quando vide la signora Penelope nella serra quel giorno era molto stupita perché tutti sapevano che Lowell non gradiva la sua presenza in questo posto> disse allargando le braccia per indicare la serra.

<E non le chiese come mai si trovava qui da sola?> chiese Lily.

<No, mia nonna era una persona molto riservata, il che era una grande qualità  per il personale di una casa aristocratica sai? Però ricordo che mi disse che la signora era in uno stato molto strano, era agitata e quando ha visto mia nonna sulla soglia è praticamente corsa via con il volto paonazzo. Ovviamente poteva essere per via di questo caldo soffocante> Rose non aveva smesso un secondo di sventagliarsi.

<Ora che mi viene in mente però, mia nonna aveva notato che la signora stringeva un pezzo di carta tra le mani ma non so cosa possa cambiare. Lily cara se hai finito di osservare queste meraviglie che ne diresti di uscire? Sto iniziando a soffocare>. Effettivamente Rose aveva assunto un colore molto vicino al papavero che aveva affianco. Lily non faticava a immaginare nonna Penny nello stesso punto in cui si trovavano loro e della stessa sfumatura di rosso che era presente sul viso di Rose.

<Ma certo, andiamo pure tanto non mi sembra che ci sia altro da vedere qui>disse Lily dirigendosi verso l’uscita.

Una volta fuori si sentirono molto meglio. C’era un leggero filo d’aria che rendeva il calore del sole più sopportabile.

Rose chiuse la porta e la seguì lungo la strada. Lily camminava pensierosa e rifletteva sulla vita di Penelope. Ora iniziava a capire perché aveva sempre quell’espressione triste quando parlava di Lowell. Non doveva essere stato un buon marito. “Ora che ci penso quella favola che mi raccontava sempre sul nonno che se ne andava con una margherita poteva riferirsi a questo†pensò Lily “ Effettivamente Lowell l’aveva abbandonata per occuparsi solo dei suoi fioriâ€.

Giunte alla dependance si accomodarono al tavolo di legno chiaro all’esterno, per godersi quel clima ideale dopo il caldo umido della serra. Rose preparò della limonata che divise in due alti bicchieri colmi di cubetti di ghiaccio.

<Qualcosa ti preoccupa cara? Mi sembri pensierosa> chiese Rose con fare materno.

<No, no sono solamente incuriosita dalla vita di Penelope> Lily bevve un sorso della sua limonata e proseguì.

<Da quello che mi hai raccontato sembra aver avuto una storia molto triste, con un amore non ricambiato>.

<Oh ma non è finita qui> disse Rose avvicinandosi con fare cospiratorio.

<A quanto pare giravano delle voci tra le servitù, secondo le quali il signor Lowell era innamorato di un’altra donna quando fu costretto a sposare Penelope>. Lily si accorse di aver spalancato la bocca per la sorpresa e questo spinse Rose a proseguire il racconto concitata.

<Sì cara, mia nonna diceva che erano solo maldicenze ma tutto torna no? Lowell stava chiuso nella sua serra perché era depresso per la mancanza della sua amata> Rose aveva abbassato la voce come se ci fosse qualcuno pronto a origliare nelle vicinanze.

<Ma poteva essere solo un pettegolezzo no?> intervenne Lily bisbigliando anche lei.

<No cara, all’inizio lo credevo anche io ma una sera mentre ero al pub giù in paese a farmi una birra, oh non guardarmi così cara, non bevo mica solo tè> disse in risposta allo sguardo stupito di Lily <Come dicevo, mentre ero al pub è entrato il vecchio Joe, il cameriere del signor Lowell ai tempi e ci siamo scambiati un po’ di confidenze sulla famiglia. Al caro Joe mancava molto il suo lavoro ed era sinceramente affezionato a Lowell perciò dopo aver alzato un po’ il gomito si è lasciato sfuggire che negli ultimi anni in cui aveva prestato servizio, il signore si scambiava messaggi di nascosto con la sua amante e che era proprio lui a fare da messaggero! Non ricordo esattamente quale metodo usavano però, forse avevo esagerato anche io con la birra> disse Rose arrossendo.

A Lily sembrava tutto assurdo. Suo nonno aveva davvero avuto un’altra donna? Adesso non era più così meravigliata dal fatto che sua nonna non ne parlasse mai. Sentì crescere un sentimento di antipatia nei confronti Lowell. Come aveva potuto trattare Penny in quel modo spregevole? Farle credere di passare tutto quel tempo nella serra a causa della preoccupazione per il suo ritorno in guerra quando…

<Rose> esclamò Lily alzandosi di colpo dalla sedia. Rose la guardò spaventata da quello scatto.

<Hai detto che Penelope aveva in mano un pezzo di carta quando è stata scoperta da tua nonna nella serra non è vero?> Lily non riusciva a stare ferma.

<E se non fosse stato un semplice pezzo di carta?> Continuò < Se fosse stato..>

<…Uno dei messaggi segreti ma certo!> completò Rose che era balzata in piedi a sua volta.

<Ecco come facevano a comunicare senza dare nell’occhio, Joe metteva il messaggio sotto il vaso della margherita rossa e Lowell dopo averlo letto lasciava lì la risposta> disse Rose più a se stessa che a Lily.

<Rose chi era quella donna?> Lily doveva saperlo. Voleva sapere chi era stato a rovinare la vita di sua nonna Penny.

Provava solo rabbia nei suoi confronti.

<Be, su questo non sono molto sicura invece> iniziò <Joe ha ripetuto più volte che ne era certo ma io non so se crederci o meno> Rose si fece titubante.

<Rose credo che Joe sapesse bene di cosa parlava, non lasciarmi sulle spine. Qual era il suo nome?> Lily non ce la faceva più, doveva scoprirlo.

Rose ci mise qualche secondo prima di rispondere  <Era una giovane che lavorava qui, il suo nome era Daisy> .

Lily restò immobile nel punto in cui si trovava, come se un fulmine l’avesse appena colpita. Sentì l’indignazione crescere dentro di lei e senza pensarci disse praticamente urlando  <Daisy?! Stai dicendo che la cameriera di Penny, la sua cara amica, era l’amante di Lowell? Ma se era partita per frequentare la scuola per infermiere>.

Mentre osservava l’espressione di Rose mutare da sorpresa a sospetto capì di essersi tradita.

<E tu come fai a saperlo?>  disse Rose guardandola con occhio critico <Queste informazioni erano strettamente riservate e non sono mai state scritte su nessun documento riguardante la famiglia>.

A quel punto Lily sentì di non avere altre scelte. Doveva raccontare tutto a Rose o l’avrebbe senz’altro sbattuta fuori di casa. “E me lo meriterei†pensò Lily affranta.

<C’è una cosa che non ti ho detto Rose> iniziò Lily prendendo fiato e riaccomodandosi sulla sedia < Ed è molto importante perciò ti prego di ascoltarmi>.

Lily decise di raccontare la storia dall’inizio. Di come aveva trovato il diario di Penelope, della sua decisone di partire per saperne di più e delle scoperte che aveva fatto in quei pochi giorni. Rose l’ascoltava con attenzione ma non sembrava convinta.

<Pensi che sia pazza vero?> concluse Lily mentre Rose si rigirava il diario di Penelope tra le mani con aria assorta.

<Io non capisco cara, tutto questo non è possibile> Rose era del tutto sconcertata.

<So che è difficile da credere ma è così> disse Lily intestardita <Credo di aver capito come è andata. Dopo aver scoperto il biglietto con il messaggio segreto mia nonna ha deciso di prendere suo figlio Tom, che aveva solo pochi mesi, e di trasferirsi per ricominciare una nuova vita. Questo spiega come mai ha vissuto come una donna povera. Aveva abbandonato la sua famiglia a causa di Lowell. E corrisponde anche all’ultima pagina del diario che ha scritto, guarda> Lily prese il diario dalle mani di Rose e lo sfogliò fino ad arrivare alla pagina di cui parlava.

<Guarda qui> disse indicando il foglio <Penny ha scritto che si stava recando a fare una passeggiata in giardino e che sarebbe passata dentro la serra per fugare i suoi dubbi. All’inizio non capivo ma ora è chiaro. Penelope sospettava già  la relazione di Lowell e voleva accertarsi che fosse tutto vero> mentre Lily parlava, Rose continuava a scuotere la testa ripetendo che era impossibile.

<Rose so che è uno shock per te ma i conti tornano> disse Lily che stava iniziando a perdere la pazienza. Ma lo vedeva solo lei? Era così ovvio.

<No cara i conti non tornano affatto> Rose sembrava sul punto di piangere.

<Ma che dici, è tutto scritto qui, nero su bianco..>.

<Penelope e Lowell sono morti Lily> disse Rose tutto d’un fiato.

<Certo che sono morti lo so benissimo> Lily stava iniziando a innervosirsi. Credeva che si fosse dimenticata della morte dei suoi nonni?

<No cara non capisci> Rose parlava molto lentamente, come se avesse paura che  una parola di troppo avrebbe potuto far scoppiare Lily.

<Sono morti durante il bombardamento che ha colpito la città  nel 1940. I loro corpi sono stati trovati nei pressi di un palazzo che è crollato dopo l’esplosione di una bomba. Erano a malapena riconoscibili ma la polizia ha confermato che erano loro>. Rose dovette fermarsi un attimo prima di proseguire <e lì accanto c’era anche la carrozzina del piccolo Tom, completamente bruciata> non riuscì a trattenere un singhiozzo <è stato tutto così drammatico, una famiglia così giovane spazzata via in un attimo> terminò.

<No>. Lily non sapeva cosa dire. <Non è possibile Rose, guarda il diario> disse sventolandoglielo sotto il naso <Come potrei averlo io se Penny fosse morta quel giorno? E Mio padre è morto in un incidente d’auto quando io ero solo una bambina> scosse la testa <No Rose qualcosa non quadra>.

Rose si soffiò il naso con uno dei tovaglioli che aveva posato sul tavolo insieme ai bicchieri di limonata ormai vuoti.

<In effetti è molto strano> una ruga comparve tra le sopracciglia di Rose <Tutti gli averi della signora Penelope erano stati messi da parte dalla sua famiglia e ora sono esposti nel museo. Sembra impossibile che il suo diario sia potuto arrivare fino in America>.

<Penelope era mia nonna e lei e Tom non sono morti quel giorno>  disse Lily più a se stessa che a Rose.

Rose si alzò dalla sedia e prese i bicchieri per riportarli in casa.

<Senti cara che ne dici se ci riposiamo per oggi? Domani mattina come prima cosa aprirò il museo e andremo a dare un’occhiata a tutte le cose di Penelope che sono state ritrovate. Che ne dici?> Rose sembrava stanca e affaticata e Lily si disse d’accordo.

Quella sera non riuscì a dormire, aveva troppi pensieri che le affollavano la testa. L’amante di Lowell, il bombardamento e l’immagine della carrozzina bruciata la assillavano. Chi era lei se tutta quella storia era vera? Chi era la donna morta che era stata trovata accanto a Lowell? Perché di una cosa era certa. Penelope era sopravvissuta a quel giorno ed era scappata senza guardarsi indietro. Doveva solo scoprire il perché.

 

La mattina dopo si presentò in cucina per la colazione di buon’ora e trovo Rose già  seduta al tavolo ad aspettarla. A quanto pareva nessuna delle due aveva voglia di perdere altro tempo. Dovevano scoprire la verità .

Bevvero rapidamente una tazza di tè e uscirono per dirigersi alla tenuta, accompagnate dall’arietta fredda del mattino. Lily si strinse nel cardigan che aveva indossato sopra il suo leggero abito verde e allungò il passo.

Una volta giunte ai piedi del portone d’ingresso Lily stava saltellando sul posto incapace di stare ferma mentre Rose infilava le chiavi nelle varie serrature. Finalmente il portone si aprì e furono libere di lanciarsi dentro.

<Da questa parte vieni> disse Rose prendendola per un braccio e tirandola verso le scale.

<La stanza della signora Penelope rimase la stessa anche dopo che si fu sposata> svoltarono l’angolo e Rose indicò una camera senza porta.

<Ecco è questa>. Ed un secondo dopo entrarono.

Lily guardò l’enorme stanza in cui si trovavano. Un letto a baldacchino che sembrava quello delle principesse delle fiabe, una toletta molto graziosa con uno specchio intarsiato.. alla sua sinistra vide una piccola porta molto vicina al guardaroba dove erano contenuti diversi abiti in esposizione.

<Quella era la porta che conduceva alla camera di Daisy> le disse Rose seguendo il suo sguardo.

Ma Lily non la stava ascoltando. La sua attenzione era stata catturata da un dipinto alla sua destra dove erano raffigurate due donne. Sentì un brivido correrle lungo la schiena.

<Ah ecco il dipinto che tua nonna fece commissionare da un famoso pittore dell’epoca> disse Rose avvicinandosi <Guarda come sono vividi i dettagli, sembra quasi di poter toccare i boccoli biondi di Penelope>. Avvicinò il dito come se potesse sfiorarli davvero e si voltò verso Lily <Tua nonna era molto bella vero?>.

<Sì moltissimo> rispose Lily fissando il quadro.

Ma non stava guardando la donna bionda che Rose indicava sorridendo estasiata. Stava osservando la ragazza seduta poco dietro di lei, quella con i capelli scuri ed enormi occhi verdi.

 

Capitolo 9

Londra 1940

Era passato più di un anno da quando Daisy aveva lasciato il suo lavoro da cameriera per dedicarsi alla scuola di infermiere. Con sua grande sorpresa scoprì di essere molto portata per quel genere di lavoro. Non si impressionava facilmente e lavorava con solerzia anche 16 ore al giorno, fino a quando, esausta, tornava nel piccolo monolocale che aveva affittato per riposarsi il minimo indispensabile prima di tornare operativa. Ma non le pesava quella vita, anzi, faceva di tutto per lavorare il più possibile per non dover pensare al suo amore perduto. “Era giusto così, era la scelta migliore†era solita ripetersi prima di addormentarsi esausta sul suo scomodo letto.

L’unico vizio che si concedeva ogni giorno era la lettura dei quotidiani. Daisy leggeva con avidità  ogni notizia riportata su quei fogli e scrutava la pagina dei necrologi con il cuore in gola per la paura di leggere il nome di Lowell.

Per sua fortuna le uniche due volte che il nome del suo amato era apparso sul giornale era stato in occasione del suo matrimonio con Penelope, avvenuto poco dopo aver lasciato la tenuta, e alla nascita del suo primo figlio, Tom, che venne annunciata in grande stile nella pagina dei nascituri.

Mentre si preparava per una nuova giornata in ospedale Daisy non poté fare a meno di pensare al piccolo Tom, che doveva avere all’incirca cinque mesi. Chissà  se aveva ereditato i tratti di suo padre. Daisy provava sentimenti contrastanti. Da una parte era felice per la nascita di una nuova vita, del figlio del suo Lowell, ma dall’altra era amareggiata. Se fosse fuggita con lui quando glielo aveva proposto ora quel figlio avrebbe potuto essere il suo e non di Penelope. “Ma ormai è andata così, ho fatto la mia scelta†pensò Daisy incamminandosi verso l’ospedale.

“Devo concentrarmi sul mio lavoro, ci sono molte persone che hanno bisogno di me adessoâ€. Daisy superò una fila di persone ferite che affollavano il corridoio per raggiungere la sua responsabile. Non ebbe bisogno di cercarla a lungo perché non appena mise piede nella stanza la vide correrle incontro.

<Daisy grazie al cielo sei qui> le disse trafelata mentre una ciocca di capelli ramati le sfuggiva dalla crocchia. Dalla sua espressione Daisy capì che doveva essere successo qualcosa di grave.

<Vieni con me corri, il dottor Carson mi ha appena informato che hanno portato un paziente in pessime condizioni in sala operatoria, ma hanno bisogno di tutto l’aiuto possibile>. Daisy accelerò il passo.

<Sai già  che cosa gli è successo?> chiese Daisy cercando di raccogliere più informazioni possibili. Meglio non trovarsi impreparata.

<A quanto pare è scoppiata una bomba poco distante al battaglione e il tenente Cecil è rimasto colpito da una scheggia al ventre>le rispose l’infermiera mentre avanzava a passo di marcia.

Daisy si pietrificò nel mezzo del corridoio. Quelle parole le risuonavano nelle orecchie come un rombo lontano e non si accorse che la responsabile era tornata indietro verso di lei per sapere se sentiva bene.

<Ma certo tu lo conoscevi non è vero Daisy? Mi dispiace molto piccola ma forse puoi essere d’aiuto per salvarlo> le disse accarezzandole la schiena e regalandole uno dei suoi rari sorrisi.

Daisy si riscosse dallo stato di trance in cui era caduta nel sentire quelle parole.

“Posso salvarlo†si disse. Alzò lo sguardo e con tutta la forza che le era rimasta annuì e corse in sala operatoria.

Tra tutti gli scenari che si era immaginata  per riabbracciare Lowell nelle sue lunghe notti di solitudine, quello era di sicuro l’unico a cui non aveva mai pensato. L’operazione fu molto lunga e complicata e quando Lowell ne uscì era in uno stato pietoso. Il dottor Carson le aveva detto senza mezzi termini che era molto difficile che riuscisse a superare la notte a meno di un miracolo.

Daisy era disperata. Passò tutta la notte al capezzale di Lowell rinfrescandogli la fronte per via della febbre che era sopraggiunta a causa dell’infezione e gli accarezzava dolcemente la testa nella speranza che si rendesse conto che lei era lì.

Al mattino seguente Daisy si svegliò con la mano di Lowell ancora stretta tra le sue. “Devo essermi appisolata qualche ora†pensò stropicciandosi gli occhi. Un mugolio attirò la sua attenzione.

<Daisy…> disse una voce tremolante <Sei davvero tu? O sono morto?>. Lowell aveva gli occhi semichiusi e la fissava con aria confusa, come se stesse sognando. Daisy si sentì il cuore scoppiare dalla gioia e iniziò a ridere e piangere nello stesso tempo.

<Sì Lowell amore mio, sono io> bisbigliò per non farsi sentire da nessuno.

Lui iniziò ad accarezzarle i capelli mentre continuava a guardarla incantato.

<Pensavo che non ti avrei rivista mai più> le disse con un colpo di tosse. Daisy balzò subito in piedi per sistemargli i cuscini dietro la testa con aria preoccupata.

<Anche io> rispose lei <Ma il destino ha voluto farci incontrare di nuovo a quanto pare> proseguì con aria triste.

Lowell alzò un braccio e la tirò verso di sé con una smorfia di dolore.

<Lowell sei impazzito forse? Non devi fare movimenti bruschi> lo rimproverò Daisy senza però muoversi dalle sue braccia.

<E poi potrebbe entrare qualcuno> aggiunse guardandosi attorno.

<Daisy io devo dirti una cosa e voglio che mi ascolti>. Lowell aveva assunto un’aria talmente seria che Daisy non poté fare altro che annuire in silenzio.

<Ho passato un periodo di inferno da quando te ne sei andata e non per via della guerra> la guardò intensamente e proseguì <So che mi hai mentito quando te ne sei andata e so anche perché l’hai fatto, non sono uno stupido. Ma quello che non hai capito è che mi hai condannato all’infelicità . Io non desideravo sposare Penelope, non la amo e mi dispiace essere scontroso con lei ma ogni volta che la guardo penso solo che potevi essere tu>. La guardò intensamente prima di andare avanti. Daisy piangeva in silenzio.

<La guerra mi ha fatto capire che la vita è troppo breve per rinunciare alle persone che amo, perciò non mi separerò più da te> concluse.

Daisy si appoggiò al suo petto fasciato e dopo qualche secondo gli chiese < E come farai con Penelope? Ora avete un figlio e tu ne hai la responsabilità >.

<Daisy, ho sposato Penny solo perché sono stato costretto. Tu non capisci come sono soffocanti le famiglie aristocratiche con le loro assurde e antiquate ideologie. Amo te e voglio stare con te ma questo non mi impedirà  di amare anche mio figlio> disse mentre le baciava la testa.

Daisy restò tra le sue braccia ancora qualche minuto, fino a quando sentì una voce familiare arrivare dal corridoio.

<è qui? Dottor Carson la prego si sbrighi>. Una voce concitata indicava che la proprietaria era appena fuori dalla porta.

<Sì signora entri pure, ma faccia attenzione, è ancora molto debole> rispose una voce maschile mentre la maniglia ruotava e la porta iniziava ad aprirsi. Daisy scattò in piedi in un secondo e si allontanò il più rapidamente possibile, voltandosi e fingendo di essere occupata a piegare le bende per il cambio della fasciatura.

<Lowell tesoro sei qui> esclamò Penelope entrando come un uragano nella stanza avvolta da una nuvola di profumo alla lavanda. Daisy si chiese come avesse fatto a procurarselo.

<Che spavento mi sono presa. Quando il dottore mi ha chiamato per dirmi che eri qui mi sono precipitata immediatamente. Hai bisogno di qualcosa caro? Acqua? Vuoi che ti sistemi i cuscini? Mi sembri troppo pallido, forse il dottor Carson dovrebbe darti un’occhiata. Dottore può venire un secondo?> .

Daisy soffocò una risatina. In quegli anni Penelope non era cambiata per niente, parlava sempre come una macchinetta senza dare il tempo di rispondere.

<Mi scusi signorina potrebbe farmi avere dell’acqua fresca? E non è che per caso avete del tè?>. Daisy si rese conto che stava parlando con lei e così fu costretta a girarsi.

<Niente tè qui miss Penny, siamo in un ospedale non in una caffetteria> rispose in modo abbastanza sgarbato.

Ma Penelope sembrò non accorgersene. Non appena Daisy si era voltata verso di lei, un’enorme sorriso le era comparso sul viso. Era ancora bellissima.

<Daisy non ci posso credere sei proprio tu> esclamò andando verso di lei a braccia aperte <Mi sei mancata così tanto, la casa non è più stata la stessa senza di te e la mia nuova cameriera non è certo alla tua altezza> La abbracciò forte e poi si scostò leggermente per osservarla meglio.

<Vedo che sei in ottima forma Daisy e dimmi, hai già  trovato un bel giovanotto con cui mettere su famiglia?>.

La domanda mise Daisy molto in imbarazzo e si ritrovò suo malgrado ad arrossire.

<Lo sapevo, c’è qualcuno> strillò Penny felice. Daisy incrociò lo sguardo di Lowell che voltò la testa. Cos’era quel lampo nei suoi occhi, gelosia? Daisy sorrise. Era geloso di un uomo immaginario, che sciocco.

<Ma guarda come sei tenera Daisy, tutta rossa e sorridente al pensiero del tuo amato> disse Penny voltandosi verso Lowell.

<Non è carina Lowell caro?> aggiunse.

<Molto> rispose Lowell con un tono secco e freddo che mise subito fine alla conversazione. Penelope guardò Daisy molto imbarazzata per il suo comportamento ma si riscosse velocemente.

<Ma c’è qualcuno che vorrei presentarti Daisy> disse indicando una carrozzina blu con i profili bianchi che Daisy non aveva assolutamente notato prima. Penny le fece cenno di avvicinarsi e Daisy vide per la prima volta il figlio di Lowell. Era così bello, sembrava un angelo con quei capelli biondissimi e il pollice in bocca mentre dormiva profondamente.

<è una meraviglia Penelope, congratulazioni>le disse Daisy educatamente anche se in fondo al cuore provava una bruciante gelosia. “Poteva essere mio†era il pensiero che le frullava per la testa. In quel momento il dottor Carson entrò nella stanza.

<Mi ha fatto chiamare signora?> chiese con aria interrogativa.

<Sì dottor Carson mi perdoni, volevo chiederle…> uno strillo scuto interruppe il discorso appena iniziato di Penelope. Tom si era svegliato e non sembrava avere alcuna intenzione di smettere di urlare.

<Santo Cielo che pessimo tempismo> disse Penelope sollevandolo dalla carrozzina e porgendolo a Daisy.

<Potresti tenerlo tu mentre parlo con il dottore? Devo organizzare il trasferimento di Lowell a casa ma non posso farlo con questo chiasso> si portò le mani alle tempie per enfatizzare il concetto.

<Certo ci penso io> rispose Daisy allungando le braccia per prendere Tom. Non appena prese il bambino si sentì colma di felicità . Era così che sarebbe dovuta andare, lei con il suo bellissimo bambino e Lowell dovevano essere una famiglia. Uscì dalla stanza chiudendo la porta con discrezione e si diresse verso l’esterno. Non voleva che il piccolo venisse contagiato da qualche malattia o che gli respirassero addosso. Uscita dall’ospedale si accomodò su una piccola panchina mentre Tom si divertiva a tirarle una ciocca di capelli.

Restò con il piccolo per quella che le parve un’eternità , guardandolo con attenzione mentre si portava le mani alla bocca, rideva alle sue smorfie o quando gli faceva il solletico sul pancino. Quando Penelope emerse dall’interno dell’ospedale, Daisy strinse per un attimo Tom contro di lei. Sapeva che era irragionevole ma non voleva che glielo portasse via. Penny si sedette accanto a lei e le sorrise.

<Sei molto brava con i bambini, di solito Tommy non ama restare in compagnia di estranei> disse mentre gli accarezzava un piedino. Tom tese la braccia verso di lei e Daisy lo lasciò a malincuore.

<Ho una proposta da farti Daisy> aggiunse Penny <Che ne diresti di tornare a casa nostra? Il dottore mi ha detto che Lowell ha bisogno di assistenza e mi ha anche fatto presente che sei una fantastica infermiera>. Tom fece un grosso sbadiglio.

<E poi così potremmo di nuovo vederci tutti i giorni e tu potresti giocare con Tom>. Daisy soppesò la richiesta per qualche attimo. Sarebbe stato meraviglioso poter passare più tempo con Lowell e anche con Tom ma Penny? Si sentiva in colpa per il suo amore nei confronti di Lowell e non voleva ferire Penelope. Ripensò al discorso che le aveva fatto Lowell poco prima. La vita è troppo breve.

<D’accordo verrò> disse d’istinto <Ma vorrei continuare ad abitare nel mio appartamento e mantenere il lavoro in ospedale>. Quella le sembrava la soluzione migliore. Avrebbe potuto vedere Lowell senza destare sospetti ma doveva a tutti i costi evitare di affezionarsi al bambino. Per quanto lo desiderasse non era suo e non lo sarebbe mai stato.

Penelope sembrava la raffigurazione della gioia.

<Grazie Daisy sei una vera amica> le disse alzandosi <Ero certa di poter contare su di te. Ti aspetto domani allora>.

Daisy restò sulla panchina ancora qualche minuto prima di alzarsi e tornare in ospedale. Che la scelta fosse giusta o  meno si sentiva davvero felice.

 

I mesi successivi furono i più felici della vita di Daisy. Passava buona parte della giornata insieme a Lowell per accudirlo e solo quando non aveva più scuse per trattenersi tornava in ospedale dove svolgeva ancora il suo lavoro da infermiera. Penelope le dava una paga più che sufficiente in realtà  ma l’occupazione in ospedale era una copertura. Daisy e Lowell avevano concordato che era troppo rischioso vedersi all’interno della tenuta perciò la soluzione migliore era quella di tenere l’appartamento di Daisy e di utilizzarlo per incontrarsi una volta che Lowell si fosse completamente ristabilito.

Penelope non aveva alcun sospetto. Andava nella stanza di Lowell ogni giorno per assicurarsi che stesse al meglio ma non si fermava mai troppo a lungo. Sosteneva di essere troppo indaffarata con Tom.

Daisy pensava che Penny fosse molto cambiata. Una sera in cui aveva appena lasciato Lowell addormentato aveva trovato Penelope ad aspettarla fuori dalla stanza.

<Ti andrebbe di bere qualcosa con me Daisy? Così potrai riposarti>le chiese gentilmente.

Si sedettero nella cucina e Penelope iniziò a lasciarsi andare con le confidenze. Le raccontò di quanto fossero stati difficili quegli anni, che il matrimonio con Lowell era stato problematico e complicato come il loro rapporto. Le disse di come avesse tentato in ogni modo di conquistare la sua benevolenza, con la costruzione della serra e cercando di disturbarlo il meno possibile. Daisy provava compassione per Penny. Era molto diversa rispetto alla cocciuta ragazzina che aveva conosciuto. Nonostante questo però, non poteva mettere da parte i suoi sentimenti, nemmeno per lei. L’aveva già  fatto una volta condannando tutti all’infelicità . Non avrebbe commesso lo stesso errore due volte.

Durante quelle brevi pause Penelope amava raccontarle di Tom e le permetteva spesso di giocarci. Era un bambino davvero dolce e aveva appena imparato a gattonare quando suo padre si rimesse completamente dalle ferite e fu di nuovo in grado di camminare da solo.

<Credo che sia ora di lasciarvi alla vostra vita ora> disse Daisy a Penny e Lowell un tardo pomeriggio.

<Non avete più bisogno del mio aiuto e in ospedale aspettano il mio rientro a tempo pieno con impazienza>.

<Ci mancherai molto Daisy> rispose Penelope a nome di tutti. <Promettimi che tornerai a trovarci, il piccolo Tommy ti adora>. Come se avesse capito quello che stava succedendo Tom afferrò una ciocca dei capelli di Daisy e la tirò forte con uno strillo.

<Ahi, piccolo monello> esclamò Daisy liberando i capelli della presa salda del bambino.

<Tornerò appena avrò del tempo libero, lo prometto. Amo questa famiglia e farei di tutto per voi> disse sinceramente.

Salutò i tre membri della famiglia dando un buffetto sulla guancia di Tom che sorrise soddisfatto e tornò al suo appartamento in città .

Prima di andarsene definitivamente dalla tenuta, Daisy aveva concordato con Lowell il loro metodo di comunicazione.

Si sarebbero incontrati nel suo monolocale ogni volta che i suoi turni di lavoro glielo avrebbero permesso e per avvisarlo  per tempo gli avrebbe scritto un breve messaggio con indicata l’ora a cui presentarsi. Lowell aveva chiesto al suo fidato cameriere personale, Joe, di ritirare personalmente i messaggi senza però consegnarli direttamente a lui. Penelope aveva l’abitudine di sbirciare la posta per scoprire le notizie prima che lui le annunciasse. Non aveva pazienza. Per risolvere il problema chiese a Joe di nascondere i biglietti sotto il vaso della margherita rossa. Era lì che ogni giorno sarebbe andato a controllare con impazienza per scoprire se avrebbe visto la sua adorata Daisy.

Quando le spiegò il trucco del vaso Daisy si mise a ridere.

<Tra tutti i fiori della tua collezione hai scelto proprio una margherita?> chiese allegramente.

<Sì perché è la mia preferita> rispose Lowell mentre erano sdraiati sul minuscolo lettino di Daisy.

<Non lo sapevo> Daisy corrugò la fronte.

<Sai perché?> mentre parlava Lowell  faceva scorrere il dito sulle piccole rughette che le si erano formate a causa della sua espressione. Daisy scosse la testa.

<Il significato del tuo nome è margherita. La mia preferita è quella rossa perché mi ricorda sempre la prima volta che ti ho incontrata. Ecco spiegato il motivo>. Lowell sorrideva e Daisy sentì l’amore che provava per lui traboccare dal suo cuore. Non si sarebbero mai separati.

 

Penelope non aveva mai prestato troppa attenzione agli spostamenti di Lowell. Ormai si era abituata al suo pessimo carattere e aveva deciso di non darci più peso. Almeno quando era nella sua serra non doveva essere costretta a sentirsi osservata di continuo da quegli occhi gelidi.

“Che mi importa†pensò osservando Tom che giocava nel prato “Non avrò un matrimonio felice ma almeno ho il mio bambinoâ€. Mentre era immersa nei suoi pensieri sentì la porta della serra che si chiudeva e vide Lowell affrettarsi verso la casa. Gli fece un cenno di saluto ma non la vide. Lo osservò salire nell’auto guidata da Joe e le sembrò stranamente sorridente.

“Chissà  dove sta andando, non mi ha nemmeno avvisata†pensò amaramente mentre accettava un fiore che suo figlio le stava porgendo soddisfatto.

Da quel giorno notò sempre più spesso la stessa sequenza di eventi. A una certa ora suo marito correva baldanzoso fuori dalla serra e si faceva portare da Joe in qualche posto che per lei restava un mistero.

Una sera a cena aveva provato a domandare a Lowell in modo piuttosto discreto se non si annoiasse a stare tutto il giorno chiuso in quella serra soffocante ma lui l’aveva liquidata dicendole di non preoccuparsi perché il caldo era il suo clima ideale.

Ma Penelope non era più la sciocca ragazzina di un tempo. Aveva capito che suo marito le nascondeva qualcosa ed era decisa a non lasciar correre.

Un nuvoloso pomeriggio, mentre passeggiava per il giardino spingendo la carrozzina, vide Lowell uscire di corsa.

“Voglio proprio vedere cosa nasconde lì dentro†pensò Penny cambiando direzione e voltandosi verso la serra.

Entrando si sentì soffocare. “Ci vorrebbe una finestra qui dentro†si disse mentre l’abito iniziava ad appiccicarsi al suo corpo. Tom aveva iniziato ad agitarsi perciò lo prese in braccio facendo attenzione a non fargli toccare nulla.  Avanzò tra le file di fiori e si soffermò ad osservarli meglio.

<Non pensavo che fossero così tanti> disse a voce alta. Il naso iniziava a pizzicarle per via dei pollini.

“Che sciocca non c’ è nulla qui dentro†pensò voltandosi per uscire. In un lampo Tom afferrò il bordo di un vaso e spinto dalle braccia della madre lo fece cadere con un tonfo.

<Tom ma che hai fatto>strillò Penny guardando il vaso caduto.

<Se tuo padre si accorge che sono entrata qui non so cosa potrebbe farmi>. Mise Tom nella carrozzina nonostante volesse scendere e si abbassò per raccogliere il vaso.

<Di certo hai buon gusto piccolo mio, hai preso un fiore molto grazioso> disse Penelope sollevando una splendida margherita rossa. La rimise al suo posto e voltandosi per manovrare la carrozzina scorse un piccolo foglio ingiallito sul pavimento.

“ E questo cos’è†si chiese raccogliendolo da terra. Quando lo aprì per verificarne il contenuto restò di sasso.

Il biglietto era scritto con una calligrafia femminile e indicava soltanto data e orario con un piccolo appunto.

Aspettami davanti alla merceria.

Penelope sentì il sangue affluirle alla faccia. Così Lowell correva ogni pomeriggio da un’altra donna? Doveva sapere.

<Signora Penelope sta bene?> una voce giunse alle sue spalle e la fece girare di scatto. Si trattava soltanto della domestica che ogni tanto passava ad innaffiare le piante.

Penny non si accorse di cosa rispose perché in quel momento prese la carrozzina di suo figlio e corse fuori più in fretta che poteva. Doveva sapere chi era la donna che amava suo marito mentre lei aveva passato tutti quegli anni a prodigarsi per lui. Chiamò Joe, che nel frattempo era rientrato e gli disse che aveva urgentemente bisogno di andare in città  per una visita dalla sua sarta.

Il viaggio le sembrò interminabile. Nella sua mente si affollavano una marea di pensieri che rischiavano di farla affogare in un mare di dolore. Si fece lasciare poco distante dal negozio e chiese a Joe di attenderla lì.

Senza farsi notare svoltò l’angolo per dirigersi verso la merceria mentre Tom dormiva beato. Durante il tragitto aveva ideato un piano. Si sarebbe appostata poco distante in modo da vedere chiaramente con chi si incontrava Lowell senza però farsi notare. Mentre camminava a passo sicuro si accorse appena in tempo di una ragazza che usciva da una stradina laterale. Si fermò di colpo tirando la carrozzina in modo talmente brusco che Tom si svegliò di soprassalto e iniziò a piangere.

<No Tommy non piangere ti prego> lo pregò inutilmente Penelope prendendolo in braccio.

<Penelope? Cosa ci fai qui?>. Penny alzò gli occhi sulla ragazza che aveva quasi investito e si accorse che si trattava di Daisy.

<Daisy sei tu> esclamò iniziando a piangere.

<Penelope cosa succede?> Daisy era preoccupata per lo stato in cui si trovava Penny. Aveva occhi spiritati e sembrava in stato confusionale. Daisy le prese Tom dalle braccia per cercare di farlo calmare prima di rivolgersi ancora a lei.

<Che cosa è successo Penelope?> ripeté. Stava iniziando ad agitarsi.

Penelope non riusciva ad articolare una frase comprensibile tra un singhiozzo e l’altro.

<…corsa qui…Lowell…biglietto…> mentre Penny pronunciava solo parole sconnesse Daisy iniziò a capire cosa era accaduto.

“Ha trovato il mio biglietto†pensò immediatamente “Ed è venuta qui per cercare Lowell†intanto coccolava Tom per cercare di farlo calmare. Doveva allontanarsi da lì il più in fretta possibile.

 <Daisy tesoro mio non sai cosa ti ho comprato quest’oggi..> Lowell arrivò alle spalle di Daisy e il resto della frase gli morì sulle labbra ma ormai era troppo tardi.

Penelope li stava fissando con la bocca aperta e gli occhi leggermente sporgenti, senza più tracce di lacrime.

Dopo quello che parve un momento infinito un urlo squarciò l’aria.

<Tu> urlò Penny lanciandosi su Daisy afferrandole una ciocca di capelli e tirandoli con violenza.

<Sei sempre stata tu>. Scandiva ogni parola con uno strattone.

Daisy non poteva difendersi con il bambino tra le braccia che ricominciò a piangere spaventato dalla reazione della mamma.

<Penelope calmati> intervenne Lowell afferrandola per le braccia e cercando di farle lasciare la presa.

Penny era come impazzita. Il suo viso era alterato dalla rabbia, ciocche di capelli le svolazzavano attorno facendola assomigliare a una creatura mitologica.

<Sei una *censura* e io ti odio>  urlò ancora <Ridammi mio figlio> strillò riuscendo a liberare una mano e colpendola alla tempia. Lowell cercò di allontanarla da Daisy.

Nel caos delle urla di rabbia di Penelope, del pianto disperato di Tom e dei gemiti di dolore di Daisy, nessuno di loro fece caso alla sirena d’allarme che iniziò a suonare spandendo la sua eco per la città .

Tutto accadde in un attimo. Un lampo accecante. Un scoppio assordante.

Quando Daisy aprì gli occhi era sdraiata per terra ricoperta di polvere e detriti e teneva ancora tra le braccia Tom che sembrava non avere un graffio. Si alzò lentamente e vide due figure poco distanti da lei, sommerse dai resti di una casa crollata sotto la forza della bomba che era appena esplosa. Un grido di dolore le lacerò l’anima.

Davanti a lei si trovavano Penny e Lowell.

Morti.

 

Capitolo 10

Per qualche minuto buono Daisy rimase immobile a fissare i due corpi privi di vita delle persone che più aveva amato nella sua vita. Si sentiva come se fosse morta anche lei. Voleva essere morta anche lei.

Restò nella stessa posizione fino a quando non sentì una mano toccarla leggermente sulla spalla. Con deliberata lentezza si voltò e vide Joe. Era pallido e come lei stava fissando quello che restava di Penelope e Lowell.

<Vieni Daisy dobbiamo tornare a casa. Diremo che è stato tutto un incidente e nessuno saprà  mai quello che è accaduto> disse Joe sospingendola in direzione della macchina, rimasta qualche strada più indietro.

Daisy camminava senza rendersene conto. Era come se il suo corpo si muovesse con una propria volontà  senza che lei ordinasse alcun movimento. Solo un dolore improvviso al cuoio capelluto parve risvegliarla. Cercò la fonte di quel fastidioso problema quando si accorse di avere ancora tra le braccia il piccolo Tom che le stava tirando una ciocca di capelli come era solito fare. Restò come folgorata e si fermò al centro della strada. Joe si voltò a guardarla.

<Che succede Daisy? Sei ferita?> le domandò avvicinandosi preoccupato.

Daisy alzò lo sguardo su di lui e piantò i grandi occhi verdi nei suoi.

<Non verrò> disse con tono risoluto.

<Che stai dicendo Daisy? Avanti andiamocene prima che arrivi un altro attacco aereo> Joe la afferrò per il gomito ma Daisy si divincolò e fece un passo indietro.

<Non verrò Joe, io non lascerò Tom> disse stringendolo al petto.

<Non mi resta che lui e se lo porto alla tenuta me lo porteranno via>. Daisy non aveva nessuna intenzione di perdere l’ultima persona al mondo che le era rimasta.

<Sarò io a prendermi cura di Tom, è così che deve andare> aggiunse cullandolo dolcemente.

<Tu sei impazzita Daisy, questa è una follia. Cosa credi di poter fare con un bambino così piccolo? I suoi nonni lo cercheranno e tu sarai arrestata. Ragiona> aggiunse subito dopo, vedendo che Daisy scuoteva la testa.

<Nessuno mi cercherà  Joe> disse con convinzione. <Perché tu dirai che sono tutti morti>.

Il piano si stava spandendo nella mente di Daisy come una macchia d’olio.

Si voltò e corse lungo il tratto di strada appena percorso per tornare sulla scena del macabro avvenimento.

Alcune persone stavano iniziando a uscire dalle stazioni della metropolitana che venivano utilizzate come rifugio antiaereo.

Doveva sbrigarsi.

Vide la carrozzina all’ultima moda di Tom, afferrò la borsa di Penny che vi era legata e la gettò in una pira che era rimasta accesa in seguito allo scoppio. La carrozzina prese fuoco immediatamente.

Sotto lo sguardo terrorizzato di Joe, Daisy iniziò a frugare nella borsa di Penelope e ne estrasse le uniche cose che riteneva utili prima di gettare nel fuoco anche quella. Prese il piccolo diario che Penny aveva l’abitudine di portare sempre con sé e i documenti sia suoi che del piccolo Tom. Infilò tutto nella sua borsa e si diresse di nuovo da Joe che non si era mosso di un solo centimetro.

<Ecco quello che faremo> gli disse parlando più velocemente che poteva.

<Seguirò il piano che Lowell aveva ideato diversi anni fa, quando voleva sposarmi>. Joe la osservava a bocca aperta ma non disse una parola.

<Questa sera prenderò una nave e andrò in America, dove potrò rifarmi una vita con Tom. Fingerò di essere Penelope. Sì farò così. Andrò dove nessuno mi conosce ma non cambierò il nome di Tom. Quando sarà  adulto avrà  libertà  di scegliere se conoscere la storia della sua famiglia o meno. Metterò da parte il diario di sua madre per lui e al momento opportuno saprà  la verità >. Joe non capiva se Daisy stesse parlando con lui o se stesse solamente ripassando il suo progetto.

<Se mi fermeranno una volta arrivata in America potrò mostrare i documenti e non ci saranno problemi> proseguì lei.

<Sarò la madre di Tom. Come sarebbe dovuto essere sin dal principio>.

 

Capitolo 11

Lily era seduta su un divano di pelle consunta e aveva appena finito di ascoltare la storia di Daisy direttamente dalla bocca di Joe.

Dopo aver riconosciuto sua nonna nel quadro e averlo detto a Rose, avevano concordato che l’idea migliore era andare direttamente da Joe per avere informazioni su Daisy.

Lily era rimasta stupita nel trovarsi difronte un signore anziano ma ancora molto sveglio. Dopo aver aperto la porta aveva sorriso a Lily e le aveva rivolto poche parole.

<Sapevo che prima o poi saresti venuta da me>. Dopodiché si fece da parte per farle entrare e raccontò loro tutta la storia.

<Cosa pensi di fare ora Lily?> le chiese Rose.

Lily ci aveva pensato molto. Non voleva tornare a Chicago dove non le era rimasto più nessun legame.

<Ho deciso di restare se per te va bene ovviamente> disse sorridendo a Rose.

<Mi cercherò un nuovo impiego come infermiera e ti aiuterò con il museo nel tempo libero> Lily era molto decisa.

Dopo poco aggiunse <Ma se a voi non dispiace preferirei non rendere pubblica questa vicenda>.

Joe e Rose annuirono comprensivi.

Lily prese la sua tazza di tè e ne assaporò il primo sorso.

Adesso andava davvero tutto bene.

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Nome dell'autore: Blue95


 


Titolo: Le tappe di una vita


 


Elaborato:


 


”Il carattere di una persona è ben riconoscibile sin dall’infanzia: è possibile che, nella fase della crescita, vi siano piccoli cambiamenti, ma questi non potranno mai essere talmente drastici come afferma lei”. Fu una delle prime cose che mi disse durante la nostra prima seduta, dottor Blanc. Mi ha anche detto che fenomeni come i miei potrebbero essere propri di persone “lunatiche”. Ma non è così affatto, dottore: i miei non sono affatto cambiamenti improvvisi, “sbalzi d’umore”.  No, è qualcosa di molto più profondo, è qualcosa che dipende da fattori esterni al mio volere.

Come dice? Vorrebbe che le raccontassi della mia vita? Va bene, se insiste tenterò di fare un viaggio indietro nel tempo, fino ad arrivare ai giorni nostri.


 


 


Capitolo 1 - Infanzia


 


Mi chiamo Tommaso Spadera, per gli amici Tom. Sono nato il 24 marzo del 1970, certamente non in uno dei migliori ospedali d’Italia. Non ricordo molto della mia prima infanzia: mia mamma mi ha sempre raccontato che, la notte in cui sono nato, fuori c’è stata una delle peggiori tempeste di sempre: un poderosissimo albero si abbatté sul tetto dell’ospedale proprio al momento dell’ultima spinta. “Segno premonitore, forse”, mia madre soleva scherzare spesso. Peccato che io, ora, pensi davvero che quello sia stato davvero il primo dei tanti elementi che provavano che io non sarei dovuto affatto nascere.


Quando avevo sette anni io, i miei genitori e mia sorella minore Lisa siamo dovuti emigrare in Francia: mio zio, già  stabilizzatosi lì da un po’, aveva trovato un buon impiego a mio padre. Ancor oggi non ho mai capito cosa facesse lì: molto spesso, quando glielo chiedevo, non ricevevo alcuna risposta, o, al massimo, venivo liquidato con un “non sono cose che interessano a un bambino”. No, no, dottore, mio padre non era cattivo, non mi trattava affatto male! Ma quell’argomento gli era un po’ scomodo.


Il trasferimento in Francia non è mai stato un trauma, per me. Anzi, è proprio da quel lungo viaggio che cominciano i miei ricordi più remoti e piacevoli!


Ricordo che abitavamo all’interno di una piccola casa in mattoncini, in un paese chiamato Angoulàªme. Lì ero felice, circondato dal verde dei parchi presenti. Ricordo il Natale del 1977, il primo dei dieci che passammo lì: ancor ora mi sembra di sentire il calore che il camino ci trasmetteva, aiutato da una profumata cioccolata calda preparata per tutti da papà . I canti di Natale non facevano altro che allietare quei bei momenti in famiglia; proprio quando ascoltammo il primo canto, io e Lisa cominciammo a scartare i regali. Da qui nacque una tradizione che si sarebbe protratta per gli anni successivi, una tradizione un po’ diversa da quelle degli altri bambini: avremmo dovuto scartare i regali non la mattina del 25, ma appena avremmo sentito il primo canto durante il 24 dicembre.


 In Francia conobbi un bambino di origine italiane, Antoine. Lui viveva in Francia da quando aveva un anno: suo madre morì durante il parto, e il padre ben presto volle tornare nella sua terra natale. Con Antoine ho organizzato tantissime scorribande, che più volte ci hanno fatto rischiare botte dai nostri genitori. Ricordo che un giorno, quando avevamo undici anni, riuscimmo, con conseguenti schiaffi da parte dei nostri padri, ad alzare e a spiare sotto la gonna di Miss Lorette, una delle donne più belle del paese: trentacinque anni, capelli castano chiaro, occhi azzurri, naso all’insù. Una classica donna francese, dirà  lei. Ma le assicuro che quella donna aveva un qualcosa in più.


A pensarci bene, quella fu l’unica vera volta in cui mio padre mi abbia mai picchiato. A differenza dei genitori di Antoine, non alzò le mani neanche quando, a quindici anni, tentammo di appiccare un incendio in una fattoria vicina. Quell’episodio è molto significativo per me: fu grazie alla mia – limitata – piromania che attrassi Alphonsine, la sorella diciassettenne di Antoine. I miei sentimenti furono immediatamente ricambiati, e fu così che quella bellissima ragazza dai capelli mori, lunghi e lisci divenne la mia prima fidanzata. Ricordo che Antoine non prese molto bene la notizia, ma dopo un po’ si rassegnò ad avermi come cognato.


Con Alphonsine ero felicissimo, come qualsiasi adolescente durante la prima cotta. Essendo lei più grande di me, conosceva molte più cose di me riguardanti il sesso. Cose che, modestamente, mi fece sperimentare con lei. Non immagina Antoine che faccia fece quando, per la prima e unica volta, gli raccontai delle cose che io e la sorella facevamo!


Io e Alphonsine siamo stati insieme fino al 16 novembre 1987, una delle date più significative della mia vita. Quel giorno stetti tutta la giornata con Antoine, che mi sembrava particolarmente preoccupato. Fumò più sigarette del solito, non mangiò né a pranzo né a cena, parlava a stento e, quando lo faceva, aveva la voce tremolante.


Tornai a casa alle 22 circa, con non poca preoccupazione. Si respirava un’atmosfera assolutamente negativa anche in casa mia, ma mi chiesi se non fosse frutto della mia suggestione. Per la prima volta nella mia vita provai paura, una paura per me assolutamente inspiegabile: cos’era che mi turbava? Antoine era davvero preoccupato per qualcosa o lo stavo soltanto immaginando? Il cuore mi batteva forte, l’ansia non mi faceva dormire.


Le mie paure divennero sensate quando, intorno alle 23:30, mio padre irruppe violentemente nella mia stanza.


<< Dobbiamo andarcene di qui, Tom, e alla svelta!>>. Chiedere spiegazioni fu del tutto inutile.


 


 


Capitolo 2 - Giovinezza


 


Antoine era morto.


Mio padre mi spiegava che si era trattato di suicidio. Ma perché avrebbe dovuto farlo? Era il mio migliore amico, se avesse avuto un problema sarei stato il primo a saperlo. E inoltre, perché stavamo fuggendo? E soprattutto, perché proprio quella notte? E cosa ne sarebbe stato di me e Alphonsine?


Queste domande mi tormentarono per tutta la notte. Il viaggio, che durò due giorni anche per alcune pratiche “poco legali” di mio padre, fu massacrante sia fisicamente che psicologicamente. E non perché fossi triste per tutto quello che era successo: come la pioggia rendeva fredde quelle due serate di novembre, così il vortice caotico di eventi successi rendeva fredda la mia persona. Pian piano il Tommaso Spadera così allegro e pieno di vita stava morendo, il sole dentro di me stava scomparendo bagnato da un tormentoso acquazzone.


Arrivammo a Milano, una città  oggettivamente bella, viva e interessante. Peccato non avesse catturato il mio interesse.


La nostra nuova casa era molto più spaziosa rispetto a quella francese. Si trattava di un appartamento diviso in due piani: nel piano superiore si trovavano le camere da letto. La mia camera non era eccessivamente grande, con pareti arancione vivo e mobili bianchi e gialli. Una grossa scrivania bianca rubava molto spazio alla stanza, lasciando spazio soltanto a un lettino, qualche mensola qua e là  e a un armadio mediamente capiente. La stanza di mia sorella era molto simile alla mia: le pareti erano di un rosa eccessivamente infantile, con peluche sparsi su un lettino talmente comodo da aver sempre suscitato in me invidia verso Lisa. Tutto il resto della casa, compresi i bagni e la stanza dei miei genitori, era arredata con mobilia in stile barocco eccessivamente kitsch, con mobili dall’aria antica e costosa, divani in pelle con rilegature dorate. Penso che quella casa sia stata abitata da molte persone che son dovute fuggire improvvisamente, proprio come me: non mi spiegherei, altrimenti, quella netta differenza tra le nostre camere e il resto della casa.


Nonostante odiasse quella casa, Lisa amava Milano: ricordo ancora la sua espressione esterrefatta, quasi sadica, quando arrivammo in città . Possibile che non fosse minimamente interessata a ciò che stava succedendo? Ma mi rendo conto, ad oggi, che questa domanda è davvero stupida da parte mia: non interessava neanche a me, d’altronde. Come la faccia opposta della stessa medaglia, mia madre era estremamente ansiosa. Passò tutto il viaggio a piangere, e non era insolito sentirla singhiozzare durante le notti successive. Infine, mio padre, che era il più preoccupato e impaurito di tutti: i primi giorni, infatti, era costantemente dietro alla finestra, nella speranza di non veder arrivare nessuno.


A Milano non sono mai riuscito a stringere amicizie forti: probabilmente, nel mio inconscio c’era spazio solo per Antoine come unico vero amico. Riuscii a scordare Alphonsine abbastanza velocemente, invece, buttandomi spesso tra le braccia di varie donne milanesi, anche molto più grandi di me. Le donne trovavano affascinante il nuovo me, così misterioso, silenzioso. Per lungo tempo, infatti, sono stato molto taciturno, addirittura capitava che non parlassi per giorni interi. Non mi facevo alcun problema a spezzare i cuori delle ragazze che capitavano nel mio letto, non avevo voglia di stringere nessun rapporto serio: ero volutamente solo, e questo piaceva.


Nell’aprile del 1995 ottenni un posto abbastanza importante in una banca. Ho sempre sospettato ci fosse stato lo zampino di mio padre, ma il lavoro mi faceva molto comodo


Una sera di dicembre dello stesso anno mia madre mi chiese, stufa, di raggiungere mia sorella in un locale nel centro di Milano. Dal trasferimento, Lisa aveva trovato nell’alcool una grandissima passione, e non era insolito che io andassi a recuperarla in squallidi locali ubriaca fradicia. Quella sera, però, fu diverso. Ad aiutarmi a portarla a casa c’era Benedetta, una delle migliori amiche di mia sorella. Incredibile come, nonostante avesse soltanto ventidue anni, sembrasse molto più adulta, quasi somigliante ad Alphonsine.


Sedurla non mi fu difficile, ma, dopo un po’, capii di essermi innamorato di lei. Ancor oggi non mi spiego come lei potesse ricambiare questo sentimento: in tutti questi anni non le ho mai saputo dimostrare quanto tenessi a lei, contrapponendo un apparente passività  emotiva alla sua grandissima gentilezza e bontà . Benedetta fu sempre ben accolta dai miei genitori, soprattutto da mia madre, che la considerava quasi una figlia. Paradossalmente, Lisa si allontanò da lei, rivolgendole sporadicamente la parola.


Passai il capodanno del 1998 da solo con Benedetta, e proprio in quell’occasione successe una cosa che non mi aspettavo affatto: la mia fidanzata mi chiese di sposarci. Non so se rimasi maggiormente sorpreso perché fosse stata la donna a fare la proposta o perché Benedetta si sentisse così pronta nonostante la sua giovane età . Comunque, la proposta mi fece davvero parecchio felice, e accettai senza alcun ripensamento.


Io e Benedetta ci sposammo il 28 agosto del 1998, in una cerimonia a parere sia mio che di Benedetta un po’ troppo pomposa. Avremmo preferito una cerimonia religiosa molto semplice e successivamente un piccolo buffet con pochi intimi, ma le nostre famiglie spinsero per un pranzo più abbondante. Nonostante fosse agosto, quel giorno piovve parecchio. Ma l’estrema bellezza di Benedetta, in un abito bianco per niente sfarzoso e in testa un lunghissimo velo, rese quello il giorno più bello della mia vita. Con lei ritrovai la mia felicità , la voglia di vivere; come una fenice rinasce dalle proprie ceneri, così dentro di me rinacque il Tommaso Spadera infante, allegro e spensierato.


Il 5 luglio del 1999 nacque Andrea, il nostro primo e unico figlio. Quando presi in braccio il piccolo per la prima volta piansi: non mi succedeva da quando ero piccolo, le lacrime che solcavano il mio viso scendevano come una calda e salata cascata. Una cascata, tuttavia, portatrice di emozione, di gioia.


Una gioia che ben presto finì. La sera del 28 febbraio 2000 Lisa fu trovata morta nella sua macchina. Dall’alcool, senza che noi lo sapessimo, era passata alla droga. E proprio questa la uccise. Lisa non era felice, non lo era mai stata. Sin da subito, il trasferimento dalla Francia l’aveva distrutta psicologicamente più di tutti, ma non voleva dimostrarlo per dare a tutti l’idea di essere forte, di essere capace di risolvere qualsiasi inconveniente le capitasse. Ma intorno a lei aveva costruito solo una corazza e, quelle che tutti noi credevamo ragazzate, finirono per distruggere quella corazza. A poco a poco anche l’interno di quella corazza si corrose, portando mia sorella alla morte.


Ah, povera Lisa! Nessuno l’aveva mai capita, nessuno l’aveva mai ascoltata, nessuno le aveva mai chiesto come si sentisse. In Italia Lisa non era felice, non lo era mai stata: la sua era una felicità  effimera, inesistente, apparente. E così si rivelerà  anche la mia felicità .


 


 


 


Capitolo 3 – Follia


 


Molte persone parteciparono ai funerali della mia povera sorella. Vedere tutte quelle lacrime, sentire tutti quei lamenti, vedere Benedetta col mascara colato mi ruppe il cuore. Sembrava che con mia moglie fossi tornato a vivere, ad essere umano. Ma ben presto quel briciolo di umanità  che c’era in me si disintegrò, rendendomi una persona totalmente diversa. Lisa era giovane e bella, non trovavo affatto giusto che se ne fosse andata via così presto. Aveva il diritto e il dovere di vivere, facile distruggere così la propria vita.


E proprio a causa della presenza fissa di mia sorella nella mia testa che cominciò la fase più squilibrata della mia vita.


Più continuava la mia convivenza con Benedetta, più mi riscoprivo ad odiarla: perché lei, coetanea di Lisa, continuava a vivere? La sua vita era perfetta, anche a causa mia, e non era corretto nei confronti di mia sorella. Ero deciso a farle del male, ma non un male fisico: volevo distruggerla psicologicamente. Più e più volte l’ho tradita, senza preoccuparmi affatto che lo venisse a sapere. Anzi, vederla soffrire era proprio quello che volevo.


Povera Benedetta, non meritava affatto quello che ha dovuto subire con me. Era la ragazza più dolce e amorevole del mondo, ma aveva fatto l’errore più grande della sua vita a innamorarsi di me. E perseverava nel suo errore perdonando i miei continui tradimenti. Mi amava, mi amava come nessun altra avrebbe potuto fare.


E questo lo dimostra il fatto che sia rimasta con me fino al 2005. In una piovosa notte di novembre sognai delle figure: erano Antoine e Lisa, felici, che giocavano fra loro. D’improvviso, le due figure scomparvero, e comparve Alphonsine. Era cresciuta, non era l’adolescente, ma una donna, la più bella di sempre. Mi rimproverava, di averla tradita con Benedetta, mi insultava per averla lasciata senza neanche salutata. E, alla fine, mi ha attaccato.


Mi svegliai di soprassalto, col cuore a mille e sudato. Capii che non ero innamorato di Benedetta, non lo ero mai stato. In lei rivedevo Alphonsine, ma lei non era Alphonsine, la donna che non avevo mai smesso di amare. Ho passato le tre notti successive in bianco, fin quando, in preda allo squilibrio totale, partii per Angoulàªme senza avvisare nessuno.


La partenza è stato un evento piuttosto traumatico. Non avevo salutato i miei genitori, mia moglie e mio figlio. Non avevo salutato Milano, una città  che, nonostante tutto, mi ha formato molto.Ancor oggi mi chiedo come stiano tutti: spero che Benedetta si sia rifatta una vita, che Andrea sia cresciuto sano e forte, che possa diventare qualcuno, Spero che i miei genitori siano ancora vivi e in perfetta salute, soffrirei molto se fossero morti senza averli salutati un’ultima volta.


Quel 2005 trovai Angoulàªme molto cambiata. Non la visitavo da quasi venti anni, il progresso si faceva sentire, come era ovvio che fosse. La mia vecchia casetta era stata sostituita da un enorme appartamento a più piani. Tutto il verde che ricordavo ormai era scomparso, lasciando che una colata di cemento lo inondasse, sino a non lasciarne più alcuna traccia. Rividi Miss Lorette, ancora una bella donna, nonostante l’età . E riconobbi anche il contadino della fattoria che tentai di bruciare da adolescente. Mi chiesi di cosa avrebbe potuto vivere adesso, dato che la fattoria e i campi non c’erano più.


Affittai per tre notti una camera d’albergo con i soldi che avevo portato. Mi chiesi cosa avrei potuto fare lì, se avrei potuto trovare un lavoro decente quanto quello in Italia. La stanza era molto essenziale: vi era un letto molto comodo, con le lenzuola e il cuscino profumati di lavanda. Di fronte al lettino vi era un televisore non molto grande, ma la qualità  del video, nonostante tutto, era buona. Il bagno era piccolo, ma pulito: vi era un wc, una cabina doccia e un lavandino. Sopra vi era un mobiletto con shampoo e saponette ancora incartate, ma ciò non mi impediva di sentirne il fresco odore.


Posai la valigia sul letto, presi dei vestiti puliti, feci una doccia e uscii subito dopo. Non volevo indugiare oltre, volevo incontrare di nuovo Alphonsine.


Camminando, mi ritrovai a passare davanti al cimitero in cui, con tutta probabilità , era stato sepolto Antoine. Il silenzio che regnava lì era reso meno inquietante dallo splendido sole che c’era in cielo quella giornata. Vi erano davvero poche persone a visitare le tombe dei propri cari, nonostante la grandezza del luogo.


Con un po’ di difficoltà  riuscii finalmente a trovare il sepolcro del mio amico. Il tempo aveva cancellato qualche particolare del volto di Antoine dalla mia memoria; d’improvviso, dopo aver rivisto la sua foto, cominciò a scendere qualche lacrima dai miei occhi.


A un tratto, vidi arrivare una donna nella mia direzione, accompagnata da un uomo e da una bambina di tre anni circa: era Alphonsine, più bella che mai.


Scappai, senza farmi vedere da nessuno dei tre. Perché lo abbia fatto ancora non lo so, dato che ero lì proprio per rivederla.


No, dottor Blanc, non scappai per quell’uomo, sento che sarei scappato anche se fosse stata sola.


Mi nascosi dietro una grande quercia, per spiarli. Alphonsine era lì per sostituire i vecchi fiori che erano sulla tomba del fratello con delle magnifiche calle. Ricordo che scoprii che erano simbolo della bellezza, e Alphonsine adorava quando glieli regalavo. Pensai che pensasse ancora a me, che non mi avesse mai dimenticato.


Quando vidi quel bacio tra lei e quell’uomo; un bacio semplice, ma amorevole. Loro tre erano una famiglia, una famiglia perfetta, in cui nessuno sarebbe potuto entrare a metter scompiglio. Già  da un po’ non avevo un cuore, e quel bacio riuscì a spezzare soltanto quel pizzico di sanità  mentale che mi rimaneva.


Quella sera mi ubriacai come non avevo mai fatto. Ero stato in grado di distruggere la vita che qualunque uomo avrebbe sognato: un buon lavoro, una moglie amorevole, un figlio bellissimo. E tutto ciò per uno stupido sogno, il sogno di una vecchia fiamma che si era rifatta una vita senza me. Mi aveva dimenticato, cosa che io non avevo mai fatto.


Ricordo che uscii da quel locale così insulso traballando e singhiozzando, non riuscivo quasi a reggermi sulle mie gambe; ricordo che attraversai la strada senza guardare se stessero arrivando delle macchine. E ricordo dei fari gialli molto, molto vicini a me.


 


 


Capitolo 4 – Pioggia


 


La mattina dopo mi sono svegliato in ospedale, con un grosso mal di testa e una nausea fortissima. L’auto non mi aveva investito: ero semplicemente svenuto e probabilmente qualcuno avrà  chiamato un’ambulanza. Ripensavo ancora ad Alphonsine, pensiero fisso.


Rimasi muto per una settimana intera, rinchiuso in quell’ospedale con medici che mi facevano domande insulse. Perché chiedere “come ti senti?” a una persona portata ubriaca e svenuta in un ospedale? E perché chiedere “dove vivi?” a una persona che non sa neanche più chi è?


Sì, indubbiamente erano domande patetiche, talmente assurde che finii per odiare quei dottori.


Il settimo giorno d’ospedale la mia pazienza era arrivata al limite. Avrei voluto vederli scomparire, o quantomeno avrei voluto che mi lasciassero in pace. E gridai loro per ben cinque volte, e a voce alta, proprio questo. “LASCIATEMI IN PACE” sono state le ultime tre parole che io abbia detto a qualcuno.


 


Prima che venissi rinchiuso qui, in questa clinica.


 


Mio caro dottore, so benissimo che sono per lei un caso disperato. Sono rinchiuso qui da dieci anni, ormai, e non è riuscito a farmi guarire. Mi perdoni se non riesco a dimenticare ancora Alphonsine, mi perdoni se da ormai dieci anni parlo solamente con lei, mi perdoni se la faccio sentire un fallimento, ma la colpa non è sua.


Mi vergono tantissimo di essere così incapace di ristabilirmi. Mi vergogno di essere così poco socievole con gli altri pazienti e con gli altri dottori.


Soprattutto, mi vergogno di stare qui a parlare con te, Antoine Blanc. Perché tu non sei qui, perché tu non esisti, perché io sto parlando soltanto con una sedia. Sarebbe bello avere amici reali, non soltanto te, che sei il mio amico immaginario.


 


… Guarda, sta piovendo! La pioggia è sempre stata una costante della mia vita: c’è sempre stata in tutti i momenti più importanti della mia vita, al punto che sono arrivato a pensare che io stesso, una volta morto, sarò pioggia. Acqua che leggiadramente scende dal cielo, rinfrescando l’aria, contribuendo a far nascere nuova vita.


Mi ha fatto davvero piacere poter parlare di nuovo, poter raccontare la mia storia, anche se nessuno è stato qui ad ascoltarmi. Ma volevo farlo, dovevo farlo, perché sto per andare via, sto per trasferirmi di nuovo. Ancora una volta non so dove sto per andare, ma sono certo che starò bene, perché sarò in ottima compagnia, perché so che con te e Lisa starò bene.


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Nome dell’autore: Monochromatic
Titolo: Racconta il mondo!
Elaborato:

 

Parte I – Uscire dal manicomio

 

Stretto e costretto a guardare il soffitto, inchiodato ad un letto scomodo. Era caduto in basso, tanto in basso che poteva udire le vocine dei dannati. Urlava e si dimenava cercando di scappare, a poco servivano i richiami delle infermiere che invano tentavano di bloccarlo. “Lasciatemi! Lasciatemi!†urlava a squarciagola tra una raffica di testate e l’altra, non voleva proprio saperne di rimanere fermo, indomito stava facendosi sanguinare i polsi per quanto premeva sulle cinghie di cuoio. Le infermiere, i dottori, tutti sapevano bene che quando a Dennis Rossi veniva in mente una cosa difficilmente lasciava perdere, ma, in fondo, per quale altro motivo quel povero disgraziato si trovava lì? Un testardo, un ossessionato, un paranoico giovane uomo internato in quello che si soleva definire “centro di salute mentale†ma che altri non era che un manicomio con un vestito di gala. Dennis sapeva bene dove si trovava, perché era lì e chi lo aveva portato in quel posto, tuttavia, nonostante si definisse “assolutamente lucidoâ€, nessuno era intenzionato a schiodarlo da quel letto, nossignore. Ma perché avrebbero dovuto farlo in fondo? Oh, beh, seppur legato ed intontito dai farmaci, il giovane capiva bene che dovevano guadagnare anche loro e di certo la permanenza di un paziente come lui (che poi così paziente decisamente non era) fruttava loro bei soldini. A quel punto che poteva fare? Era sempre stato un tipo abbastanza gentile, aveva quindi deciso di stare al gioco per un po’… Certo, tutto si aspettava fuorché rimanere lì per così tanto tempo ed adesso, beh, adesso stava iniziando a pensare al di fuori.

Quando guardava il soffitto, bianco ed un po’ scrostato, ripensava alla neve sporca che aveva visto cadere su Milano, quando gli facevano la doccia con quell’acqua gelida gli tornava in mente quella volta che a Venezia si era sporto un po’ troppo dalla gondola ed era scivolato in un canale e quelle coperte di lana perennemente buttate sulle sue gambe, oh, santo cielo quanto gli riportavano alla mente le passeggiate per Roma, quando insieme al nonno passeggiava per Ponte Milvio intorno a mezzodì, sotto quel sole cocente che rendeva la Chiesa della Gran Madre di Dio, con il suo rivestimento bianco e liscio, una sorta di vera e propria apparizione divina per quanto quei sampietrini scuri la facessero risaltare. Adesso rimaneva lui solamente il ricordo, nonostante fosse lì nella sua bella Roma poteva totalmente dimenticare che esistesse, tutto lo spazio esistente era per lui occupato da quel manicomio in frac! Scalpitava al sol pensiero di non poter più muovere le sue gambe sull’asfalto cittadino, costretto ad agitarle in aria come andava facendo adesso…

- Gli somministri un calmante, faccia qualcosa! – gli inservienti lo tenevano per le braccia, forte. Non provava dolore, quasi non sentiva più niente ormai. Forse, pensava, era divenuto talmente forte che la blanda forza di quei tizi non poteva scalfirlo, ignorava totalmente di essere sotto effetto di chissà  cosa. Fondamentalmente, seppur arrabbiato, continuava a sentirsi ottimista: ogni giorno vedeva il Sole sorgere ed ogni giorno lo salutava quando tramontava, almeno qualcuno di fidato lo assisteva in quel supplizio. Certo, non poteva dire che quel panciuto amico fosse di grande compagnia, ma non riusciva a dormire a meno che il Sole non gli lasciasse un salutino, pillole escluse ovviamente. Andava chiedendosi il più delle volte perché non aveva mai preso in considerazione di lavorare in un luogo simile: non doveva aprirne uno suo, no, no, troppe scartoffie, doveva semplicemente farsi assumere, il resto sarebbe venuto da sé; quanto era complicato dare una medicina a qualcuno? In fondo se era riuscito a far bere l’antibiotico al suo cuginetto poteva dare medicine anche a chi si trovava lì… Oh, a proposito di medicine: gli parve per un momento, ma non ne era molto sicuro, di aver sentito un pizzico… Da quando in qua adoperavano le zanzare come cura? Forse quello sarebbe stato più difficile da imparare…. Forse… Sbadigliava come un bimbo, aveva sonno. Poggiò la testa sul cuscino, avrebbe sicuramente risolto domani sia il problema della zanzara sia quello degli inservienti.

 

In barca, sul Benà co, salpato dalla piccola Peschiera per fare un giro sospinto dalla leggera brezza estiva. La luce picchiava sulla sua testa, incastonandosi tra i riccioli castani. Maneggiava abilmente il timone della barca, aiutato da un paio d’amici. Avevo lo sguardo fisso su un punto imprecisato, dove cielo ed acqua andavano confondendosi, separati solo dal profilo dei monti che si stagliavano in lontananza; sembrava di guardare una cartolina, era una vista alquanto bella, probabilmente, pensava, sarebbe ritornato e, chissà , avrebbe nuovamente fatto quel pensiero. Come dargli torto? Si rilassò, guardava le acque del lago mentre la barca procedeva, poteva scorgere i pesciolini che nuotavano accanto a loro. A volte si chiedeva cosa i pesci pensassero a proposito delle imbarcazioni, se credevano fossero dei grossi innocui animali o semplicemente non facevano loro caso, scambiandoli per cose abbastanza comuni come dei rami o dei tronchi d’albero. Mentre dirigeva la nave i suoi amici scherzavano, schizzandosi l’acqua a vicenda. Probabilmente era ora di fermarsi e fare una bella nuotata, divenire tutt’uno con quel lago che aveva passato a contemplare.

Sistemarono l’imbarcazione ed una volta pronti presero a tuffarsi: l’acqua, poteva constatare, era leggermente fredda, ma dopo un po’ ci si abituava. Sott’acqua era tutto buio, si sforzava di tenere gli occhi aperti convinto che li avesse chiusi. La luce c’era e filtrava dall’alto, ma appena si scendeva un po’ di più si veniva avvolti in una morsa e sembrava di trovarsi in un altro mondo, sembrava addirittura di essere morti… C’era il freddo, c’era il buio, la solitudine e la paura e le alghe che sembrava cercassero di trascinarti sul fondo… Si diede una spinta e risalì in un superficie, prendendo una grande boccata d’aria.

- Tutto a posto? – alzò lo sguardo, era una ragazza, su una barca. Gli tendeva una mano con fare preoccupato, ma non le ricordava nessuno in particolare che avesse conosciuto in quel posto. Afferrò il braccio di lei e salì sulla barca.

- Dennis, tutto a posto?! – vide i suoi amici arrivargli contro, impetuosi, ed afferrarlo per le spalle, scuotendolo con un’espressione d’orrore sul volto – Sott’acqua! Sei stato sotto per alcuni minuti, pensavamo stessi affogando! Dio, non puoi capire il panico, ci siamo messi ad urlare verso le altre barche! Ma che t’è preso?

Scosse la testa, confuso. Era rimasto lì sotto per così tanto? – Sto bene, davvero. L’acqua è fresca, fa caldo, stavo bene lì sotto.

I due si guardarono, scuotendo la testa, poi si misero a farfugliare tra loro in un angolo della barca. Si sedette, fissando il pavimento. Era incredulo, non tanto perché aveva fatto una cosa pericolosa, ma semplicemente non riusciva a capacitarsi di come avesse fatto a non rendersi conto di essere lì sotto da un po’; il tempo gli sembrava essere volato. C’era il tempo?

- Ehi… Ehm… Prendi questo, il vento inizia a soffiare più forte. – la ragazza di prima gli stava porgendo un asciugamano, si accorse solamente adesso di essere sulla sua barca. Si girò e vide di sfuggita la sua una decina di metri indietro, poi tornò a guardare la ragazza: minuta, i capelli biondi come il Sole raccolti in una treccia e gli occhi scuri ancora allarmati. Afferrò l’asciugamano e se lo mise, ringraziandola.

- Scusa, non era mia intenzione dare problemi.

- Ma figurati! L’importante è che nessuno si sia fatto male. Preso lezioni di apnea?

Sorrise, giocherellando con un lembo dell’asciugamano. – Beh, sì, un paio d’anni fa. Da piccolo sognavo di fare il sub, sai, avevo la malsana idea di tuffarmi nel Loch Ness alla ricerca del mostro, ma temo di avere sbagliato lago ah-ah!

- Qualche leggenda gira anche per  il nostro laghetto. Anche i tuoi amici esperti sub? – l’occhio gli calò su di loro: continuavano a parlare, ogni tanto gli davano un’occhiatina fugace, poi tornavano a confabulare. Si incupì. Non udiva ciò che si stavano dicendo, ma immaginava perfettamente. Voleva tornare in acqua, questa volta per affogare. Scosse la testa alla ragazza, continuando a guardarli. – No, no, semplici turisti sbadati. Tu sei di qui? – le chiese, cercando di distrarsi.

- Sì. Voi di Roma?

- L’accento, eh? Sì, di Roma. Dennis, piacere. – le porse la mano, sforzandosi di sorridere. La ragazza non gli dava fastidio, ma gli amici stavano trafiggendogli il cuore davanti ad i suoi occhi. Sì, pensava, forse sarebbe dovuto rimanere sott’acqua o, al massimo, non avrebbe dovuto buttarsi, ma cosa poteva immaginare? Il cuore gli batteva, forte, desideroso di scappare prima di essere colpito a tradimento. Sentì la sua mano venire stretta. Tornò in sé: era la ragazza, gli aveva stretto la mano. Era una manina piccola se paragonata alla sua, ma certamente più calda, quasi che fosse morto e nessuno se ne fosse accorto.

- Io sono Sofia. – uno stuolo di uomini armati di frecce sembrò puntarlo all’udire di quel nome. Sofia, eh?

 

Si era svegliato di soprassalto, come aveva aperto gli occhi aveva cercato di tirarsi su col busto. Spaesato, si guardava intorno: bianco, vedeva solo il bianco delle pareti e, di sfuggita, una porzione di cielo grigio. Dov’era l’azzurro del lago? Stava iniziando a respirare affannosamente, il petto gli doleva ed avrebbe tanto desiderato massaggiarsi il punto da dove andava diffondendosi quel bruciore, ma aveva i polsi immobilizzati dalle cinghie.

– EHI! – urlò – Dov’è il mio lago? Dove? – udì un rumore di passi, immediatamente volse gli occhi verso la porta: ne vide entrare-invadere barbaricamente il suo spazio personale-un inserviente, bello grosso e per nulla contento. Aveva le sopracciglia aggrottate, si fermò davanti al suo letto e lo guardò con fare minaccioso, ma a lui non faceva paura, oh no, pensava che se fosse stato libero da quelle cinghie lo avrebbe ripagato dell’occhiataccia, ma, essendo impossibilitato a muoversi, iniziò semplicemente a guardarlo in cagnesco a sua volta. – Che vuoi?

- Vengo a prenderti per lavarti ora che sei sveglio, oggi sarà  una bella giornata per te, sai?

Il ragazzo gli indicò con la testa la finestra. Sul serio era lui quello che stava sul letto, tutto bello legato? Se qualcuno avesse visto, se solamente qualcuno si sarebbe degnato di entrare lì dentro, oh, quante cose interessanti che sarebbero successe. Al momento continuava ad aspettare, stando al gioco di quei tonti. – Guarda un po’ il cielo, va. Ti sembra una bella giornata? Non c’è il Sole, che schifo di giornata.

L’infermiere sospirò, poi uscì un secondo e tornò con un altro paio di inservienti. Fu preso  e trasportato di forza verso il “luogo del bagnettoâ€. Quella era una prassi che conosceva bene ed a cui non riusciva mai a sottrarsi-non che non volesse lavarsi, per carità , semplicemente era in grado di farlo da solo e trovava umiliante venire preso e trattato come un incapace. Due degli inservienti lo tennero fermo, un altro procedette a spogliarlo. Dennis gridava e per qualche secondo riuscì a dileguarsi, ma ecco che un getto d’acqua lo costrinse al muro: sentì le scapole battere con violenza sulle piastrelle ed i vestiti divenire pesanti e poco confortevoli. Sentiva l’acqua inondargli gelida il viso, penetrare attraverso la pelle e sostituirsi al sangue. Cercava di ripararsi con le mani, invano. Era arrivata un’ulteriore infermiera e teneva il tubo saldamente, non lasciandogli scampo. Gli sembrava di essere divenuto un cane, quelli i suoi padroni, anzi, non aveva padroni, era più che solo, aveva solamente aguzzini. Una bella giornata? No, decisamente, anche il Sole quel giorno lo aveva abbandonato! L’unico amico che possedeva in quel luogo buio, l’unico compagno se n’era andato! E pensare che fino a poco prima pensava fosse qualcuno di cui potersi fidare…

- Sofia! Sofia dove sei?! Glub..! – la chiamava tra un getto e l’altro, disperato. Possibile che quelle belve non avessero un briciolo di umanità ? Oh, prima le cinghie, ora il getto, quant’erano scorretti! Addirittura quand’era libero erano almeno in tre a tenerlo! Avevano forse paura di lui? Sì autoconvinse di sì. Era un mostro anche lui? Può darsi, poteva spaventarli per questo, ma se fosse cattivo? No, era un mostro buono, gentile, forse non tanto mansueto, ma poteva un mostro divenire mansueto? Sarebbe divenuto anch’esso un cane come volevano che fosse? Forse il cane, pensava, non era degno di essere paragonato all’oggetto di quei torturatori. Cercò di alzarsi, lo sguardo fisso verso quei nemici. Da un po’ di tempo aveva iniziato a rimuginare su una data cosa, a maturare un certo desiderio ed aveva deciso che lo avrebbe perseguito.  Non si era mai arreso, mai avrebbe voluto farlo e quelli attorno a lui lo sapevano bene, tanto che avevano cercato di rinchiuderlo lì per fermarlo. “Stolte creature†li chiamava, non poteva fare a meno di pensare che fossero dei totali imbecilli a credere che potesse soccombere per cose simili.

- Non demordo! – blaterava, caduta dopo caduta. Il gettò aumentò, ma non si fece intimorire: con quello che poteva definirsi uno scatto si avvinghiò ad un infermiere prima di essere nuovamente bersagliato. L’infermiera e gli altri due rimasero bloccati, non sapevano se colpire oppure no, specialmente perché aveva un pezzo di piastrella in mano: si era rotta a furia di venire colpita dai corpi dei pazienti ed adesso, quella stessa piastrella che veniva colpita dagli ospiti del centro, era proprio nelle mani di uno di loro, pronta a colpire la gola di uno di quei cattivoni.

- Posala!

- Volete che la posi? Fatemi tornare a casa, adesso! Io non sto male! Vedete come mi muovo nonostante tutto quel veleno? – esterrefatti, inorriditi, arrabbiati e stizziti. I dipendenti del centro lo guardavano con espressioni identiche. – Io non sono un mostro cattivo! Io voglio essere libero, correre e camminare!

L’infermiera iniziò ad avanzare, mani in alto. – Ed in effetti tu non sei cattivo, quindi passami quell’oggetto, avanti. – scosse la testa. Non lo avrebbero ingannato. Premette maggiormente quel frammento sulla pelle dell’ostaggio. Avrebbe potuto realmente ucciderlo? No, probabilmente no. Avrebbe voluto farlo? Sì. Allora cosa sarebbe successo?

 

In alto, sempre più in alto. Stava scalando la montagna, stava osservando il mondo dalla sua cresta, sentiva le nuvole carezzargli il viso, le aquile sfiorarlo. Era lì, sulla natura, era lui stesso la natura, dall’alto del suo scranno dominava la vallata con lo sguardo e rimirava le lacrime del cielo scendere e posarsi sul suo mondo irregolare, addolcendolo. Vedeva l’orso combattere sotto l’arcobaleno e si sedé a fissare l’uccellino che si posò sul ramo poco sopra; si sentiva l’uccellino stesso, il piccolo uccellino che guardava l’orso, la sua natura. Fece un bel sospiro ed iniziò il suo viaggio: sembrava perdere una parte di sé lontano da lì, eppure era consapevole di dover scendere. Un albero, poi un altro, un cespuglio ed un fiumiciattolo, si lasciò scivolare alle spalle la bellezza ed attraversò la fine dell’arco colorato fino a ritrovarsi ad i piedi di quel mostruoso colle celeste, pronto a ritornare in sé.

Dennis, questo era lui, lento ed adagio andava, in mente solo un unico pensiero: perché? Chi sei tu? L’uomo della montagna? Camminava inesorabile verso un punto imprecisato, verso il mare, verso il fondo. Il rimorso per essere sceso lo stava consumando, ma confidava che ne sarebbe stato felice. Continuava a camminare, sperduto nel boschetto. Cosa stava diventando in quella foresta tetra? Uomo che non trovava la via o bestia che era a casa? Continuava la sua folle avanzata, forse aveva un’idea del percorso, forse semplicemente nessuno pensava l’avesse.

 

Il caso aveva fatto scalpore, ma, a distanza di qualche tempo, eccolo lì nuovamente sul letto, anche se questa volta perlomeno non era legato. Cos’era successo? Esasperato, aveva gettato la piastrella a terra, non prima di ferire abbastanza gravemente sia l’ostaggio che egli stesso, dopodiché erano stati chiamati i soccorsi e da lì c’era stato un processo, così era finito sulle maggiori testate giornalistiche, attorniato da sanguisughe che volevano le dichiarazioni di “un pazzoâ€, “un uomo sanoâ€, “un tizio da osservare†e molte altre cose, tuttavia, nonostante il polverone alzatosi, nulla accennava ad essere migliorato. Fondamentalmente le uniche cose che erano cambiate erano: il luogo, fu trasferito in un nuovo “centro†e quello fu chiuso, le modalità  con cui veniva “accuditoâ€, gli incontri e la sua famiglia. Già . Suoi zio, quell’essere. Ecco chi era il vero mostro! Egli lo aveva messo lì dentro ed adesso veniva indagato. Ben gli stava! Sperava con tutto se stesso che quella che stavano facendo sarebbe stata un’indagine approfondita, che qualcuno avrebbe creduto a quel “povero pazzo†prima o poi, ma temeva di sapere già  la risposta e, nella parte più recondita del suo animo, trovava un qualcosa che era concorde con loro. Ah, quante belle sorprese!

Cercò di rilassarsi: il letto era molto comodo, l’ambiente era accogliente e c’era un’ampia finestra da cui poteva vedere un bel giardino, ma, constatò anche questa volta, lassù in cielo non vedeva il Sole… Perché? Eppure sarebbe dovuto esserci…

Toc-toc. Si girò di scatto: era la porta. Gli faceva strano sentire bussare, sentire che qualcuno capisse che anche lui, da uomo, da vivente, aveva un proprio spazio, che spazio e luogo esistevano veramente. Con un filo di voce rispose “avanti†e vide intrufolarsi nella stanza una donnina bassa che aveva ormai passato la cinquantina. Era avvolta in un impermeabile nero e nero erano sia i suoi capelli che la montatura dei suoi occhiali. L’unico tocco di colore era una borsa di pelle tinta di verde. Era una persona strana.

- Signor Dennis, lei sa chi sono io? – non rispose – Dottoressa Edna Morelli, mi occupo del suo caso. Ah, so cosa sta pensando: “perché sono ancora qui?â€. Vede, l’equilibrio della sua condizione, me lo lasci dire, è alquanto precario.

La guardò inarcando un sopracciglio. Precario? Significava che sarebbe restato in uno di quei manicomi a vita? Era veramente possibile incatenare un uomo ad un letto? Privarlo della bellezza che lo attendeva?

- Ah! Fermo! La vedo agitato. Male, male, male. Prima che inizi a dimenarsi: lei non è pazzo signor Dennis, assolutamente, lei soffre di disturbi dell’umore che la portano ad immaginare un mondo alternativo migliore per lei stesso ed, in alcuni casi, a delirare o ad avere delle brevi crisi psicotiche. Vede, dopo aver preso attentamente in esame la sua condizione, siamo giunti alla conclusione che un po’ di tempo qui le farà  bene per superare i traumi che ha subito, in quanto causa scatenante del disturbo. Non si preoccupi, niente cinghie, niente getti d’acqua, solamente passeggiatine rilassanti. Io sarò uno dei suoi punti di riferimento, è stata la sua famiglia in accordo con il giudice a scegliere questa struttura. – gli consegnò un fascicoletto estratto dalla borsa verde. Faceva fatica a leggere, ma gli parve che fosse un elenco di nomi. La donna fece il giro del letto e con una penna gli indicò il suo. – Ecco, su, su, guardi, questa è la persona che l’assisterà .

Scosse la testa lievemente, allontanando la donna dal fascicolo. Vedeva forse un miracolo? Che qualcuno fosse lì per proteggerlo e seguirlo? – Può assistermi questa persona, Sofia?

- La conosce?

- Certamente. – la donna annuì ed iniziò a farfugliare termini medici tra sé. Non capiva molto di quello che dicesse, aveva studiato tutt’altro e per lui era un mondo sconosciuto, ma, se quella donna diceva che in fondo stava bene, seppur continuasse ad essere sospettoso, decise di fidarsi. Vedremo se sarebbe uscito.

 

Parte II – Sofia?

 

Era una notte buia e tempestosa, si rigirava nel lettino costantemente. Aveva stretto a sé un peluche ed accanto al letto dormiva beato un bel cagnolino. Ogni tanto si svegliava e lo carezzava, per poi correre velocemente sotto il piumone al primo accenno di tuono. Era quello il problema: aveva paura dei temporali. Era da tanto che si era ripromesso di sconfiggere tale paura, una volta si era persino chiuso in uno sgabuzzino da solo, al buio, per cercare di farcela… Purtroppo il baldo bimbo si ritrovò fuori da lì la bellezza di cinque minuti dopo, seguito dal cagnolino. A proposito del cagnolino: quello sì che era coraggioso! Poco più di un cucciolo appena svezzato, eppure persino quel vecchio pappagallo brontolone in salone non gli incuteva timore! Forse, pensava, avrebbe dovuto fare come il cuccioletto, anche se supponeva che sua madre non ne sarebbe stata felice. Ecco, sua madre, quella brava mamma solerte prendere il proprio tesoro tra le braccia quando malato o contrariato, pronta a viziarlo in ogni modo immaginabile, aveva un difetto e così suo padre: non volevano che dormisse con loro nel lettone.

Il sogno di ogni bimbo spaventato che si rispetti è quello di non distaccarsi dai genitori o da chi per loro e quel batuffolo dove si trovava? Solo in una grossa stanza buia. Era una bella stanza, piena di giochi ed a prova di bimbo, l’unica pecca era quella finestra che, quando c’era il Sole era perfetta, quando era nuvolo come quella notte era fonte di disperazione. Cosa fare allora?

Il bimbo chiuse gli occhi e scese dal letto, dirigendosi velocemente verso l’interruttore che accese. Durante la camminata aveva il cuore in gola: e se ci fosse stato qualcuno che non poteva vedere? E se fosse inciampato ed avesse svegliato qualcuno? E se avesse svegliato il cane facendogli lasciare la stanza e facendolo rimanere solo di conseguenza? Di norma il cucciolotto non lo avrebbe mai mollato, era un po’ come la sua guardia, ma emise un sospiro di sollievo adesso che poteva vedere. Prese un plaid e ci si avvolse, poi acchiappò il cucciolo, una torcia ed un cuscino, diretto verso la camera dei suoi. Teoricamente non sarebbe dovuto entrare, decisamente, ma se nessuno se ne fosse accorto chi lo avrebbe sgridato? Perciò fece i bagagli e silenzioso attraversò il corridoio, facendo ben attenzione a non far pesare troppo i passi od a stringere troppo il cagnolino, temendo che guaisse.

Arrivò davanti la camera: la porta era socchiusa. L’aprì quel poco che bastava per intrufolarcisi, poi, posando con delicatezza il cucciolo su un tappeto, salì sul letto e si sdraiò a piedi, non prima di aver chiuso la porta ovviamente, la vista del buio che si celava dietro di questa era fin troppo inquietante. Vicino ad i suoi iniziò pian piano a calmare quel suo cuoricino che continuava a saltellargli in petto e gradualmente chiuse gli occhietti.

Ciò di cui non aveva tenuto conto, malgrado lo adorasse, era proprio il cagnolino: ormai sveglio, desideroso di giocare, si avvicinò ad un lato del letto e con un balzo cercò di salirvici. Sfortunatamente era troppo alto per un cucciolo così minuto il quale, dopo quel tentativo fallito, ricadde sul pavimento, abbaiando leggermente contro quel piumone scivoloso. Inutile dire che fu sentito: immediatamente il padre del bimbo si svegliò, accendendo l’abat-jour.

- Cosa succede? – aveva l’aria parecchio assonnata, il piccolo iniziava a sentirsi lievemente in colpa – Tua madre ha una riunione importante domattina, cosa vuoi combinare?

- Il temporale papà â€¦ Ho paura. – afferrò di scatto il cucciolo e si strinse al padre – Ti prego, ti prego, vuole solo stare con me…

L’uomo diede una rapida occhiata alla moglie che dormiva beata, poi i suoi occhi incontrarono quelli del cucciolo e del figlio e lì, vedendosi riflesso in quelle iridi color ghiaccio, gli venne alla mente quando anche lui da bimbo dormiva con i suoi. Abbracciò l’improbabile due e sospirando disse: - Io non ho visto niente.

 

Per la prima volta dopo tanto si era svegliato abbastanza tranquillo. Anche quel giorno il Sole sembrava averlo abbandonato, oramai era diverso tempo che non riusciva più a vederlo, ma un certo livello di calma lo persuase dal porsi le solite domande; piuttosto andava chiedendosi quando sarebbe arrivata Sofia, se fosse comprensiva nei suoi confronti. Quella notte l’aveva persino sognata. 

Sbadigliò, tirandosi le coperte fin sotto il mento. Cosa c’era di meglio di un lettuccio caldo dopo tutto quello che era successo? Sorrise. Stava bene. Da quanto aveva smesso di stare bene? Che fosse solo un’apparenza? Che stesse male ma che fra tanti mali maggiori quello lo portasse a fermare un attimo quella folle corsa? Si toccò il petto con una mano, tremante: aveva mancato il cuore di un po’, ma aveva preso un polmone su di un lato. In quei giorni all’ospedale, circondato da medici, si chiese perché non avesse preso direttamente il cuore. Si sentiva ancora in dovere di fare qualcosa oppure aveva avuto paura? Non lo sapeva, ma il coraggio per ferire l’inserviente non gli era mancato. Non gli dissero poi molto, certo, c’erano stati quei vari cortei occasionali che gridavano “giustizia!â€, “rinchiudeteloâ€, ma a lui cosa importava? Non lo aveva mica ucciso, che colpa volevano affibbiargli? Quando un giornalista gli si avvicinò scavalcando un poliziotto, che scena buffa quando tutti vogliono ascoltare un “matto†pur di accaparrarsi notizie nuove, ricordò che lo mandò a quel paese. Ah, alla faccia loro, bisognava essere lucidi per fare cose simili, eh! Ma quello non era stato l’unico ad averlo infastidito, no, no! Ne era venuto un altro: a questo, con tutta la fierezza che possedeva, decise di lasciare una sorta di trattato a voce su quanto fosse conveniente divenire infermiere. Probabilmente non era quello che il giornalista si sarebbe aspettato, ma Dennis non aveva intenzione di essere scortese anche con lui, oh no, e difatti si era sforzato di lasciargli una dichiarazione su un qualcosa, meglio di niente, no? Scoppiò a ridacchiare come un bimbo: ma sì, sì! Doveva essere positivo, guarda quante cose divertenti gli capitavano dopotutto! Doveva guardare il bicchiere mezzo pieno! A proposito, da quant’è che non beveva qualcosa che non fosse acqua o qualche impiastro di medicine? Sigh…

Toc-Toc. La porta! Si tirò su quel po’ che le ferite gli permettevano e si sistemò i capelli alla bell’e meglio. Dei, cosa gli prendeva adesso? Guardò la porta. – Avanti. – disse. La porta si spalancò e da lì spuntò un abitino azzurro da dottore, indossato da un qualcuno che sembrava alquanto spaesato o, meglio, lo sembrava vedendo il ragazzo ritto sul letto e con lo sguardò incollato sull’entrata. Entrò lenta, seguita dagli occhi di lui. Si fermò davanti al letto, proprio con la testa parallela all’altra: poteva vederla chiaramente, finalmente ecco lì la sua Sofia. Era stata puntualissima, talmente puntuale che a momenti non fece in tempo a pensare a lei, a volere che entrasse da quella stanza.

Si sporse quel poco che poté, afferrando un foglietto dal comodino. Lo porse alla ragazza, poi cadde con la testa sul cuscino, sorridendo come un ebete.

 

- Glielo ripeto: disturbi, non pazzia, non almeno. – Edna Morelli era seduta ad una scrivania, su una bella poltrona imbottita e con un bicchiere di whisky in mano – Non posso mentire su condizioni mediche di questo tipo, il ragazzo è a volte perfettamente lucido.

Un uomo di mezza età -probabilmente qualche vecchina avrebbe pensato fosse un gran bell’uomo-sbatté con violenza un palmo sulla scrivania. Aveva l’espressione decisamente contrariata, assolutamente contrariata. La donna in parte lo capiva e per questo cercava di fare quel che poteva. - Ma non capisce? Mio nipote sta male! Sta male le dico! Io non voglio che peggiori, voglio che sia assistito nel migliore dei modi! – indicò la porta – Questa qui mi sembra l’unica soluzione, sia per me che per lui e lei sa che non può essere altrimenti in un momento simile, probabilmente non sarà  mai diverso da così. Cosa fare?

La donna bevve un sorso di liquore. Poi agitò un dito davanti all’uomo, a mo’ di no. Non era alterata, anzi, tutt’altro, ma era evidente che fosse in disaccordo con il suo interlocutore. Lo invitò a sedersi e quello così fece, sbuffando come un ragazzino. –Lo so, lo so, ma mi ascolti bene: - disse – faccio il mio lavoro da trent’anni, ne ho viste tante e so che suo nipote è solo fortemente pressato per quanto successo e ciò è stato appurato dalla corte. Cos’altro è stato appurato? Lei non ha svolto adeguatamente il suo ruolo e tantomeno quel centro dove lo ha portato si è rivelato idoneo per quanto dichiarato dalla legge. Mi dica: quel è la soluzione migliore? Suo nipote starà  ovviamente qui ma la possibilità  che torni a casa è alta e purtroppo non è un qualcosa che possiamo prevedere con sicurezza od impedire. Io farò ciò che mi è possibile, lei però deve fare la sua parte stando tranquillo, il nostro in fondo è un obbiettivo comune.

 

- Sofia, santo cielo… - la ragazza fissava il foglietto datole, ogni tanto rivolgeva un’occhiata al giovane. Si rigirava il pezzo di carta tra le mani, non aveva ancora proferito parola. Era una situazione abbastanza strana: il suo primo incarico lavorativo e chi le veniva affidato? Non sapeva bene come comportarsi o meglio, lo sapeva, ma ancora non sapeva farlo con naturalezza; aveva paura di toccare la cordicella sbagliata e di causare qualche danno.

- Sì… - lenta, piena d’esitazione, quasi commossa, la voce era ridotta ad un filo, tuttavia cercava di conservare una nota gioviale – E’ tutto a posto, Dennis? Da oggi io e te collaboreremo, cosa ne dici? – il giovane annuì con la testa. Silenzioso, era stato catturato da quella figura, si sentiva quasi inesistente di fronte a lei o forse era proprio quella, culla di cotanta perfezione, a non esistere? Inclinò la testa di lato, imprimendo l’immagine di lei nella propria mente: abbastanza alta e bruna, sorridente, decisa ma al contempo preoccupata. La ragazza si sedé ad un lato del letto, annotando qualcosa su un fascicoletto.

Non capiva cosa stesse facendo, ma doveva confessare che gli interessava poco, a lui importava che Sofia stesse con lui. A Sofia importava? La chiamò e subito quella si distolse dallo scrivere: - Posso uscire dalla stanza?

- Certo, però per il momento non possiamo uscire dai confini del centro.

- Non voglio stare all’aperto.

- Va bene. Come mai non vuoi uscire? – Dennis volse lo sguardo verso la finestra – Hai paura che piova? Il cielo è un po’ opaco, ma credo regga.

- No. – mentiva, ma cosa poteva farci? Non glielo avrebbe mai detto. La verità  è che voleva uscire fuori, follemente scappare e girare per il mondo, trovare il suo spazio, il suo luogo ideale e condividere il tesoro con gli altri ma quel cielo, oh, che viaggio avverso che lo attendeva senza mappa! – Voglio l’amico Sole. – vero, avrebbe preferito ci fosse lui, specialmente adesso. Notava in Sofia, ma non glielo fece notare per non offenderla, una certa vena ironica di cui si stupiva. Andiamo, come poteva chiederli il perché? E’ ovvio che sia il Sole il perché, no, Sofia?

La ragazza posò fascicoletto e penna a terra e guardò il ragazzo, girandosi verso di lui col busto. Era un tipo strano, pensava-non che le altre persone lì dentro non fossero particolari, ma Dennis, sarà  stato perché lo vedeva solamente adesso, gli sembrava diverso, né troppo particolare né troppo nelle righe-, era senza dubbio incuriosita e voleva capirne di più, in fondo, si disse, per quale motivo avrebbe scelto quel lavoro, altrimenti? Oh, beh, per un po’, ma non era momento di rinfangare vecchie memorie adesso. Strinse il foglietto che le aveva dato, ma non lo vide, più che altro si concentrò proprio sul ragazzo: capelli arruffati, occhi azzurrini e vispi e guance pallide, molto pallide. Sapeva cos’era successo, conosceva tutta la sua storia per filo e per segno, sapeva che doveva ancora riprendersi da quella lunga convalescenza che sarebbe permansa ancora per un po’.

- Vuoi molto bene al Sole? – gli chiese.

Quello sorrise annuendo felicemente. – Certo, ma se te lo stai chiedendo non posso rivelartene il motivo: è una cosa importante, mio nonno mi disse di dirlo solamente alla persona di cui mi fido di più al mondo ed al momento non mi sembra ci sia nessuno più affidabile di me. Io sono l’unica persona ancora in vita che ne sa il motivo.

- Come corriamo! Veramente non c’è nessun altro in cui puoi riporre fiducia? – curioso quel fatto, che pensasse che fossero gli altri ad essere inaffidabili, benché egli fosse lì, sorvegliato in attesa di un qualche ipotetico miglioramento? Guardandolo si chiese se sarebbe mai uscito dalla struttura: malato fisicamente e con una psiche al momento instabile. Iniziò a balenarle in mente l’idea che potesse rimanerci lì dentro. Quale ardua impresa! Quale! Il suo primo incarico e già  le veniva dato un qualcosa di ostico, ostico e dannatamente interessante. Perché non poteva avere un qualcosa di normale? Perché non poteva avere una vita normale? Oh, temeva di impazzire già  a stare con i pazzi.

- Non c’è nessuno di cui io possa essere totalmente sicuro al 100%. Tu cosa diresti nella mia condizione? – riconosce qualcosa? Oscilla tra la realtà  e la fantasia? – Voglio dire, come fa un uomo come me a fidarsi di matti come voi? Voi che non vedete nemmeno quanto stia bene? Sono cosciente delle mie azioni, lo sono. – no, non lo era, non era cosciente, assolutamente. Sperava ci fosse un barlume di sanità , che il suo lavoro si semplificasse un minimo. Confidava che stava solamente abbattendosi alla prima difficoltà , che tutto sarebbe filato liscio… O forse pensava che il peggio dovesse ancora venire? Tic-tac. Guardò l’orologio al polso: doveva dargli l’antibiotico. Si alzò e lo avvisò di ciò che stava per fare, Dennis non disse nulla. Sperava non avrebbe detto nulla neppure quando si sarebbe avvicinato il momento di dargli qualche pillola. Versò la bustina in un bicchiere con un po’ d’acqua e gliela porse. Lo vide fare una faccia schifata-nessuno poteva dargli torto-, quell’agglomerato granuloso e dolciastro doveva fargli rivoltare lo stomaco, ma cosa poteva fare? Doveva darglielo e basta.

- Aspetta, aspetta… Devo prepararmi.

- Prima lo prenderai meglio sarà , so anche io che ha un sapore orribile. – Sofia aveva ragione, ma pensava fosse facile dirlo, in fondo anche egli aveva imbastito qualche scusa da profilare al cugino per fargli prendere le medicine. A malincuore prese il bicchiere e mandò giù tutto d’un sorso: santa miseria che schifezza! Fece una faccia inorridita e la ragazza lo guardò, annuendo come se ci fosse passata un bel po’ di volte. In effetti non era passato Inverno che non stesse male, ma, ogni qual volta che andava avvicinandosi il momento delle medicine, sua madre la rallegrava. Adesso la situazione si era invertita ed era la bimba cagionevole a dare l’antibiotico a chi stava male, tuttavia doveva ammettere che ancora una volta era qualcun altro a farla sorridere: tutto sommato quel tizio, Dennis, nella sua stravaganza le sembrava una persona interessante.

 

La stava aspettando nel suo studio, gironzolando nervosamente. Aveva l’espressione crucciata, decisamente desiderava sdraiarsi e riposare, ma qualcuno le doveva delle spiegazioni e questa era sicuramente la priorità  al momento. Si affacciava nervosamente alla finestra nella speranza di vedere la madre spuntare dalla curva del viale. Dov’era? Era fastidioso attendere, non era mai stata una cosa di suo gradimento. E’ probabile che fosse una persona un po’ comoda, ma era anche una giusta pretesa dopo che la sua vita era stata pianificata ogni minuto ed ogni secondo dai suoi genitori. A volte credeva non avesse una vera e propria vita, che questa le fosse stata rubata prima dalla famiglia ed adesso dai pensieri di quei tizi che erano l’oggetto dei suoi studi. Eccola che arrivava. Sbuffò, se per la vista di lei o per aver atteso era impossibile da capire. Le andò in contro, muovendosi a grandi falcate.

La madre non batté ciglio, si limitò a salutarla chiedendole come le era sembrata la sua prima giornata lavorativa. Scherzava? Oh, sì. Sì, pensava, doveva proprio scherzare.

- Questo, - le porse il foglietto – mi ha dato questo. – la donna lo prese e lo studiò per bene, muoveva gli occhietti a destra e sinistra per cogliere tutto ciò che lì era riportato. Il suo era stato un esame attento ed era giunta ad una conclusione semplicissima: una poesia, nulla di particolarmente rilevante. Non si era soffermata particolarmente sul significato di questa, più che poesia era un abbozzo di poesia, un abbozzo mal riuscito, non c’era niente che avesse un senso esattamente compiuto, tuttavia doveva riconoscere che quella era proprio una bella calligrafia: il foglio era pulito, le parole erano in linea tra loro, non c’era una cosa eccessivamente fuori posto.

- Interessante tesoro, interessante.

- Cosa pensi significhi?

La donna alzò lo sguardo, guardando la figlia negli occhi. – Oh, beh, è un regalo carino da parte sua. Al resto magari può pensare la mia dottoressa, no? Mi raccomando, mi raccomando. – detto ciò le restituì il foglietto. Non doveva dire nulla, non poteva dire nulla.

 

Disegnava. Era una cosa strana per lui, non gli era mai piaciuto molto farlo, però lì non aveva niente di meglio da fare, oltretutto Edna gli aveva detto che poteva essere un buon modo per rilassarsi o per sfogarsi. Gli piaceva scrivere, ma ormai era da diverso tempo che non lo faceva più, vuoi per quanto gli era capitato, vuoi che si era un po’ lasciato andare, in ogni caso aveva deciso che appena sarebbe uscito da lì si sarebbe messo a scrivere qualcosa. Prese una matita verde ed iniziò a colorare un giardino: nel disegno c’erano il Sole, una casa ed il suo cortile. Da quel che si evinceva dalla figura doveva essere una villetta a due piani, ideale per una bella famigliola. Mentre colorava stava attento a non uscire dai bordi, quando lo faceva cercava subito di rimediare. Non voleva rovinarlo colorandolo, il disegno sembrava piacergli ed una volta terminato pensava di regalarlo a Sofia. Non era stupendo, doveva ammetterlo, diciamo che poteva essere un qualcosa di accettabile, era abbastanza fiducioso che le sarebbe piaciuto. A proposito di lei, era ormai una settimana che gli era accanto: la sera, dopo che gli venivano date le ultime medicine, lo salutava e tornava a casa propria, mentre gran parte della giornata la passava con lui. Era un po’ come vivere in un albergo con una psichiatra personale, perché più o meno quello era, cosa più cosa meno. Tutto sommato, dopo quel galante manicomio, lì gli sembrava di essere in Paradiso: del tutto libero sfortunatamente ancora no e con tutto il cuore smaniava dalla voglia di esserlo, ma non era legato al letto e poteva mangiare e mettere piede in bagno senza nessuno che gli stesse davanti, più o meno. Gli avevano detto che c’erano telecamere e che era “strettamente sorvegliatoâ€, ma credeva volessero solamente intimorirlo e Dennis, beh, Dennis non si faceva intimorire per così poco. Stava al gioco, sembrava che fosse vicino alla vittoria. Lo stesso non poteva dirsi per altri ospiti della struttura: aveva appreso che anche lì, come nel vecchio centro, c’erano altre persone, ma vigeva una sorta di “divisioneâ€, anche se nulla vietava che i diversi ospiti potessero dialogare quando possibile.

Si accorse che tra un pensiero e l’altro aveva finito per calcare un po’ troppo un muro, così afferrò una gomma e provò a cancellare con molta delicatezza: appoggiò lo spigolo bianco sul disegno, tenendo ferma una parte di foglio con una mano. Cancellava con piccoli movimenti energetici… Troppo. La sorte volle che con una cancellatura troppo brusca il foglio si strappò sotto i suoi occhi. Rimase un secondo fermo a guardare il disegno rovinato. Quello che andava agitandosi nel suo animo era un qualcosa di strano, un misto di rabbia, nostalgia ed incredulità , forse, ma era solo un vago accenno, poteva riscontrarsi anche un poco di paura. Cosa fare?

- Come hai potuto?! Guarda cosa hai combinato, imbecille!

- Non sono stato io! No, no, lo giuro!

- Bugiardo! Non pensi a quello che abita nella casa?

- Chi?

- Ma come chi? Quello! Quello!

- No! Smettila!

Si prese la testa tra le mani, alzandosi di colpo dalla scrivania dov’era. I colori erano a terra, il disegno strappato definitivamente e mezzo accartocciato. Urlava, soffriva, voleva che la smettessero. Chi doveva smetterla? Gli ronzava una voce nella testa. Chi è che stai pensando, Dennis? Chi sei? Perché non vai verso ciò che ami? Perché non cammini libero per questo mondo? Perché non racconti storie, non scrivi poesie? Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, non riusciva a farle tacere! “Aiuto†gridava, “Allontanateliâ€. Un folle vortice di pensieri prese il posto della sua mente; si vide affacciato su un cosmo di parole di cui non trovava il senso, vie e strade di lettere, autostrade di storie. Cosa doveva fare? Questa volta non aveva piastrelle con sé, no. Era forte, era molto forte. Doveva farcela da solo… O forse era debole e per questo si era ridotto così? Pensare, pensare, pensare, dove pensava? Cosa pensava? Pensava o faceva finta di farlo? Faceva finta od era direttamente qualcuno a pensare per lui? Qualcuno o egli stesso, seppur non voleva ammetterlo? Sentì la porta spalancarsi di colpo: un infermiere e Sofia. Il suo spazio! Si accasciò a terra, lasciandosi alla loro mercé.

Sofia lo prese con l’aiuto dell’infermiere e lo poggiarono sul letto, poi fu la volta dell’arrivo di un medico e da lì tutto si fece indistinto: sentiva le voci, più che altro mugolii, ma non vedeva niente, l’unica immagine nei suoi occhi era quella di una macchina o di una lattina schiacciata, non distingueva bene.

- Sofia… Aiut… -

 

Guardava il corpo del ragazzo buttato sul letto. Ogni tanto diceva qualcosa nel sonno, ma non riusciva a capirlo. Era circondato da flebo e macchinari per monitorare le funzioni vitali. Le sembrava di essere ritornata in ospedale, quando le mostravano pazienti particolari che presentavano patologie strane o quando semplicemente andava a trovare qualcuno. Già . Si sforzava di sorridere, di non andare a dare le dimissioni prima ancora di avere cominciato. Tra le mani aveva il foglietto che Dennis le aveva dato, lo fissava, lo stropicciava, se lo rigirava di continuo tra le mani. Aveva sperato che quel pezzo di carta fosse un indice che potesse dirle “ehi, il tuo lavoro è già  terminatoâ€, quella scrittura perfetta le aveva in effetti dato da pensare: non un giorno, non due, ma una settimana quasi era stata a rimuginarci sopra. Aveva associato la forma delle parole ad una sorta di ordine mentale, un segno di guarigione, ed in effetti c’erano diverse cose che l’avevano portata a pensarlo, difatti Dennis, seppur ogni tanto farfugliava qualcosa che in effetti non era molto sensato, non aveva delle vere e proprie crisi psicotiche, ma dei piccoli accenni che sfociavano in qualche urlo quando lo si infastidiva o quando si rattristava eccessivamente. Era quello il problema: era depresso, fortemente depresso, ma non voleva ammetterlo. La depressione era stata la causa scatenante di quei disturbi dell’umore che a lungo andare lo avevano ridotto in quello stato. Normalmente era un qualcosa che con i mesi tendeva ad andarsene ed il soggetto tornava in una condizione “normaleâ€, ma quello stress continuo a cui era sottoposto, aggravato dalla recente esperienza, non aveva giovato alla sua salute. Ma da cos’era scatenata quella depressione? Ovviamente lo sapeva, ma il suo scopo era cercare di parlarne con Dennis stesso. Aveva capito cos’era successo, aveva capito sin troppo, senza ombra di dubbio, ma non riusciva a risollevarsi: troppe domande lo affliggevano, troppi interrogativi che sommati avevano finito per non permettergli più di resistere. Dopo ciò da cui era partito tutto, a quanto sembrava, non si era confidato con nessuno in particolare, aveva tenuto tutto per sé e non era riuscito a dichiarare nulla nemmeno alle autorità , tant’è che fu pensato come causa di quello stesso dolore che lo tormentava. Non aveva idea di come le cose fossero andate-e probabilmente lo sapeva solo lui-, ma se si voleva arrivare alla verità  si necessitava anche di Dennis e quella povera anima come poteva fare? Aiutarlo, ecco cosa doveva fare, perché sì, era indiscutibile: Dennis, per quanto ci provasse, non poteva aiutarsi da solo, la tensione accumulata aveva ormai finito per danneggiare qualche cordicina del pensiero. Se Dennis pensava ci fossero problemi? Sì e no, ma sicuramente più no che sì, tanto che i farmaci anti-depressivi, che qualcosina potevano fare, non venivano presi oppure, al momento di prenderli, iniziava ad alterarsi, molto. In linea di massima, nonostante si sentisse importante per avere per le mani un personaggio simile, provava compassione per il ragazzo, compassione ed orrore, perché era un qualcosa che usciva dagli schemi, dalle cose a cui l’avevano abituata durante i suoi studi. Doveva andarsene? Doveva rimanere? Oramai aveva le idee più confuse di lui, eppure, in preda alla confusione, riuscì a prendere una decisione: studiare il caso, fare il suo lavoro e non pensarci più, almeno per il momento.

Lo sentì farfugliare qualcosa: - Co… Coloro… Matite… - quando lo sentì, cosa più che lecita, si chiese se non fosse proprio quello che ogni tanto sentiva. Ma sì, sì che doveva esserlo! Il suo pensiero subito passò ai pezzi di carta che aveva posato sul tavolo ed immediatamente li prese, cercando di ricostruire l’immagine. Prese un pezzo di scotch ed attaccò i pezzi, visualizzando così una casa, un Sole ed un bel giardino.

Sorrise mentre annuiva. – Sì, sì. Decisamente. – si allontanò una ciocca di capelli dal viso, poi si girò verso il ragazzo – Disegno strappato, casa… Uhm… Beh, sì. Posso uscirne, posso rimanere sana.

 

Faceva caldo, era una giornata afosa. Camminava lentamente e con un passo rilassato accanto a suo nonno ed al cagnolino. Il Sole era alto nel cielo, sua madre addirittura gli aveva messo un po’ di crema solare. Pensava avesse lievemente esagerato, ma almeno non si sarebbe spellato. La mamma non amava che il nonno lo portasse in giro in quel momento della giornata, ma il sabato mattina c’era il mercato lì a Ponte Milvio e sapeva che a suo nonno piaceva curiosare lì, anche perché era una buona occasione per chiacchierare con qualche amico. Personalmente non era mai stato un grande amante delle soste chiacchierecce del nonno-e diavoli se aveva ragione!-, ma quello lì era un compromesso che si faceva andar bene pur di evitare i compiti il sabato mattina, d’altronde, pensava, quale bimbo avrebbe rifiutato un bel gelato od un gioco? Pensava che i nonni fossero programmati per piacere ai bambini ed ogni sabato che trascorreva insieme a loro ne era sempre più convinto, sì!

Dopo un po’ si allontanarono dal mercato, il nonno decise che avrebbero fatto qualche passo verso lo Stadio dei Marmi ed il lungotevere. Quando passavano per di lì l’anziano gli nominata tutti i monumenti della zona, imprimendogli in testa una visioni di questi ed una voglia di scoprirli tale che sembrava una caccia al tesoro. Gli piaceva il Foro Italico, trovava interessanti tutte quelle statue che si potevano vedere dall’esterno. Suo nonno gli aveva detto che le statue provenivano da città  diverse, così ogni volta che passava di lì si divertiva a tirare ad indovinare quale statua venisse da quale città . Passarono l’obelisco-quella invece era una cosa che non gli era mai piaciuta tanto-e girarono a sinistra, verso il Ponte Duca d’Aosta, lo attraversarono e tornarono indietro diretti verso il Ponte Flaminio. Il Ponte Flaminio gli era sempre piaciuto, tuttavia ne ignorava il motivo, gli piaceva e basta: forse per via delle sculture che lo rendevano imponente, forse per via dei lampioni e delle scalinate molto scenici, qualcosa c’era sicuramente, ma gli sfuggiva, anche se dopotutto doveva ammettere che quell’alone di mistero, quel non so che, contribuiva a rendere più grande l’interesse per quel ponte; sembrava quasi collocato fuori dal tempo e dallo spazio, residuo di una civiltà  moderna attraversato da macchine future e calpestato da generazioni di turisti che andavano-vanno ed andranno-guardandosi attorno alla ricerca del Ponte Mollo per guardare da lì l’acqua che al primo accenno di tempesta farà  da coperta alla Valadier. Oh povero ponte! Dimenticato e vandalizzato, ricordato per smaltire il traffico, mai ammirato per quello che è: strana ed interessante arte.

L’arte, i monumenti, la città , tutto. Era tutta un’opera meravigliosa a cui voleva contribuire, voleva vedere, sentire, toccare, raccontare; voleva mischiare tutto le conoscenze per dar vita ad una storia, la più bella storia che aveva per oggetto le sculture della vita.

 

Si rigirò sul letto, la testa gli scoppiava. Cos’era successo? Non lo ricordava lucidamente… Cercò di tirarsi su con il busto, ma non ci riuscì.

- Ci penso io. – vide di sfuggita Sofia avvicinarsi a lui e sollevargli il capo, posandolo nuovamente sul cuscino. Era un tocco delicato, gli ricordava quando sua madre lo metteva a letto.

- Grazie… - mormorò. Avrebbe tanto voluto alzarsi e fare un altro disegno, ma si sentiva stanco.

- Di niente. Ti senti bene? – gli chiese – Devi comunicare qualcosa? – Dennis scosse la testa. Che sapesse che avrebbe voluto farle un disegno? Qualcuno glielo doveva avere detto, peccato, pensava fosse un poco infame rovinare così una sorpresa. Sbatté le palpebre, gli sembrava di vedere uno spiraglio di luce. Rabbrividì chiedendosi se non stesse per morire.

- Hai freddo?

- No, sì, è che c’è il Sole.

La ragazza si girò verso la finestra. – Sì. – prese una poltroncina che era lì e la trascinò accanto al letto - Sei felice? - fece un bel respiro e le confessò quel che pensava – Capisco. Non pensi possa esserci altro? – pessimista, era pessimista?  Pensava al trauma o si stava rendendo conto di stare male? Ennesimo enigma. Non le sembrava eccessivamente triste, tuttavia le pareva sofferente e probabilmente si trattava anche di dolore fisico a giudicare da come stringeva la coperta quando provava a girarsi.

Gli occhi del ragazzo si chiusero, respirava piano. – Magari tiene a me, a tutti. Pensi sia possibile? – le balenò subito in mente una qualche sorta di mancanza d’affetto. Quando parlava cercava di mostrarsi abbastanza riservato e nonostante tutto orgoglioso delle proprie capacità , ma a quanto pare i dubbi dovevano continuare a divorarlo dall’interno.

- Potrebbe, siamo ottimisti, ok? – sorrise. Ottimismo, com’era bello essere ottimisti. Gli sarebbe piaciuto, poteva provare anche lui ad esserlo veramente? Credeva di esserlo, ma il più delle volte nascondeva solamente la sua ansia. Si girò verso di lei, rivolgendole quel sorriso: era un bel sorriso, ampio e luminoso, era vero; doveva conservare tutto le sue speranze, tutti i suoi altri mille momenti di gioia. Doveva sorridere più spesso, era la prima volta che lo vedeva farlo veramente in quella settimana, mostrarle la potenza dei bei ricordi e delle belle esperienza, la felicità  contagiosa che adesso la stava facendo sorridere di rimando e Dennis doveva confessare che, dopo tutto quello che gli era capitato, non disdegnava la vista di un sorriso.

- Senti, questo disegno… - lo vide raggelare, pensò bene di cambiare domanda - … Vedo che c’è un giardino, ti andrebbe di fare qualche passeggiata appena starai meglio? Il Sole sta tornando, no? – subito lo vide rilassarsi, con gli occhi luccicanti. Si sporse a fatica dal letto, indicando la finestra con un dito.

- Fuori di qui. – una fame di spazio lo divorava, voleva esplorare, non girarsi in una gabbia!

- Ancora no.

- Voglio passare sul Ponte Bianco. – lo guardò perplessa. Che ponte era?

- Qual è?

- Quello bello a Corso di Francia. Puoi portarmi lì?

- Perché vuoi andare lì?

- Mio nonno mi ci portava il sabato.

Ne colse al balzo l’occasione: - Puoi parlarmi di tuo nonno? Brav’uomo a portare il nipote in giro ogni sabato.

Il ragazzo annuì con gli occhi lievemente lucidi, chiedendosi al contempo il perché di quella domanda: - Si chiamava Giovanni, mi ha sempre voluto bene. Era un uomo semplice, sai, uno di quei tipi alla mano e gioviali, tuttavia non era un ignorante, anzi: ha dedicato la vita ad aiutare questa città , molte strutture più moderne sono state opera sua, difatti le ha progettate lui stesso. – ciò che diceva era attendibile e verificato, un ottimo riscontro, lo annotò – Amava profondamente questa città : trovava fascinoso il fatto che continuasse ad esserci dopo più di due millenni, il suo “saper vivere la storia†lo definiva, raccontando tante bellissime storie che vanno ancora oggi intrecciandosi tra le viette della città , collegate un pezzo dopo l’altro dalle persone che quivi mettono piede. – sognava, puro sogno, andava lasciandosi alle parole, catturando da un’onda di nostalgia e di illuminazione, una presenza metafisica che scendeva in quel centro, sollevando dal terreno il vile che andavano mal considerando; un’annotazione importante – Mi diceva sempre “ti sei mai seduto lì, all’ombra delle Gemelle a guardare l’obelisco Flaminio ed a pensare a quante cose questa città  abbia visto, quanti tramonti abbia passato e quante albe dovranno venire, se mai finiranno? Ed immagina: questa è solo uno dei tanti piccoli tesori che abbiamo costruito!â€, entusiasta, quasi che di tutte quelle cose viste egli non ne avesse vista mai nessuna, che si affacciasse al mondo come un piccolo bimbo; sì, mio nonno era una persona straordinaria, questo mondo lo è.

La giovane si alzò e lo salutò, uscendo dalla stanza con rispetto.

 

Le sbatté il fascicoletto in faccia con uno sguardo saturo d’ira, nella più totale ragione a suo parere. La donna come suo solito non batté ciglio, si limitò ad aprire il blocco ed iniziò a dare un’occhiata annuendo di tanto in tanto. – Chi? Posso sapere chi diavolo mi è stato assegnato? E che disposizioni avete dato?

- Tesoro, ancora con questa storia? Il tuo compito è di accompagnare il paziente durante la riabilitazione. Possibile che tu venga ogni volta da me per lamentarti?

La ragazza scosse la testa con vigore ed iniziò a parlare scandendo bene le parole: - Gli fa male stare qui, mi ha parlato delle passeggiate che faceva col nonno e molto chiaramente mi è parso di capire che quelle lo rendevano felici, a che pro dovremmo tenerlo qui? Io tuttavia non posso uscire con lui, è il mio primo compito e mi stupisco che tu mi abbia assegnato una persona dalla condizione così delicata. Vuoi forse che rimanga qui a vita-o quello che può ancora vivere stando qui? Io non ne ho intenzione, né per il suo bene e soprattutto per il mio: è fortemente debilitante seguire una persona del genere, sono in un dubbio continuo, non so se sta facendo miglioramenti oppure no, è piatto; finirò per farmi ricoverare anche io di questo passo. Vuoi che mi ammali?

- Ammalarsi? Suvvia, suvvia, cosa mi vieni a dire? Lavorerai qui, è bene che tu sappia e che sia preparata. Quale preparazione migliore di questa in attesa che diventerai perno di questo posto?

La ragazza la guardava ora con occhi sgranati. – Perno? Non starai mica progettando di andartene. – un lungo silenzio, la donna guardava la ragazza ma non parlava, aveva difficoltà  a risponderle.

- Ho bisogno di stare sola, allontanarmi dagli ambienti troppo familiari.

- Allontanarti? E questo posto? Sappi che se te ne andrai per questo io farò di testa mia.

- Lo faresti comunque.

- Non mi faccio più ingannare da te, mamma.

 

Suo zio era davanti a lui. Lo guardava fisso negli occhi ma non proferiva parola, ce l’aveva con lui. L’uomo lo fissava a sua volta, il suo viso era inespressivo, quasi guardasse un muro. Dennis pensava che dovesse essere fortunato che ci fosse Sofia, altrimenti si sarebbe alzato e gli avrebbe mollato un ceffone. Come aveva potuto lasciarlo lì? Lo zio sapeva bene cosa Dennis stava chiedendosi, ma al momento preferiva evitare di rispondergli: era esausto tanto quanto lui e la vista del nipote non faceva altro che appesantirlo e drenargli la forza vitale. Era odio? Probabile.

La ragazza guardava la scena in silenzio, in piedi perfettamente a metà  trai due. Non se la sentiva di intervenire, d’altronde era un cosa anche giusta, in fondo chi era se non un’estranea? Avrebbe anche voluto andarsene, ma per sua sfortuna doveva controllare la situazione dal vivo. Oh, quanto voleva che quella giornata finisse.

- Ciao, Dennis. – il ragazzo non gli disse nulla, si limitò a scuotere impercettibilmente la testa – Sono venuto a trovarti, sei contento?

- Sei tu contento che te la sbrighi con poco. Non credere che non sappia del processo.

- Non era mia intenzione, io…

- LO ERA! – aveva alzato la voce, urlato per liberarsi di quel peso. Oh, cavoli se lo era! Aveva deciso lui di portarlo lì, aveva deciso lui di non venirlo a trovare, di non preoccuparsi di come stesse e quindi adesso era colpa sua! Su di lui aveva anche quegli altri pazienti suoi compagni di tortura, avrebbe potuto fermare prima quello scempio, ma per sua fortuna quella era una colpa condivisa. Vide lo zio stringere le mani a pugno fino a sbiancare del tutto le nocche e bianca gli parve che stava iniziando a diventare la sua barba, l’ultima volta che lo aveva visto era più scura; anche le rughette intorno agli occhi stavano iniziando a farsi più marcate. Sapeva che aveva sofferto tanto quanto lui, ma non voleva ammetterlo, non credeva fosse una scusa plausibile, non voleva che lo fosse, ma evidentemente…

- Hai idea di quello che ho passato? Come puoi solo insinuare che sia colpa mia? Tu dovresti essere contento di stare qui, stai bene e guarirai, dovresti ringraziarmi!

- Come faccio a ringraziare un uomo che mi ha quasi portato alla morte? Posso ringraziarti solo del fatto che così facendo quella struttura è stata chiusa. Tu non volevi il mio bene, tu volevi che io mi allontanassi, che morissi!

- Stai delirando!

Li guardava, non sapeva cosa fare. Zio e nipote che litigavano, l’uno davanti all’altro, il primo che si agitava e respirava affannoso dopo ogni urlo, il secondo che benché stesse male se ne stava ritto a rispondergli, quasi che quella rabbia lo rafforzasse. In un certo senso ammirava quello sfogo, cosa che a lei sembrava impossibile, cosa che avrebbe voluto fare. Per un secondo le parve di essere simile a Dennis, di essere su quel letto al posto suo, davanti alla madre. In quel momento non le importava se quel ragazzo stesse riprendendosi o no, se avesse ragione o no, se insinuasse qualcosa di sbagliato, distorto da quella condizione temporanea, semplicemente si ritrovò a dargli ragione.

- Delirare? Sei un fottuto egoista, ecco cosa sei!

- Non usare quel linguaggio con me! Ma che stiamo scherzando? Dopo tutto quello che ho passato è mio diritto pensare a me stesso! – puntò il dito su Dennis, traboccava d’ira e di certo non lo teneva nascosto – Tu devi ritenerti fortunato! Tu che sei stato l’unico a sopravvivere! Ma come ti permetti di dire che sono egoista?! Mio figlio è morto, mia moglie mi ha lasciato, io ho perso tutto e nemmeno c’ero, tu sei ancora vivo e ti disperi per un cane!
Vide Dennis alzarsi dal letto ed andare in contro allo zio. Si mosse, ma le fece cenno di starne fuori. – Pensi che quella non fosse anche la mia famiglia? Pensi che sia contento di essere sopravvissuto? Tu non lo hai visto, non hai visto com’erano ridotti! Io vivo con quel ricordo, mi tormenta, io non sono morto, no: io sono sotto una tortura eterna  e l’unico modo per sorpassare questo lo ho capito troppo tardi ed adesso mi è stato levato. Tu invece? – si appoggiò al muro, sfiancato – Io sono triste per te, zio: capisco il tuo dolore, ma non è questo il modo di superarlo, lo so perché ci sono passato e guarda dove mi ha portato. Non allontanarti da tutto per dimenticare.

L’uomo stava per ribattere, ma non disse nulla. Si voltò ed uscì dalla stanza a passo svelto.

Quanto a lei, beh, era rimasta a guardare in silenzio. “Non allontanarti da tutto per dimenticareâ€, già . Probabilmente, pensava, avrebbe fatto tesoro di quella frase.

 

Ormai era passato più di un mese dal loro primo incontro, sembravano essersi abituati alla presenza l’uno dell’altra. Dennis stava guarendo: stava in piedi, camminava, così, in vista di un’ormai rinnovata salute, ne aveva colto l’occasione per domandargli se volesse fare una passeggiata in città . Al ragazzo si erano illuminati gli occhi, si era avvicinato alla finestra e guardando quella flebile luce che traspariva dalla coltre di nuvole disse: “Adesso sìâ€.

Si era rifiutato di salire in macchina, ne capiva bene il motivo e non gli disse nulla, così avevano intrapreso una lunga camminata. Il passo di lui era adagio, rilassato, si fermava spesso e contemplava il paesaggio, sia che questo fosse un ambiente naturale od artificiale, sia che fosse “bello†o “bruttoâ€. La verità  è che non c’era una vera e propria distinzione per lui, o perlomeno non le dava quest’idea: tutto sembrava essere una cosa particolare e mai vista, una magnifica sorpresa inaspettata che desiderava ardentemente analizzare in ogni suo dettaglio, conoscerle ed apprezzarle.

Le aveva chiesto di andare a Villa Borghese, aveva accettato dopo un istante di esitazione. Era un bel parco, ma non lo considerava nulla di prettamente eccezionale, tuttavia non le dispiaceva andare lì, vuoi perché le dava un’impressione di tranquillità , vuoi perché  Dennis era contento di andare lì e sperava fosse una giornata prettamente normale, vuoi perché le ricordava tante cose… In quel momento erano all’interno del parco, accanto al laghetto dove stava il Tempio di Esculapio. 

Il ragazzo si fermò all’improvviso: - Cosa ne pensi i questo luogo? – le chiese. La vide guardarsi attorno, catturare tutti i dettagli di quel piccolo parco pieno di storie: i cigni nel laghetto, i piccioni e le paperelle nutriti dai bimbi con le buste di popcorn in mano, le coppiette di anziani che ancora passeggiavano mano nella mano…

- Non saprei.

- Già . – riprese a camminare adagio – E’ difficile inquadrarlo, personalmente io trovo stupendo il modo in cui modernità , storia e natura si intrecciano. Non ci ho mai fatto caso più di tanto, però è un luogo fantastico. Credi lo sia?

- Senza dubbio è molto bello, ma fantastico no. Ci sono tanti bei parchi al mondo più bello di questo.

- Di certo non lo metto in dubbio, ma avevo intenzione di chiedertelo.

Era perplessa. – Per quale motivo?

- E’ da quando ti ho chiesto di venire qui che sei silenziosa, di solito mi domandi molte cose. – adesso fu lei ad arrestarsi per qualche secondo. Fece un profondo respiro e continuò a camminare per il vialetto. Non gli disse nulla, negarlo era come negare l’evidenza, si limitò a fare finta di nulla, più o meno. Da una parte si vergognava: possibile che adesso fosse lui a domandarle cose? I ruoli si erano forse invertiti? Il ragazzo stava guarendo, non lo metteva in dubbio, ma era nella condizione di chiederle qualcosa? Forse era il suo orgoglio, non lo sapeva, ma si disse di no... Probabilmente la verità  era un’altra, molto semplicemente quel posto le faceva abbassare la guardia… - Sofia? Vuoi sederti?

Scosse la testa. – No, no, è solo che questo posto mi fa venire alla mente diverse cose che preferirei non rinfangare. –

Le mise una mano sulla spalla. – Coraggio, anche io ho avuto dei brutti momenti-e ne ho tutt’ora-, ma ho trovato un motivo per stare bene. So che è una cosa strana, ma vuoi parlarne? So per certo che fa male restare soli ed isolarsi ancora di più… Beh… - Esatto, cosa strana, lo riconosceva anche Dennis quindi. Non gli dava torto, avrebbe dovuto sfogarsi, ma parlare con lui? La domanda era: poteva fidarsi di lui? O, ancora meglio, perché non avrebbe dovuto? In fin dei conti conosceva la storia di lui, perché Dennis non avrebbe dovuto conoscere la sua? Per la mente le passò il triste pensiero che quel ragazzo era per certi versi l’unica persona che le rimaneva. Magari poteva anche raccontarglielo, tanto…

- Mio padre è morto non molto tempo fa, era malato. Se ne è andato nel giro di poco, ricordo bene cosa ci disse il medico. – si sedette su una panchina – Suppongo sia scontato dire che gli volevo bene, no? – il cuore gli si strinse, la vide lì, seduta e con lo sguardo a terra. Solitamente era sempre seduta, sì, ma lo guardava e se ne stava ad annotare cose sul fascicoletto, oppure a chiacchierare con lui, sorridendo. In effetti si sorbiva tutti i suoi sproloqui, ci voleva coraggio a fare il suo lavoro. A proposito: cosa l’aveva spinta a sceglierlo? Si tenne quel pensiero per sé e continuò ad ascoltare. – Quando poteva mi portava con sé in giro per la città , così, a fare passeggiate. Villa Borghese era uno dei posti dove mi portava sempre. – la capiva, chiaramente la capiva e ne compativa il dolore, d’altronde, come poteva dimenticare le passeggiate con il nonno, con Sofia? Sofia, oh, Sofia… Sofia? Si alzò di scatto. Sofia passeggiava a Villa Borghese? Sì. Il padre di Sofia era morto? Sì. Era malato? No. Inorridì. Stava parlando con Sofia? Si prese la testa tra le mani e la guardò con gli occhi sgranati: cose succedeva? Si agitò.

La ragazza lo guardava, sconvolta ed indignata. Perché quel comportamento? Perché quell’insensibilità ? Perché adesso? Non doveva dire nulla, ecco. Si maledisse, maledisse lui e quel parco. Possibile? Stava bene. Iniziava a temere che avessero ragione.

- Portami a casa… - supplicò. Erano appena arrivati ed adesso voleva andarsene. Cosa gli prendeva? Evidentemente era una crisi, quello sì, ma per cosa si era scatenata?

Lo prese per un braccio e cercò di trascinarlo via, ma quello si impuntò. – Ferma! Chi sei tu in realtà ? Voglio dire… Tu non sei Sofia… Chi sei?!

A quel punto Elena non sapeva più cosa fare.

 


Parte III – Problemi e domande

 

Si rigirava frenetico nel letto, non riusciva a prendere sonno in alcun modo. Erano a malapena le 7.00, ma fuori era completamente buio: c’era un temporale, ogni tanto sentiva qualche rombo di tuono. Erano passati diversi giorni dalla giornata a Villa Borghese, tuttavia continuava a rivivere quel giorno, ancora e ancora. Guardava spesso fuori dalla finestra, vedeva il parco ed il cancello, ma evitava di posare oltre il suo sguardo. Si sentiva confuso, tanto confuso, non sapeva più nemmeno lui cosa voleva, chi erano quelli attorno a lui, chi era lui e cosa fossero fantasia e realtà . Sospirò e si rannicchiò sotto le coperte, il cuscino sulla testa per evitare di sentire i tuoni. Gli ricordavano il rumore che emettevano i motori, quel boato che si poteva udire quando qualcuno premeva un po’ troppo sull’acceleratore, gli ricordavano la macchina che venne in contro alla loro… Le grida soffocate e quell’istante d’immobilità  si riaffacciarono sulla soglia della sua mente, rivide i suoi genitori, il nonno ed il cugino accanto a lui. C’era anche qualcun altro, un cane ormai anzianotto, a giudicare dal pelo biondo probabilmente un Golden Retriver o qualche incrocio di questi; lo teneva stretto a sé, lo accarezzava ma quello non emetteva un fiato, nemmeno si muoveva, l’unica cosa che ricordava di lui è che lo salvò, sì.

Si sentì le guance umidicce; non voleva ricordare, ma era un qualcosa di involontario: più cercava di allontanarla dalla mente, più negli occhi gli compariva l’immagine di un’auto che avanzava a gran velocità . Ricordò suo padre cercare di cambiare direzione, ma non fece in tempo: le macchine fecero un frontale, vide suo cugino ed il nonno venire scaraventati in avanti ed andare a morire contro il vetro e le lamiere, udì quegli splat e crack che provenivano dai corpi dei suoi genitori ormai tutt’uno con i veicoli e quello dell’altro guidatore, quel pirata che correndo era arrivato al traguardo finale, ultimo però; infine vide lui, abbracciato al cane. Non vedeva poi molto, davanti a lui aveva un morbido tappeto di pelo e sangue, ma quel poco che notò fu sufficiente per segnarlo nel profondo, per fargli tirare un sano ed orrido sospiro di sollievo, per farlo calare in un sonno teatro di incubi e paure che, pur di conquistarlo, facevano a cazzotti nel suo animo, annientandolo quasi.

Ricordò di essersi aggrappato al cane, di aver chiamato i suoi famigliari, di aver chiamato il suo salvatore, di aver chiamato quella Sofia che col suo corpo gli aveva fatto da scudo, salvandolo. Gli si gelò il cuore, gli parve divenne freddo come le acque del Benà co... Era mai stato lì? Sì. Era mai stato in barca lì con gli amici? No, no. Non conosceva quelle persone. Chi era quella Sofia? Non ce la faceva: troppe, troppe Sofie. A quel punto, con rammarico, pensava che forse avrebbero dovuto veramente dargli del pazzo, forse non stava male stretto e costretto a rimirare il soffitto. Si rassegnò: doveva parlarne con qualcuno.

 

Si sdraiò sul divano, esausta. Quelli erano giorni complicati, non sapeva più dove sbattere la testa per non impazzire. Capiva quello che stava succedendo, eccome, ma non riusciva a farsi piacere una situazione simile, non dopo quanto successo al parco. Elena, in un primo momento, aveva preso quel comportamento di Dennis come una cosa personale e non poteva negarlo, però dopo un paio di giorni iniziò a chiedersi se non fosse stato un bene, dal momento che adesso il ragazzo nutriva dei dubbi sul fatto che quella sua dottoressa potesse essere “Sofiaâ€.

In quei giorni non aveva dormito, aveva mangiato poco e ancora meno aveva parlato con sua madre; se non fosse stata questa a chiamarla probabilmente non le avrebbe detto una parola. Era arrabbiata con lei, aveva iniziato a pensare che volesse disfarsi della propria vita facendosene un’altra, lasciandola in balia del dolore, pensava che forse-seppure le aveva fatto sorgere qualche interrogativo lecito-non avrebbe dovuto assistere al diverbio tra Dennis e suo zio, almeno non sarebbe stata divorata dai suoi stessi pensieri. Era un po’ di tempo che non riusciva a riposare tranquillamente in effetti, sia perché pensava al ragazzo che non riusciva ad inquadrare, sia perché i rapporti con sua madre stavano andando inabissandosi dopo quel deterioramento continuo. La cosa peggiore, poi, era averla in casa con sé. Elena Verdi non era una donna autonoma, non riusciva ad esserlo per volere della madre. Quella donna e suo padre avevano pianificato tutta la sua vita, aveva rinunciato a tante cose per loro, aveva intrapreso la loro stessa carriera, sembrava proprio che dovesse diventare una loro copia… Ma adesso suo padre non c’era più e sua madre stava virando per mondi inesplorati. Trovava frustante questo fatto: una vita senza poter essere libera ed adesso, tutto d’un tratto, si ritrovava sola. Non ne faceva una colpa ad i suoi genitori, in fin dei conti era anche colpa sua, tuttavia si chiedeva se fosse bene così, alla fine, si diceva, non era comunque autonoma, era sempre stata una scelta di sua madre. Cosa voleva? Semplicemente allontanarsi consapevolmente da lei. Non voleva abbandonarla, voleva restarle vicino, ma non così vicino da essere sua madre stessa a momenti. Le rimproverava questo allontanamento che aveva iniziato a sentire, pensava le facesse male allontanarsi da tutto, proprio come faceva male allo zio di Dennis: in fondo, si diceva, erano abbastanza simili. Elena non desiderava lasciare la madre sola, la quale voleva andarsene, voleva semplicemente rendersi autonoma da lei. Forse l’avere una madre “quando fa comodo†era un pensiero egoistico, ma Elena non la pensava così: sua madre aveva bisogno di aiuto ed al contempo necessitava di stare un po’ da sola per riflettere, però non riusciva a concepire il “prendersi un po’ di tempo†senza il “cerco qualcuno che sia me perché io non posso essere solaâ€. Sua madre non doveva cambiare, sua madre era perfetta così, sua madre aveva solamente bisogno di aiuto per passare quel momento e quello era un aiuto che, sì, doveva venire anche da chi le stava accanto, ma che in primis doveva venire da lei, di qui il fatto di una maggiore autonomia per Elena.

Era una cosa contorta, ma supponeva che sua madre avrebbe capito prima o poi, bisognava solamente comunicarglielo, già , ma quando?

 

Il cielo era ancora grigio scuro, non vi era un minimo accenno di azzurro. Se ne stava seduto sul letto, accanto a lui, sulla poltroncina, c’era Sofia-dottoressa. Aveva provato a spiegarle dell’incidente e chi era Sofia e pian piano, mentre parlava, si era reso conto che non era lei e la stessa glielo confermò con una gelida sentenza: - Il mio nome è Elena.

Il ragazzo non le rispose, aveva paura di farlo, si rendeva conto di stare perdendo fiducia in se stesso, di svanire pian piano. In quei giorni tutto ciò a cui aveva pensato, ciò che gli era parso normale, stava vacillando; iniziava a credere che anche quello a cui pensava adesso-che si fosse inventato tutto-fosse un’invenzione. Sofia, la dottoressa, Elena, provava a rassicurarlo dicendogli che sarebbe andata bene: credeva che quello fosse un passo avanti, che stesse iniziando a divenire consapevole di se stesso più di quanto non avesse mai fatto prima durante questo lungo periodo. Non lo aveva fatto nel migliore dei modi, ma sorprendentemente era stato un bene.

- Elena… - mormorò, sguardo a terra – Tu sai cosa..? – la dottoressa annuì, comunicandogli che sapeva tutto: chi era, cosa gli era successo, perché era lì; gli disse anche che suo era il compito, affidatole dalla direttrice del centro, di assisterlo e che, al termine di un certo periodo, la sua condizione sarebbe stata esposta al giudice il quale avrebbe poi deciso cosa sarebbe successo, se sarebbe potuto tornare a vivere la sua vita o se sarebbe rimasto lì come suo zio avrebbe voluto.

- Perché il cane? – gli chiese.

- Non lo so… - era vero, non ne aveva un’idea precisa, solo un vango sentore – Sofia mi ha protetto, l’ho sognata, era una ragazza.

- Va bene. – lo annotò sul solito fascicolo, dopodiché si fece raccontare dettagliatamente il sogno. Non era soddisfatta, non del tutto. Credeva che quella potesse essere una spiegazione plausibile per quanto era accaduto, ma ancora non si spiegava delle cose che l’avevano subito incuriosita e che, sospettava, fossero da ricollegarsi sempre alla sua famiglia ed a Sofia che, evidentemente, come queste cose, doveva avere un’origine, mentre al momento aveva trovato solamente la causa: protezione e salvezza. Era legata alla sua famiglia, sicuramente. - Partiamo dalle basi allora: come hai avuto quel cane?

- Mio nonno, me lo ha regalato lui quando ero piccolino. – annuì abbastanza convinta. Il nonno. Le vennero in mente le passeggiate di cui le aveva raccontato e qui, subito, collegò una cosa all’altra, mettendoci dentro un ulteriore elemento: lo spazio, inteso come ambiente, paesaggio. Poteva essere il nonno l’origine? Se così fosse stato sarebbe stato da ricollegarsi alla sfera famigliare, ad un attaccamento nei confronti di essa, per la perdita probabilmente…

- Possibile che tu stia associando il ricordo di tuo nonno a Sofia?

- Potrebbe essere.

- Ti piace il mondo? – Dennis alzò lo sguardo, era una domanda strana. Elena aveva la penna poggiata sul fascicolo, in attesa di scrivere. Quelle ultime erano domande cruciali, doveva porgliele per capire, doveva porgliele per aiutarlo, per aiutarsi. Quel ragazzo alla fine le aveva mostrato un mondo a cui non voleva pensare e le aveva indicato un modo per cambiarlo, adesso era il momento di ricambiare, proseguire insieme quel cammino.

- E’ un bel posto.

- Trovi che sia meglio del Sole? – il ragazzo tacque. Non intendeva risponderle-non perché non volesse capire, ma perché non poteva-, così ebbe inizio un lungo silenzio. Elena attendeva sulla poltrona, Dennis stava seduto sul letto. Si guardavano, per la prima volta qualcuno aspettava qualcosa di importante dall’altro, che fosse un domanda od una risposta, per la prima volta ad entrambi passò per la mente che quella cose che stavano aspettando era importante per entrambi, che se quella cosa era importante anche loro lo erano. Importanti. Loro. Quello non era un silenzio cattivo, era un momento per capire l’altro, cogliere l’attimo e scrutarsi, non tanto nell’aspetto quanto nell’animo.

Lo sto aiutando?

Mi sta aiutando?

Proseguiremo su questa via, al momento il cammino era ancora lungo. Fu una lunga occhiata reciproca, l’uno negli occhi dell’altro, intento a trovare la porta per la mente. Non erano ancora pronti per rispondersi, ma entrambi sapevano che prima o poi lo sarebbero stati.

Elena si alzò, prendendo la strada per arrivare alla risposta.

 

Erano fuori in giardino, seduti su una panchina a dare delle briciole alle papere del laghetto. Dennis era ancora turbato per quanto successo, ma doveva ammettere che non gli dispiaceva avere qualcuno con cui chiacchierare. Faceva un po’ freddino, il cielo era ancora grigio, ma adesso che non c’era nessuno poteva ben vedere l’intero giardino: qualche piccolo laghetto artificiale, delle siepi ben potate, dei lampioncini che emettevano una luce soffusa che creava un’atmosfera rilassante. Un ottimo luogo per meditare, pensava che chiunque si fosse seduto lì dovesse  essere rimasto catturato dall’armonia del posto. Appoggiò la schiena alla panchina e guardò il cielo: un colore rossastro faceva capolino da dietro le nubi che lasciavano trapassare qualche raggio attraversato da piccoli stormi d’uccelli. Il tramonto era una cosa affascinante, il sogno che ormai stava maturando da un po’ era quello di vedere almeno un tramonto ed un’alba in ogni paese del mondo e poi unire tutti quei piccoli pezzettini in un puzzle di Sole ed una volta finito questo regalarlo a quel mondo che gli aveva permesso di assistere a quella meraviglia affinché tutti si rendessero conto che nonostante tutto quello era unico cielo.

- Mi piacciono i tramonti.

- Anche a me. Quand’ero piccola mio padre ogni tanto mi portava a vederlo dal Gianicolo, forse un posto un po’ banale, ma lo adoravo. – mentre parlava guardava anch’essa il cielo – Vedere il tramonto mi fa ricordare quei momenti.

- Conservali con cura, sono una cosa preziosa.

- Tu hai mai paura di dimenticare? – gli chiese. Non era una domanda che aveva a che fare propriamente con il suo lavoro, niente fascicoletto al momento, era pura curiosità . Stavano iniziando a legare ed Elena andava sempre più chiedendosi se Dennis non fosse sprofondato in quella condizione per il timore di dimenticare e, per questo, non abbia creato quelle figure immaginarie. Il ragazzo fece di no col capo. Sì stupì.

- Posso averla provata, ma adesso so che ci sarà  sempre qualcosa che non mi permetterà  di farlo. – si sporse un po’ dalla panchina per cogliere un fiorellino – Sai, ho iniziato a maturare questo sentimento qualche tempo prima che me ne andassi dall’altro centro. Credo sia stata proprio la lontananza da ciò che mi permette di continuare a sognare ad avermelo fatto capire, chissà , forse è perché ne sono stato privato che ho sentito più forte quella cosa. - le diede il fiorellino, mettendoglielo tra le mani – E’ tutta una cosa meravigliosa.- lo vide alzarsi, andare verso il laghetto, così lo seguì.

L’acqua del laghetto rifletteva le loro immagini, distorcendole. Lievi increspature andavano formandosi sui loro volti cancellando la morbidezza di quella pelle ancora giovane, rendendola così simile a quella di un anziano. Anche la giovinezza, fu il triste pensiero che passò per la mente di Elena, era destinata a scomparire e con essa tutte le cose. Un lieve alone di malinconia la pervase, ripensò alla sua infanzia, quella infanzia felice che tuttavia non aveva mai sentito come sua. Riguardò lo specchio d’acqua: la sua immagine, distorta, le ricordava che in fondo non era altro che una copia imperfetta dei loro genitori.

- Qualcosa non va? – le chiese il ragazzo – Sono io?

- Oh, no, no, non sei tu. – le venne in mente la scenetta a Villa Borghese, così si chiese se avrebbe dovuto raccontargli nuovamente i suoi tormenti oppure no. Stava per congedarsi quando pensò che, in fondo, se non fosse accaduto quel che era accaduto, probabilmente non avrebbe potuto essersi interrogata in preda alle preoccupazioni, non avrebbe potuto giungere ad un qualche tipo di conclusione – Sai, pensavo che come abbiamo ricordi belli dobbiamo averne anche di brutti, “quella cosa†non elimina i brutti momenti, vero?

- Ah, no. Io credo che tanto i bei ricordi quanto i brutti ci siano cari, in fondo è anche grazie ed essi che siamo ciò che siamo. – essere ciò che si è. Quelle parole suonarono lapidarie nella mente di Elena, spingendola ad affacciarsi su una selva di idee.

- Pensi che siamo noi indipendentemente dal somigliare eccessivamente a qualcuno, quasi dall’essere lui?

- Sì. E’ difficile spiegarlo, ma ci sarà  sempre un qualcosa che ti distinguerà  da quel qualcuno e, finché ci sarà , sarai tu. – il pazzo e la ragazza. Il ragazzo e la dubbiosa. Dennis si chiedeva il perché di quelle domande, voleva arrivare alla radice, ma esitava a chiederglielo: voleva che fosse Elena a comunicarglielo, che fosse consapevole di stare aprendosi a qualcuno, di raccontare la sua storia, per sempre incastonata in quel laghetto.

La ragazza, seppur con una certa riluttanza, non tardò a raccontargli quegli squarci di vita. Si sentiva partecipe, si sentiva responsabile, cercava di rimanere lucido. In lui stava iniziando ad emergere una certa consapevolezza e sapeva di potere essere stato male, ma quella consapevolezza lo portava alla paura e da lì il passo era breve… Cercò di focalizzarti sulle parole di lei, d’altronde, se i suoi mali provenivano dal suo interno, era certo che l’esterno fosse la cura e, si chiese, chissà  che se con “esterno†non si intenda anche l’interno di qualcosa a lui estraneo, le storie che tanto amava, raccontate dalle persone stesse che li scolpivano nel mondo. – Mio padre e mia madre si sono sempre occupati della mia vita, programmandola minuziosamente affinché io seguissi un percorso da loro stabilito, il “miglior percorso che possa esserciâ€. Avevo quella cerchia di amici-ne avevo altri, ma non li vedevano di buon occhio-, dovevo prendere quei voti, dovevo dedicarmi a quelle cose. Di norma facevo tutto ciò che mi veniva detto, a volte protestavo ma finivo per assecondarli. Il brutto accadde quando arrivò il momento di scegliere la facoltà  a cui iscrivermi: i miei genitori furono irremovibili. – stava a sentire le sue parole, chiedendosi nuovamente del suo lavoro, sotto una luce diversa – Studiai le stesse cose che studiarono loro, intraprendendo la loro stessa carriera. Questo è il mio primo incarico, mi sei stato affidato appositamente.

Il ragazzo si rattristì un momento e non poté fare a meno di pensare a quella sua infanzia come a lui sul letto del manicomio, legato con delle cinghie. Non si era mai chiesto se effettivamente lui potesse crearle problemi o, meglio, se lo era chiesto, ma non si era mai soffermato sulla risposta. Era cibo da giornalisti, poteva darle fastidio? Poteva non piacerle? Oltretutto, sapeva di non essere pazzo, ma fino a che punto non poteva considerarsi tale? Aveva avuto un periodo quasi oscuro ed adesso ne stava uscendo, ma Elena come vedeva questo miglioramento? Lo vedeva di buon occhio? La prima volta che la vide era abbastanza timida, ricordava, non parlava molto. Che avesse paura? Forse sì, forse no, ma adesso parlava con lui, quindi doveva esserci stato un miglioramento. La cosa migliore, dal momento che Elena parlava con lui di lei, era chiederle di lui: - Affidato appositamente? In che senso? Sono troppo anomalo anche per questo luogo?

- Tu non sai perché sei qui e non in un altro centro?

- No.

- Vieni, credo sia bene che tu ti risieda sulla panchina, è una storia lunga.

 

Suo padre era morto, il mondo le sembrava crollare. Quando erano entrate nel reparto il medico era venuto loro in contro, scuro in volto. “Siete state avvisate..?†“sì†e si erano dirette verso la stanza: un team di infermieri era accanto al corpo, aspettavano loro per portarlo via. L’aria era pesante, il silenzio di tomba rendeva ancora più difficile la permanenza lì dentro. Elena e sua madre si erano avvicinate al corpo del familiare dandogli un ultimo simbolico saluto prima che questi fosse portato via.

Adesso si trovavano dall’impresario funebre per il funerale. Posti di quel tipo le davano fastidio, le sembrava che la morte fosse vista come una festa con tutti quei fiori e quelle decorazioni e più volte si era chiesta perché si sentisse quel bisogno impellente di onorare i morti in tal maniera, celebrando quei corpi senza vita e rammaricandosi al pensiero che quegli oggetti non potessero più fare né parlare, benché in vita non abbiano a volte mai considerato quelle persone; associava il funerale quindi con un elogio di se stessi, il poter dire “sono bravo e tengo ad i mortiâ€, una sorta di tentativo di espiazione per il rapporto forse non troppo stretto tra il vivo ed il morto, prima vivo anch’esso. Qualora il rapporto fosse stato un bel rapporto non vedeva il bisogno di celebrare così quella dipartita: d’altronde, se si è sempre stati accanto a quella persona, se ci si è preoccupati per lei, per quale motivo si doveva celebrare una cosa simile? Per rendere omaggio proprio a quel loro rapporto? No. Credeva lo si facesse perché si pensava che la morte mettesse fine ad esso, per dare un ultimo abbraccio a quella persona. Elena era del parere che la morte non mettesse fino a niente, che se quella vita passata con quella persona fosse stata un qualcosa di felice, allora si sarà  ancora felici, perché la vita di quei due andava intrecciandosi in un unico cammino ed ecco che uno di essi ancora non era terminato. Quello che la spaventava, semmai, era che anche l’altro terminasse.

L’angoscia che nessuno si ricordasse di suo padre e di lei si faceva sentire, aveva iniziato a pensare che probabilmente avrebbe dovuto conservare la sua vita al meglio affinché il ricordo si conservasse più a lungo, sperando che nell’arco di un bel periodo qualcuno diffondesse quella storia, ma, si diceva, chi è che poteva diffonderla? Nemmeno la sua famiglia lo avrebbe fatto: non conosceva nulla dei suoi trisnonni, quindi per quale motivo i nipoti dei suoi nipoti avrebbero dovuto conoscere lei o suo padre?

L’arrivo del proprietario dell’impresa  funebre la distolse da quei pensieri: un uomo di mezza età  con una barbetta ben curata ma ormai molto prossima all’ingrigirsi. Era un uomo vagamente familiare, doveva averlo visto sicuramente da qualche parte, ma non ricordava dove.

- Benvenute, - le accolse – siete qui per il signor Verdi?

- Sì, è tutto pronto? – gli chiese sua madre. La vedeva: era sconvolta. Aveva un paio di occhiaie terribili che nemmeno la montatura spessa dei suoi occhiali riusciva a nascondere.

L’uomo annuì. – So che è difficile, mi creda, anch’io recentemente ho avuto una grande perdita… - condusse la donna verso una bara.

- Ho saputo di quanto le è successo, condoglianze signor Rossi. – si avvicinò alla bara e le diede una rapida occhiata raggelando nel mentre.

- Suppongo che avrà  saputo dell’impresa dal telegiornale. – cercava di ironizzare, ma evidentemente anche quell’uomo era a pezzi. Adesso che ne stavano parlando le tornò alla mente quell’uomo: la sua famiglia era morta in un grave incidente stradale – Sa, la cosa peggiore è stata dover occuparmi di loro… Per la lapide avevamo deciso questa foto?

La donna annuì. – Ammetto che in effetti ho sentito della sua impresa dalla televisione, spero che non me ne voglia. Speravo che non saremmo dovute venire qui così presto, sa, mio marito era già  malato quando si diffuse la notizia.

- Cosa ha avuto, se mi è permesso chiederglielo?

- Era malato di cuore, lo avevano già  ricoverato diverse volte, ma alla fine non c’è stato nulla da fare. – vide sua madre incupirsi ed affondare lo sguardo nella bara, quasi volesse esserci lei lì dentro – Era un brav’uomo, non abbiamo mai avuto un litigio ed abbiamo sempre lavorato insieme.

L’uomo le sorrise, sforzandosi di rendere meno triste l’atmosfera-non che il negozietto di un becchino fosse allegro, sia chiaro. Se lo facesse per non cadere a sua volta in uno stato di tristezza o per sollevare sul serio il morale a lei ed a sua madre non lo sapeva, di lui sapeva solamente che non doveva stare tanto meglio di loro, avendo perso il figlio. – Vi siete conosciuti durante gli studi, suppongo.

- Suppone bene, ci siamo conosciuti all’università . Quando ci siamo sposati abbiamo deciso di aprire un centro.

- Un centro? Di che tipo?

- Igiene mentale, è sempre stato il sogno di mio marito aiutare le persone a trovare loro stesse. – all’uomo si illuminarono gli occhi, era visibilmente sorpreso.

- Qui a Roma?

- Sì.

- Ecco, mi dispiace se adesso le sto raccontando queste cose quando probabilmente vorrebbe solamente chiudere questa storia, ma, vede, mio nipote, Dennis, non sta molto bene. Non so quanto i giornalisti si siano spinti oltre e se lei lo sappia, ma Dennis ha sofferto incredibilmente questa enorme perdita e non ne è più uscito. Io non avevo né le forze né le capacità -e non ne ho tutt’ora-per aiutarlo, così lo portai in un centro come il suo, ma sono successi diversi problemi e sono costretto a spostarlo urgentemente, tuttavia non so dove portarlo e non vorrei ripetere un ulteriore errore. Mi piacerebbe che qualcuno se ne prendesse cura, deve essere curato.

La donna non batté ciglio. Guardava l’uomo e lo compativa, sapeva che doveva essere aiutato, doveva farlo, per lei, per suo marito, per il loro sogno. Elena rimase a guardare, attendeva la risposta della madre. - Ho sentito, so anche che al momento c’è un’inchiesta in corso per quanto accaduto. Quel posto è stato un vero scandalo. – la donna estrasse un biglietto da visita dalla borsa e glielo diede – Tenga, mi richiami.

 

Era seduto sul letto, guardava fuori dalla finestra. Dopo aver udito il racconto di Elena si era ritrovato di fronte ad uno scoglio: era il caso ad averlo voluto lì od era destino che succedesse? La sua famiglia non c’era più e per via di quanto successo  la madre di Elena conobbe suo zio e per questo adesso si trovava lì. Sapeva perché era lì, come era lì, ma questa genesi della scelta gli era sconosciuta, credeva all’inizio che la sorte avesse voluto aiutarlo, quando pensava che Elena fosse Sofia, successivamente era passato ad identificare la sorte come puro caso ed adesso era lì, a rimuginare sul destino. Aveva incontrato Elena, era stato portato lì ed aveva iniziato a comprendere perché la sua famiglia era morta. Era una cosa positiva? Se la sua famiglia non fosse morta sarebbe stato meglio ma avrebbe condotto una vita alquanto piatta. Se la sua famiglia fosse morta e non fosse accaduto quel putiferio alla televisione suo zio non si sarebbe stressato al punto tale da vivere come se fosse prossimo alla morte, ma probabilmente sarebbe ancora nel vecchio centro od in qualsiasi altro. Adesso, che tutte e due quelle cose erano accadute, si ritrovava sempre un poco triste-e per quanto fosse possibile pensare positivo era innegabile che ogni tanto una piccola scintilla di malinconia potesse spuntare, l’animo umano era fatto così-ma aveva appreso una lezione importante e stava conoscendosi meglio, stava acquisendo una consapevolezza che prima dell’incidente non pensava fosse necessario possedere perché era lui e che dopo l’incidente aveva del tutto smarrito e non pensava nemmeno esistesse. Sospirò.  Consapevolezza.

Quella consapevolezza sfortunatamente comprendeva la consapevolezza di essersi illuso di stare bene. Quella consapevolezza era la consapevolezza di essere ancora in dubbio. Quella consapevolezza era a lui cara ma al contempo era la sua più grande paura. Perdersi, perdere se stesso era la cosa peggiore a cui gli uomini dovevano badare, non preoccuparsi della morte. C’era qualcosa di peggiore del vivere senza essere? Si era, si era, ma chi si era? Cosa si viveva? Era una vita “sprecataâ€? Una vita volta a vivere ciò che non si era, ciò che si credeva si fosse, era vivere una vita che non ti apparteneva, che trovava il suo perno in un’altra esistenza e che per questo motivo in te era solamente un qualcosa di vago e poco accennato. Era stata quindi una cosa giusta definirlo “pazzoâ€? Magari lo era, era vero, ma chissà  che la sua prospettiva non fosse alterata da sé, chissà  se vivere fingendo non fosse la cosa migliore… O chissà  se era portato a pensare queste cose proprio perché stava male. Che in realtà  stesse peggiorando? Che suo zio avesse fatto bene ad informare quelle persone? E se invece stesse meglio che mai e si stesse ponendo quelle domande proprio per quella consapevolezza? Cosa doveva fare, pensare?

Si buttò sul letto, voleva smettere di pensare quelle cose. I miscugli mentali gli impedivano il riposo, quella notte l’aveva difatti passata in bianco. Era giovane, una ventina d’anni, ma le occhiaie lo invecchiavano donandogli anche un aspetto malaticcio. Malaticcio. Ed anche qui continuava a tormentarsi. Che fosse un tormento a fin di bene non lo sapeva, tuttavia l’unica cosa che in quel momento voleva fare era liberarsene. Forse il fatto di non comprendere fino in fondo la natura di quel tormento era indice di quanto ancora non fosse consapevole fino in fondo. Guardò il soffitto: bianco. Gli tornò alla mente il soffitto scrostato dell’altra struttura. Ne era passato di tempo. Era passato del tempo anche dalla sua ultima uscita. Voleva lasciarsi alle spalle tutte le preoccupazioni, girare il mondo zainetto in spalla, soffermarsi ad ammirare il panorama, conoscere cosa quel luogo poteva raccontargli. Voleva vivere di storie, sarebbe stato felice, oh sì, non importava stare “bene†oppure no, voleva scappare, correre senza pesi. Voleva conoscere nuove persone, sapere le loro storie e scrivere un libro su quel mondo così poco considerato, voleva proprio raccontarlo, sì, voleva raccontare il mondo… A che pro pensavano gli altri? A che pro pensate che non ci sia uno scopo? Era quello che lui si domandava. Vite che pensavano di ingrigire vanificandosi, fatti che pensavano di divenire mito per poi tramontare, cieli che minacciavano di crollare… Perché? Perché? Perché? E cosa ne poteva sapere l’uomo di adesso dell’uomo futuro? Qualcuno pensava che a lui non importasse sapere, qualcuno pensava volesse farlo, d’altronde come potevano loro criticare quelli che volevano sapere se anche quegli stessi che criticavano lo volevano? Conoscere il mondo, conoscere le sue storie, essere consci di quanto accaduto, accade ed accadrà , sapere che l’umanità  così come questa bella vita ha sempre un qualcosa di nuovo con cui stupirci, di non lasciare che quella rete minimalista li catturasse selezionando accuratamente cose e persone. No! Avevano tutti importanza per lui! Quale sublime forza poteva eguagliare la bellezza di una così grande varietà  d’ambienti? Quale perfezione era più bella di quell’ammasso di cose disomogeneo? Perché in fondo, si disse, non era quella diversità  malevola ed affascinante a rendere interessante quel posto? Non erano tutte quelle opinioni disgreganti a costruire storie sempre diverse? Non erano tutte quelle storie a permettere a quel pizzico di allegria di sanare conflitti interni? Non era quell’ovvio essere speciali a permetterci di soffermarci un attimo a pensare e dire “è qualcosa che si ripeterà  sempre, che mi accompagnerà  sempre, che è meâ€? Non è forse quella peculiarità  sempre presente ad esser felicità , sempre presente anch’ove non la si vede?

E così si alzò, ammirò quelle nubi pronte a lacrimare e ringraziata quella sana ora di riflessione pensò di fare ciò che stava rimandando forse da troppo tempo.

 

Parte IV – Il Sole

 

Pensò di fare ciò che stava rimandando forse da troppo tempo. La conversazione con Dennis era arrivata ad un punto di non ritorno ed era stata spinta dalle parole di lui-e dalle sue stesse parole-a chiudere questa storia, così era ora diretta a parlare con la madre. Il corridoio le parve infinito, infermieri e pazienti che le passavano dinnanzi non l’aiutavano a scrollarsi di dosso tale opprimente sensazione.

Quando arrivò alla porta dello studio rimase a meditarvici per almeno cinque minuti, ignara che chiunque passasse la guardasse con una certa nota di disappunto. Muoversi o no contava poco, l’unica cosa che doveva fare non era tanto varcare la soglia ma convincersi che sarebbe uscita nuovamente da quella porta. Appoggiò la mano sulla maniglia, fece un lungo sospiro ed entro senza bussare.

Sua madre era seduta alla sua scrivania, di fronte a lei vi era un uomo: il signor Rossi. Quando entrò essi immediatamente posarono lo sguardo su di lei che tuttavia non disse nulla, si limitò ad osservare un calendario appeso alla parte ed a procedere verso di loro. I due avevano la stessa espressione che trasudava visibilmente fastidio.

- Ho bisogno di parlarti. – chiese alla madre.

- Non vedi che sono nel bel mezzo di un colloquio? Per favore, torna più tardi.

Elena scosse la testa, era decisa a chiarire la situazione. – E’ una cosa importante e confido che anche al sg. Rossi non farebbe male ascoltare.

- Edna, - disse l’uomo rivolto alla donna – cosa sta succedendo? Mio nipote ha forse dato altri problemi? – Edna. Edna Morelli. Elena rabbrividì al pensiero che quell’uomo potesse avere chiamato sua madre per nome. Se quei due avessero iniziato a stringere un certo rapporto non lo sapeva e non era una cosa che pensava la riguardasse, ma che lo avessero fatto coinvolgendo lei e Dennis non le piaceva, perché quello era uno sfruttamento, sì, lo era. Dopo un’attenta analisi era giunta ad una conclusione: entrambi volevano allontanarsi e ciò che stavano facendo conveniva loro in quanto il nipote di Rossi sarebbe rimasto lì da lei che avrebbe anche iniziato ad occuparsi del centro. Quale meschinità ? Quale egoismo? Quale tristezza? Compativa quei due ma non approvava: curare il proprio dolore con la vita altrui non era di per sé deplorevole-era una cosa perfettamente naturale-, la vera oscenità  era farlo sapendo che il metodo per curare tale ferita era quello peggiore e che ad esso vi erano altre valide alternative.

- Suo nipote non ha dato problemi, sg. Rossi. Io credo che il problema sia un altro ma che nessuno dei due voglia ammetterlo. Madre, il tuo ideale è fallace. Il sogno che pensi di stare perseguire non è quello che ti sei posta dal momento che voi due non state aiutando nessuno. Chi necessita di aiuto siete voi.

- Cosa va blaterando? – domandò l’uomo, scocciato – Pensavo che lei fosse una dottoressa.

- Lo sono.

- No, Elena, cosa stai dicendo? Queste non sono cose che ti sono state insegnate.

- Queste non sono le cose che tu vuoi sentire, è diverso. Ci ho riflettuto: chiederò al giudice che, a seguito di quanto visto e riportato, Dennis torni a casa propria. – si rivolse all’uomo – Suo nipote non sta male, è semplicemente lei che non ha intenzione di accettare le cose come stanno, Dennis lo ha fatto. Quanto a te, - si girò verso la madre – a te fa comodo che io sia qui. Vuoi continuare il sogno di papà  delegandolo a quella che pensi sia la tua copia.

Edna era adirata, guardava la figlia stringendo convulsamente la penna tra le mani. Aveva colpito dritto al centro? Sembrava di sì. Per un attimo si sentì risollevarsi di tutti quegli anni passati a vivere una vita spenta, elevarsi in un tripudio di parole sopra una marea di fittizi manichini con la montatura spessa… Ma per quanti secondi ancora sarebbe durata quella soave sensazione? Si sentì librarsi nel vuoto, accompagnata da una schiera di calde nuvolette che mano a mano divenivano sempre più fredde sino a scomparire… AH! In quel momento cadde! Cadde nel vuoto e caddero le sue convinzioni, proprio in quel momento in cui la madre le chiese “e perché tu non riesce a smettere di pensare a tuo padre? E’ forse sbagliato che io ripensi a lui? Non è più qui con noi, cosa ci rimane di lui?â€.

- Non si può non sentirsi tristi al pensiero, ciò che vaneggia mio nipote non è cosa che è bene venga ascoltata.

- Suo nipote sta bene, mi creda…

- E’ stato Dennis a dirti questo, Elena? – quello di sua madre era un tono di rimprovero, era evidente che quei due non concordassero, come era evidente che pensavano che quanto appena detto fosse frutto di una delle crisi del ragazzo – Quel ragazzo continua ad avere delle ricadute, pensavo fosse ovvio che ciò che dice è frutto di una visione abbastanza distorta, d’altronde non ti ha chiamato Sofia per diverso tempo?

- Non è così.

- E come dovrebbe essere? Figliuola, io non sono un dottore, ma nonostante il tempo passato Dennis continua a nutrire un attaccamento morboso nei confronti del pensiero della famiglia. Non è libero, non se ne rende conto.

Vacillava. Quell’attaccamento… Se lo ricordava, ricordava che aveva pensato che un attaccamento potesse essere la causa di tutti quei pensieri strani. Niente, l’attaccamento. Avevano ragione? Ed ecco che i dubbi la assalivano nuovamente.

- Io… Posso dimostrare il contrario. Lo porterò qui. – quelli annuirono, non avevano paura. Usci frettolosamente dallo studio con un’espressione che trasudava indecisione da ogni dove. Attraversò la struttura fino a ritrovarsi di fronte alla porta della stanza del ragazzo. Bussò, ma niente. Aspettò un po’ dopodiché ritentò, ma anche qui nulla, così decise di entrare: la stanza era vuota, perfetta, il bagno anche era vuoto. Uscì così da lì e chiese agli infermieri: “è fuori in giardino, ha chiesto il permessoâ€.

E così uscì, ma fuori non lo trovò.

 

Di zaini con sé non ne aveva, era uscito solamente con una manciata di sogni. Non si era portato nemmeno il giubbetto ma, a discapito delle persone che passeggiavano avvolte in pellicciotti, stava bene con quell’arietta che gli veniva in contro sulle braccia, chissà  se quello quel fuoco di passione che gli ardeva dentro non lo riscaldasse dall’interno. Al momento non aveva una meta precisa, tutto il suo viaggio era una meta dopo l’altra, ma era desideroso di fare un ultimo salto da una parte prima di lasciare la città  eterna… Ed eccolo lì, di fronte al Tempietto di Diana.

Perché era tornato a Villa Borghese? Era lì dove per la prima volta si era reso conto che qualcosa non andava e lì, adesso, doveva, voleva lasciarsi alle spalle quella storia: aveva fatto una scelta. Era pazzo? D’accordo, poteva anche essere, ma oh no, no, non avrebbe rinunciato a quel suo viaggio! Era deciso a portare a termine l’obiettivo prefissatosi e, una volta fatto, continuare a vivere alla luce di quello. Alzò lo sguardo: il soffitto composto da tanti piccoli cerchi attorno ad uno più grande ricordava i pianeti attorno al Sole, gli uomini in attesa della felicità . Perché era andato lì? Si chiese. Continuò ad osservare il soffitto: le scene di caccia. Cercava forse qualcosa, che non fosse l’unico a farlo? Sì. Che l’avesse trovata, che volesse parlarne?

 

Scappato! Scappato! Dov’era andato? Girava frettolosamente nel cortile, doveva trovarlo, doveva parlargli. La sua fiducia in lui le sembrava stare scemando, nuovamente era sopraffatta dalla madre. Perché se n’era andato? Dove pensava di andare? Alcuni poliziotti erano lì, parlavano con sua madre e lo zio di Dennis. Che fare, che fare? Si chiedeva. Dove andare? Dove mai sarebbe potuto andare in così poco tempo, a piedi ed ancora un po’ sfiancato? Minacciava anche di piovere e non si era portato nulla appresso, che intenzioni aveva? Un gelido pensiero le attraversò la mente… Suicidio? Smetterla di essere per smettere di folleggiare? No, no, che motivo ne aveva?

Ripercorse mentalmente le conversazioni fatte con lui nella speranza che le venisse in mente un qualsiasi luogo: Trastevere? No, troppo lontano. Ponte Milvio? No, probabilmente non sarebbe tornato lì in un momento simile. Che fosse allora andato al Ponte Flaminio? Era altamente probabile, d’altronde ricordava avesse espresso la volontà  di ritornarci. Non disse niente a nessuno, non proprio almeno, si inventò che avrebbe aiutato chiedendo nei dintorni, così si diresse verso la macchina e montò in vettura. Doveva? Si chiese. Era il suo compito, no? Sì, ma così avrebbe dato ragione alla madre. Cosa avrebbe fatto? Era alla fine un vero giro di perlustrazione quello lì? Probabilmente, si disse, sarebbe andata a trovare un amico, null’altro. Dettosi questo inserì la chiave e scomparve oltre l’entrata del centro.

 

Seduto sugli scalini, ecco dov’era. Intento a guardare il cielo con occhi sognanti, quasi non si accorgesse che fosse una distesa grigiognola, attendeva. Cosa attendeva? Oh, beh, quello non poteva dirlo, attendeva e basta. Ogni tanto vedeva passare qualcuno, poi lo rivedeva nuovamente un po’ di tempo dopo: se ne andavano, ogni tanto dalle nubi cadeva qualche gocciolina solitaria. Quel tempietto in quella piazzuola verde era posto a mo’ di divisorio artificiale tra le varie viuzze che poco più in là  andavano diramandosi, in particolare era la tappa obbligatoria di chi si dirigeva a sinistra di una delle strade principali che aveva il suo ingresso non molto distante da quello del Bioparco. Non sapeva perché molti passavano per il tempietto e non accanto ad esso, forse era casualità  o forse anche loro vi avevano visto qualcosa di interessante, quel che sapeva era che lui, quand’era piccino, si fermava sempre lì sotto ad ammirare il soffitto, senza apparente motivo. La verità  era che quel tempietto era maledettamente affascinante, vecchio ed incredibilmente nuovo allo stesso tempo. Come si faceva a non innamorarsene? Quel tempietto che se ne stava lì dopo quella mezza salitella, sembrava quasi segnasse un traguardo: quando lo si vedeva significava che si stava quasi arrivando a quel posticino con i cavalli che da bambino tanto gli piaceva… Che fosse per quello che lo vedeva come tappa obbligata? E gli altri? Non ne aveva idea, tuttavia aveva comunque modo di chiederlo a qualcuno che non fosse lui…

 

Cercava di tenere le mani incollate sul volante, ma le incertezze erano troppe affinché stesse perfettamente ferma. Non avrebbe dovuto guidare, lo sapeva, in quelle condizioni non avrebbe dovuto farlo almeno per rispetto di Dennis, ma era impossibile prestargli aiuto diversamente. Svoltò per una stradina e si immise sul lungotevere Thaon di Revel per poi svoltare sulla destra e salire sul ponte. Procedette piano nella speranza di vederlo, ma l’unica cosa che trovò fu un paio di suonate di clacson, così decise di fare il giro e prenderlo per l’altro senso: svoltò appena possibile e d nuovo fu sul ponte. L’asfalto scuro contrastava egregiamente il travertino che rivestiva la struttura, al contempo lavando quasi via quelle scritte occasionali che qualche teppista si metteva a fare. Com’era vero che quelle scritte sembravano cancellarsi, era anche vero che non riusciva a scorgere la sagoma di Dennis. Appena possibile si fermò.

In quale altro posto sarebbe potuta andare? Dove Dennis sarebbe potuto andare? Si appoggiò al sedile, mani alle tempie. Dennis, Dennis, cosa volevi fare Dennis? Dove te ne stavi scappando? Possibile che tu non abbia voluto lasciar nessun riferimento? No, tu non potevi essere ritornato a quello stadio… O forse c’eri sempre stato? Poggiò la testa al finestrino, esausta benché fosse passato relativamente poco tempo. Era in auto, Dennis era fuori. In un certo senso le veniva quasi da ridere. Che stesse sviluppando una sorta di psicosi anche lei? No, no, lo escludeva, ma doveva pur ammettere che si trovava di fronte ad uno scoglio che non riusciva a superare. Vedendosi riflessa nel finestrino iniziò a fantasticare per la disperazione: come sarà  in un futuro prossimo? Sarebbe arrivata a quel futuro procedendo di quel passo? Avrebbe varcato la soglia del domani finendo in un remoto tempo lontano? Come sarà ? Si chiese se non avrebbe fatto la fine di sua madre, si chiese se sarebbe arrivata a sua madre… E suo padre? Oh, quel padre che tanto aveva rivangato nel corso di quegli ultimi tempi… E dopo un momento si fermò. Illuminazione! Quale idea! Quale malsana e geniale idea! Dov’è che aveva pensato a suo padre, dove con Dennis avevano iniziato ad esplorare quel fiume?

 

- E così eri qui.

- Esattamente.

- Perché qui?

Era davanti al Tempietto di Diana a Villa Borghese. Quando le venne in mente dove potesse essere aveva impiegato un po’ a trovarne l’ubicazione precisa, ma alla fine erano di nuovo lì, l’uno di fronte all’altro, nello stesso parco. Il motivo che lo aveva spinto lì le era ignoto, non sapeva nemmeno se ascoltarlo o chiamare subito qualcuno. Dennis dal canto suo sembrava aspettarsi la sua visita, anzi, probabilmente la stava proprio aspettando dal momento che fino a qualche attimo prima se ne stava seduto sui gradini. Era rilassato, era forte, era convinto… Ma quella convinzione da dove proveniva?

- Ultimamente ho riflettuto molto ed alla fine ho deciso che sia meglio che vada. – si appoggiò alla struttura – Prima però volevo salutare.

- Bene, - il tono di Elena era pervaso da una nota di incertezza – allora te lo richiedo nuovamente: perché qui?

- E’ un luogo che conosciamo entrambi, è un luogo speciale per un momento speciale.

- Non credo te ne andrai, sappilo. – Dennis fece spallucce. Andarsene non era forse quello che voleva?

- Ho già  una vaga idea di ciò che ti hanno detto. Cosa pensi sia vero e cosa falso?

- Avevo pensato di darti ragione, ma penso di dovere ritirare questo pensiero.

- Come fai a ritirare un pensiero? Ormai lo hai pensato, no? – posò lo sguardo su una pozzanghera ed Elena lo seguì a ruota. Pensare, non volere. Cosa voleva lei? Voleva che Dennis tornasse a casa o che tornasse al centro? Voleva liberarsi da quel giogo o no? Voleva mostrare una via diversa a sua madre oppure no? – Devo parlarti e devo mostrarti una cosa. – mostrare. Ecco quel termine. Era diversa da lui? Stava bene o doveva mostrare anche lei qualcosa? O no? O poteva non farlo e farlo indipendentemente da come pensasse che fosse? Ascoltare, andare. Quale strada?

Sentì un qualcosa di bagnato rigarle il volto, ma non erano lacrime, no, stava pioviccicando. Il ragazzo era in silenzio, continuava a guardare fisso verso la pozzanghera ed Elena nuovamente fece altrettanto: il suo volto, riflesso ad i suoi piedi. Era anch’esso distorto come l’immagine del laghetto, questa volta per via di quella patina fangosa che lì si era depositata. Era un brutto volto, pensava, sembrava dilaniato dai segni del tempo. Sentì un ticchettio di passi calpestare il terreno ed ecco che si vide Dennis di fronte a lei, concentrato sul viso.

- E’ bello?

- No. – rispose.

- Perché pensi sia brutto?

- Il fango. Lo rende brutto, lo distorce. Questa non sono io.

- No, difatti non lo sei.

- Come fai ad esserne così sicuro?

- Ti conosco ormai, conosco il tuo viso, tu non sei così, come so che probabilmente non pensi ciò che ti hanno detto, però non posso dirtelo io, devi farlo tu. Guarda nella pozzanghera, specchiati e dimmi se sei tu. – sbuffò. Guardare una pozzanghera. Come poteva essere una cosa futile un qualcosa di così importante? Che il mondo si rovesciasse? Che allora fosse vero che la pazza lì era lei? Guardò la pozzanghera: continuava a vedere il suo volto. Non vedeva colori, vedeva una vaga immagine, in effetti decifrarne l’identità  sarebbe stato arduo se non avesse saputo chi era che guardava la pozzanghera, già . Continuò a guardare quel putridume: la guardava o la fissava e basta? Magari non era lei a guardarla, magari era Dennis… Magari i colori ed i contorni erano quelli di Dennis… Chi guardava la pozzanghera? Erano Elena o Dennis oppure c’erano altre persone? Si chiese se quella nella pozzanghera allora non fosse qualcun altro: sua madre. Nuovamente qualcosa rigò il viso della ragazza e scese fino ad infrangere l’immagine riflessa, cancellandola per poco: era una lacrima.

- Nessuno in particolare. – disse a bassa voce – Nessuno in particolare. – ripeté. Ed in effetti nessuno era identificato in quell’immagine, perché essa non catturava niente se non il cambiamento, così, si domandò, che quello fosse il cambiamento di lei? Ma allora non era destinata ad un’unica strada, ma allora poteva divenire altro, ma allora poteva aver ragione! – E’ vero. – adesso aveva un tono stabile – Nessuno.

- Se è vero questo allora sei disposta ad ascoltarmi?

- Sono disposta, ma sappi che ciò non implica che tu abbia ragione. Non avrai mai ragione, forse. – il ragazzo sorrise. Non si curava della pioggia e del freddo, stava ritto davanti a lei. In quel momento le parve diverso, le parve rinato così come era rinata quella nuova lei, quella che si era fatta strada tra la madre ed i sogni persi, quella che era vera e che non poteva essere altro.

Le porse un foglietto tutto stropicciato scritto da una mano leggermente tremolante. – E’ tuo? – gli chiese, ma quello scosse la testa.

- E’ un estratto da un libro che mio nonno ha scritto. Vuoi sapere cos’è il Sole? – Elena non disse altro, si mise a leggere il contenuto:

 

“Ama e vivi il mondo, ama la bellezza di ogni cosa che la vita mette insieme per formare visioni sublimi, ama la natura e vivi la città  e le storie che queste raccontano: sappi che ogni storia è un qualcosa di unico ed inaspettato, un viaggio, una mappa di se stessi e del mondo. Non temere che sarai lontano dalla tua casa, tutto è casa tua, il Sole sarà  sempre con te, costante come costante è la felicità . Qualora non dovessi vederlo non disperare, ci sarà  sempre una strada per arrivare a lui.â€

 

Le venne un tuffo al cuore. Da quant’è che aveva quel foglietto? Era stato scritto da suo nonno, suo nonno era l’origine, la causa legante di tutte quelle piccole cose strane. Percorse all’indietro ciò che era successo, ciò che si erano detti e rivangò quello che aveva pensato. Era rimasta ferma, impalata con Dennis che guardava il cielo. Istintivamente anch’ella alzò lo sguardo: dei piccoli fasci di luce andavano diramandosi nel cielo come i rami degli alberi lì vicino, avvolgevano le goccioline di pioggia e tingevano quell’infinita cupola di diverse sfumature dando vita ad un vero e proprio sentiero di colori. Probabilmente perse un battito, rimase incosciente per un secondo, qualcosa le accadde perché non solo aveva capito cosa veramente era e poteva essere, ma perché aveva capito che quello non era un attaccamento, no: quello era un ricordo, un piacevole pensiero che diceva “non ti abbiamo mai lasciato, viviamo con te, siamo teâ€. Istintivamente ripensò al padre e socchiudendo gli occhi si disse che probabilmente quel cammino non sarebbe mai cessato, che sarebbe per sempre rimasto cristallizzato da qualche parte.

Tutti i dubbi si sciolsero sotto quella pioggia di Sole, tutte le ansie svanirono e nella sua mente si fece largo una sola cosa: serenità .

- Seguirai la tua strada?

- Sì.

 

Parte V – Passi e polvere

 

Un cielo terso con qualche uccello, un sole splendente. Era finita, quell’epopea chiudeva loro le porte per mostrargli un nuovo sentiero. Un sospiro di sollievo e qualche lacrimuccia accompagnata da un sorriso e finalmente si erano ritrovati fuori dal tribunale, liberi. Quello dopo l’incontro al Tempietto di Diana era stato un periodo teso ma Elena non aveva smesso di inseguire quelle sue ritrovate speranze, così, trepidante, aveva pensato di ricordare quella partenza ringraziando colui che era riuscito ad aprirle l’occhio che fino a quel momento aveva tenuto chiuso in attesa di “ordini†materni. Il suo non era un regalo, no, il suo era l’ultimo dovere impostole e la prima tappa che lei stessa si prefissò per il suo viaggio. Non nascondeva che quel cammino fosse stato intrapreso con una leggera fatica, specialmente nel momento in cui il giudice prese in considerazione l’idea che una persona in fuga non dovesse stare bene, ma, a seguito di un’attenta perizia psichiatrica condotta da estranei alla faccenda, anch’egli dovette ricredersi. Non le era parso vero-ed a Dennis era parso ancor meno vero che a lei-ma quando udì la sentenza non poté fare altro che lasciare la gioia ad impadronirsi del suo cuore.

Adesso era davanti alla porta dello studio della madre; entrò decisa: la vide affacciata ad una finestra, pensierosa. Stringendo quella poesiola in bella calligrafia tra le mani le mise una mano sulla spalla, pronta a continuare quella famosa conversazione.

 

Mentre la ragazza stava chiarendosi con la madre Dennis aveva uno zainetto in spalla e camminava verso la stazione. Era su un bel ponte dalla strana ideazione, custodito da belve e metallo semovente. Lo attraversò a passo adagio ed una volta arrivato alla fine di questo si voltò dando un ultimo sguardo al luogo ove un giorno si rincontreranno per un gran bel racconto.

 

Merito tanti insulti, lo so : D

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Nome Autore: BloodyRose258
Titolo: Self-Destruct
Elaborato: 

Solitamente la mattina ci si alza con tanti buoni propositi per il giorno appena arrivato, eppure non era così per Ashley Moore. Un giorno valeva l'altro, da quando l'oscura nube dei problemi aveva preteso di entrare nella sua giovane vita e sembrava averci preso gusto a rovinarle tutto.

Tutto era cominciato con il lavoro, quell'infausto pomeriggio del 13 Maggio.

Per quanto avesse ancora qualche difficoltà  a mantenere un ritmo costante in azienda - fra la gestione degli appuntamenti, lo smistamento dei numerosissimi documenti nei vari archivi e uffici e l'immancabile assistenza ai clienti - ce la metteva tutta per imparare a fare bene quello per cui era stata assunta. Le piaceva quella posizione, piena di responsabilità  e precisione: tutto doveva essere in perfetto ordine, sia nella sua mente che nelle scrivanie dei suoi superiori, e questo la dava una piacevole sensazione di controllo che poche cose possono fornire. Oltretutto, era anche molto abile nell'ottemperare a precise richieste e nel rispettare le scadenze.  Quest'innata abilità  le era valsa molti complimenti dal datore, e anche molta invidia da parte delle colleghe che speravano e pregavano perché Ashley facesse un errore.

Sino a quel giorno tutto era ordinario, la sua vita cominciava ad ingranare dopo tante disperate ricerche e sacrifici. Tutti sino alle 18:30, quando il telefono interno del suo ufficio non squillò e lei alzò la cornetta tutta trafelata per non far cadere la cartelletta coi documenti che teneva stretta fra le braccia. Dall'altro capo era in linea Mark Davies, l'uomo che le aveva fatto ottenere quel lavoro e che non faceva che ricoprirla di ammirazione per l'impegno che metteva in ogni cosa. Voleva che andasse nel suo ufficio una volta finito il turno, il che voleva dire all'incirca per l'ora successiva. Convinta che si trattasse di un altro incarico, sorrise e confermò d'aver recepito il messaggio. Quando ebbe terminato il suo turno si presentò all'appuntamento, e quello che successe la sconvolse: il signor Davies la stava licenziando, e quel che peggio per far posto in azienda a quell'incapace della nipote. Sembrava mortificato nel comunicarglielo, ma l'umiliazione era tutta per Ashley che mantenendo un atteggiamento signorile rispose d'aver capito e si congedò non dando sazio all'uomo di vedere la delusione e la rabbia che presto avrebbero deturpato l'aspetto sorridente del suo volto. A quest'episodio, s'era aggiunta la malattia della madre ch'era l'unico affetto che le era rimasto. Sembrava peggiorare di giorno in giorno, e nessuna medicina o terapia pareva avere effetto benefico: il cancro la stava consumando, eppure lei rimaneva li col sorriso a ricordarle quanto il suo arrivo nella sua vita era stato un momento di immensa gioia e che era stata fortunata ad essere stata scelta per prendersi cura di una figlia come lei. Per quanto non fosse sua madre naturale, il legame che le univa era forte e vederla in quelle condizioni feriva Ashley nel profondo. Non era pronta a lasciarla andare, a rimanere sola e affrontare il dolore della perdita.. eppure quel terribile momento arrivò con estrema violenza a sconvolgerle quello che era rimasto intatto della sua vita. L'unico appiglio era rimasto il suo uomo, quello che avrebbe dovuto stargli accanto per confortarla e che gli aveva promesso di farla sua. Le aveva regalato l'anello di fidanzamento il giorno dopo aver preso il lavoro, e lei aveva subito detto di si al settimo cielo.. ma lo sconvolgimento nella sua vita non era ancora terminato e pareva essere un'onda che la ghermiva e sbatteva ripetutamente contro dolorosi scogli aguzzi. Non soltanto non ebbe a pieno il conforto di cui aveva bisogno, ma da li a poco scoprì che l'uomo che amava in realtà  la tradiva già  da tempo con una collega di lavoro. Quel suo cuore già  provato dalla perdita della madre e dalla sfiducia di riuscire a trovare nuovamente un lavoro soddisfacente e remunerativo ricevette il colpo di grazia quel giorno, mentre al ristorante l'aspettava per quella cena romantica. Lui non arrivava, e spazientita lei l'aveva chiamato al cellulare per capire dove diavolo fosse. Si ripeteva che non era nulla, che sarebbe apparso oltre la porta prima che prendesse il cellulare.. ma sentiva già  puzza di bruciato in quella faccenda. Quando finalmente prese la chiamata - dopo un'infinità  di squilli - un tono trafelato e tante scuse, condite da una voce femminile di sottofondo che l'invitava a riattaccare. L'aveva sentita chiaramente, mentre lui continuava a chiederle scusa avvisandola che sarebbe presto arrivato. Senza forze riattaccò il telefono, incredula.. e quando arrivò pareva essere una bambola di porcellana senza personalità . Non ebbero nemmeno il tempo di ordinare, che bastò una parola da parte dell'uomo sul loro matrimonio che lei scoppiò d'ira e gli inveì contro con tutta la forza che aveva in corpo. Non ce la faceva più, e quello sarebbe stato l'ultimo torto subito. A nulla valse il tentativo dell'uomo di calmarla e di farla ragionare: con un ceffone fu Ashley a sancire la fine della loro bugia, sfilando poi fra i tavoli con quel suo elegantissimo abitino nero da sera e i lunghi capelli color caramello che ondeggiavano sulla schiena. Demoralizzata e in lacrime, cercò in tutte le maniere di ricomporsi e d'istinto si intrufolò nel primo pub. Non aveva più voglia di fare nulla, non aveva più speranze per il futuro: che senso aveva vivere per quella vita felice che qualcuno aveva deciso di distruggere con tanta sofferenza? Si sedette sul bancone del bar, mentre la musica tamburellava e faceva fremere il suo cuore mal ridotto. Accanto a lei dei perfetti sconosciuti.. una coppia intenta a baciarsi appassionatamente e un uomo che si gustava la sua tequila. Al barista ordinò qualcosa di forte: doveva dimenticare. Fu così che Ashley Moore - ragazza piena di sogni e speranze - si diede all'alcool, al fumo e ai suoi tanto odiati flirt occasionali.

Da quell'infausto pomeriggio la sua vita era radicalmente cambiata. Non si fidava più della gente, non si fidava più del futuro roseo che gli amici cercavano di dipingergli davanti agli occhi.. vivere non aveva più senso.

 

A cosa sta pensando?

 

Quel castello di pensieri scomparve con la stessa velocità  con cui s'era costruito nella sua mente, mentre il fumo dell'ennesima sigaretta le riempiva le narici oramai assuefatte e il bicchiere mezzo vuoto dell'aperitivo - rigorosamente alcolico - giaceva accanto a lei. Non s'era nemmeno accorta che non aveva toccato una singola patatina, o uno stuzzichino, da quando era arrivata l'ordinazione.

 

Nulla.. come potrei, se ogni giorno si ripete uguale? Mi sveglio nel mio letto con un gran mal di testa e tutto il giorno vago come uno zombie per casa con la mia compagna preferita.

 

Sorrise amaramente pensando alla sua compagna - una bottiglia di ottimo gin lemon - tirando una boccata dalla sigaretta e rigettando il fumo subito dopo che la nicotina ebbe riempito i suoi polmoni. L'amica la guardava scoraggiata, come se stesse assistendo al declino d'un intera esistenza solamente osservando il comportamento di Ashley. Era dispiaciuta per lei, per come la piega della sua vita aveva distrutto tutte le sue speranze.. ma non poteva continuare così, e lei non sapeva come altro aiutarla se la prima era lei a non volere aiuto.

 

Non puoi continuare di questo passo Ashley, finirai per ammazzarti con tutto questo fumo e questo alcool.. per non parlare degli ultimi rapporti che hai avuto! E adesso ci aggiungi anche questo "appuntamento al buio". Che ne sai che quell'indirizzo ti porti da un malintenzionato? Dovresti stare attenta, che a giocare col fuoco s-

 

Ci si scotta, lo so. Ma non ho di meglio da fare in questa giornata.. quindi una piccola variazione alla monotonia potrebbe essere un ottimo passo per cambiare questo schifo, non trovi?

 

S'intromise, senza lasciare finire il discorso. In effetti, stava davvero giocando con un fuoco bello e buono: ogni sera andava al solito pub a bere, e la mattina si ritrovava sempre nel suo letto spogliata delle scarpe e del giacchetto.. e non ricordava assolutamente come fosse tornata, o cosa fosse successo la sera prima. Poi quella mattina aveva trovato quell'assurdo bigliettino sul cuscino, tutto stropicciato dopo una notte disturbata. Questo recava un indirizzo sconosciuto e un orario - le 18.30 - nient'altro. Lei ovviamente aveva avuto la brillante idea di andare all'avventura, perché tanto "non c'era nulla da perdere". Guardò l'orologio da polso e l'orario segnava le 17:15. Era arrivato il momento di muoversi e di raggiungere quel luogo misterioso - a un quattro isolati dal bar dov'era seduta a consumare - per capirci qualcosa.

 

E' meglio che mi avvii, sennò faccio tardi al mio appuntamento. Augurami buona fortuna!

 

Esordì dopo un pesante minuto di silenzio, afferrando poi il bicchiere e finendo in un fiato il suo aperitivo. Spense la sigaretta oramai terminata nel posacenere e prese il giacchetto prima di avviarsi verso l'uscita del locale. L'amica non poté fare nulla per fermarla, e sapeva che non l'avrebbe comunque ascoltata anche se avesse portato delle ragioni indiscutibili per non andare a quell'appuntamento. L'unica cosa che poteva farla era raccomandarla con un "stai attenta", e così fece ricevendo in cambio un accenno di saluto e un sorriso.

[***]

Svoltato l’angolo al quarto isolato, dovette camminare in mezzo a una lunga fila d’alberi prima d’arrivare di fronte alla palazzina che recava il numero dell’indirizzo scritto sul bigliettino stropicciato che s’ostinava a tenere in mano con una frenesia quasi maniacale. Erano le 18:20. Era in anticipo.

Di certo non aveva dato modo di capire all'amica cosa le passava per la testa, prendendo il tutto alla leggera e con un cenno di svogliatezza.. ma in realtà  sentiva perfettamente d’essere terrorizzata. Sentiva il cuore martellare, mentre dei piccoli tonfi scandivano i suoi passi sulle scale che avrebbero portato al pianerottolo del secondo piano. C’era un misto di adrenalina e sangue in circolo nelle sue vene, e una sensazione di inadeguatezza che in poche occasioni aveva provato dopo la morte della madre. La porta d’ingresso dell’abitazione segnata nell'indirizzo si stagliava dinnanzi ai suoi occhi verdi immobile, in attesa che le nocche della sua mano destra andassero a disturbare la calma dell’interno, e proprio quando aveva deciso di bussare qualcosa la bloccò sul nascere. Cosa stava facendo? Cosa l’avrebbe attesa al di la di quella porta? Le parole dell’amica tornarono a bussarle nella mente, e nulla poteva escludere che giunta a quel punto poteva essersi cacciata in chissà  quale guaio irreparabile.. ma poteva ancora evitarlo, se avesse avuto il coraggio di girare i tacchi e tornarsene alla vita di tutti i giorni.

Prima che l’impulso le dicesse di girare i tacchi e andarsene senza assecondare quella follia, la porta dell’appartamento s’aprì e un giovane uomo con i capelli castani e gli occhi blu si parò davanti a lei. Scambiarono uno sguardo intenso, tra l’interdizione e lo sbalordito.. quindi lui sorrise, e lasciò libero il passaggio.

 

Credevo non saresti venuta. Felice di essermi sbagliato, prego entra.

 

Ruppe il silenzio imbarazzato con quella voce suadente e rassicurante al tempo stesso, facendo un gesto eloquente con la destra per confermarle l’insolito invito. Ashley non smetteva un attimo di guardarlo circospetta. Non si sentiva a suo agio e non sapeva cosa aspettarsi da quello sconosciuto.. eppure qualcosa le diceva che poteva fidarsi, che quell'uomo non era esattamente uno sconosciuto. C’era qualcosa di familiare in lui, ma di certo quella sensazione non la rassicurava affatto. Silenziosa s’introdusse in casa e l’uomo chiuse la porta dell’appartamento per accompagnarla nel soggiorno in stile moderno, ordinato meglio di quanto s’aspettasse. S’accomodò nel divano, mentre lui s’era velocemente recato nel bancone della cucina per preparare due bibite con giaccio e succo d’arancia. Quando ebbe finito portò i due bicchieri con se e s’avvicinò ad Ashley, porgendogliene uno.

 

Analcolico.

 

Puntualizzò l’uomo, mentre la giovane afferrava il bicchiere e ringraziava con un cenno. Avrebbe sicuramente preferito un qualcosa di un tantino più forte di un succo d’arancia mischiato a un bitter analcolico, ma sembrava che l’uomo quasi conoscesse la sua attuale dipendenza e avesse preferito qualcosa di leggero per iniziare quell'insolita conversazione che da li a poco avrebbe preso luogo.

 

Sei stato tu a lasciarmi l’indirizzo, immagino..

 

Gli chiese, mostrando il biglietto stropicciato fra le mani e poggiandolo sul tavolino dinnanzi al divano. L’uomo annuì.

 

Perché mi h-

 

Ti ho invitata qui? Semplice, per cercare di aiutarti. Da sobria, con tutte le rotelle al posto giusto. Da ubriachi è difficile far ragionare o affrontare un qualsiasi problema.

 

Per un attimo perse un battito: come faceva a sapere che il più delle volte era ubriaca? Possibile frequentasse lo stesso pub che dal giorno della rottura del suo fidanzamento aveva trovato come punto per ubriacarsi e dimenticare tutto? Se così era, allora era spiegato il motivo del biglietto.. anche se ancora era oscuro come questo fosse arrivato sul suo cuscino. Che glielo avesse messo in tasca senza che lei se ne accorgesse? Possibile. Magari nell'ubriachezza era tornata a casa, s’era spogliata e s’era buttata sul materasso senza pensare con quel fogliettino in mano.

 

Chi sei?

 

Domandò quasi di riflesso ai suoi spiccioli ragionamenti.

 

Un amico.. o più propriamente uno sconosciuto confidente, di cui non sembri nemmeno ricordarti. Non una novità , considerato lo stato delle cose.

 

Confidente? Ricordarmi? Per caso eri al pub ieri sera?

 

Ogni sera, dal lontano 20 Luglio.

 

20 Luglio, il giorno in cui era scappata dal ristorante e s’era rifugiata nell'alcool in quel dannato bancone bar del pub più vicino.

 

Chissà  quanti deliri di poveracci hai ascoltato li dentro..

 

Rispose sarcastica, bevendo un lungo sorso dal bicchiere col bitter all'arancia fatto in casa.

 

In realtà  non molti, non sono il tipo che si sofferma ad ascoltare tutti i problemi della gente. Anche perché, siamo sinceri.. molti cantano problemi che si sono andati a cercare da soli. Un tipo perde tutto al gioco d’azzardo e la moglie lo butta fuori di casa.. un altro deve dei soldi a qualcuno e non ha come mantenere la famiglia.. un altro ancora pensa al suicidio perché l’amore della sua vita l’ha lasciato. Sono sempre le stesse, identiche cose. Ma tu.. tu mi hai stupito. Non è da tutti i giorni trovare una ragazza, elegantissima nel suo completino nero e bella come un angelo, sedersi ad uno squallido pub e bere finché la coscienza non fluttua via dal corpo.

 

Benvenuto nel nuovo mondo, dove anche le ragazzine hanno problemi e cercano conforto.

 

Finì il suo drink e poggiò il bicchiere sul tavolino, vicino all'indirizzo. L’uomo la guardava intensamente e non le staccava gli occhi di dosso; lei continuava con il suo sarcasmo, e non osava posare i suoi occhi sullo sguardo magnetico di lui.

 

E’ proprio questo il punto, Ashley. Li non trovi un conforto. Trovi soltanto un bicchiere che ti stordisce, che ti fa dimenticare per qualche ora e che ti distrugge l’organismo. Non è un conforto, quella è soltanto una scusa per non reagire. Non ti sei mai chiesta perché ogni giorno è lo stesso? Perché la mattina ti svegli nel tuo letto semi svestita, al sicuro?

 

In realtà  si, se lo chiedeva spesso.. tanto che pensava fosse bloccata in un assurdo loop temporale. Finalmente ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. Il volto di lui era serio, ma v’era una punta di compassione per lei e questo non le piaceva. Non voleva essere compatita, non l’aveva mai voluto. Non risposte alla domanda e lasciò che l’uomo senza un nome continuasse.

 

Non ci sarà  sempre un angelo custode a proteggerti nei tuoi momenti di buio da alcool, a sorreggerti quando le tue gambe non ce la faranno a reggerti in piedi. Devi reagire e fatti forza: non puoi buttare la tua vita in questo modo. Le ferite si rimarginano, se solo le lasci rimarginare. La felicità  può tornare a sorriderti, se tu solo non le sbatti la porta in faccia per gettarti a capofitto sull'alcool nel tentativo di dimenticare tutto. Non puoi dimenticare tutto.. non vuoi dimenticare.

 

Che cosa ne sai tu di che cosa voglio?!

 

Uno scatto di collera le fece alzare la voce.

 

Non tutte le ferite si rimarginano! Alcune bruciano e sono talmente profonde che sembrano scavare ancora di più, sempre di più.. e l’unico modo per resistere al dolore che provocano è dimenticare per qualche ora, o una bella lobotomia.

 

Un pesante silenzio s’interpose fra i due interlocutori, carico d’un miscuglio di sensazioni contrastanti. L’uomo sospirò per mantenere la calma, cercando di comprendere Ashley nei suoi deliranti ragionamenti. Avrebbe ripreso nuovamente la parola, se la sua interlocutrice non si fosse alzata.

 

Mi dispiace, il nostro tempo è finito. Ti ringrazio per il drink, e per la cortesia.

 

Si sbrigò a dire, per poi farsi accompagnare alla porta da quell'uomo che non sembrava affatto sorpreso da quell'atteggiamento. Ancora una volta le diede l’impressione che avesse già  passato quella situazione con quello sconosciuto. Fece dunque per andarsene, dopo aver stretto la mano dell’uomo e aver avviato i primi passi verso le scale.. ma la voce dell’uomo la trattenne ancora sui primi gradini, colpendola come un fulmine a ciel sereno.

 

Hai ragione.. riguardo alle ferite dell’anima, intendo. Alcune ti lacerano talmente in profondità  da essere inguaribili.. e quel dolore, in un modo o nell'altro, tornerà  sempre a galla. Ho preteso molto, ad invitarti qui per parlare dei tuoi problemi. Speravo di poterti aiutare, ma mi sbagliavo.. l’unica che può combattere questa battaglia sei tu. Volevo solo che sapessi che c’è qualcuno disposto a non abbandonarti, qualcuno disposto ancora ad offrire la sua gentilezza a una sconosciuta ubriaca conosciuta in uno squallido pub.

 

E con queste parole, aveva scritto la parola fine a quell'incontro al buio con la bionda bellezza del pub. Stava per chiudere la porta, ma la voce di lei bloccò la sua mano quando oramai a separarli era soltanto una fessura.

 

P-posso tornare ancora a parlare con..?!

 

James.. James Miller. Ma puoi chiamarmi solo James.. dopotutto non sono molto più grande di te.

 

D’accordo.. James.. quando po-

 

Stasera.

La interruppe, anticipandola. Era evidente che non volesse che andasse al pub ancora una volta, e forse andare in quella casa sarebbe stata un’ottima alternativa per “dimenticare†o cominciare ad affrontare i suoi scheletri.

 

Ok.. a stasera, James..

 

A stasera, Ashley..

 

Le rispose in un sussurro, chiudendo la porta alle sue spalle e lasciando alla bionda la possibilità  di tornare a casa con una consapevolezza in più.

Da quel giorno si videro molte altre volte, e forse quel biglietto sul cuscino era proprio la felicità  di cui parlava quello sconosciuto uomo di nome James – che aveva cominciato ad apprezzare in maniera insolita. Non le aveva aperto, per paura di rimanere scottata ancora una volta.. e allora questa le aveva scritto un messaggio, e lei l’aveva subito accolta. La porta di quell'appartamento divenne la speranza aperta per il suo futuro, dopo tutte le porte che aveva visto chiudersi alle spalle.

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Nome dell’autore: jaja
Titolo: Eccoti
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Capitolo 1 - L'inizio di tutto
"Certo che questi Lupus In Tabula sono proprio divertenti... Ho fatto amicizia con tantissime persone del forum. Soprattutto con i miei compagni lupi dell'Eggs edition." Pensavo mentre elaboravo la strategia del finto vero mago con i miei compagni. Eravamo in una situazione di svantaggio, infatti i buoni avevano un notevole vantaggio numerico e sapevano per certo la fazione di alcuni miei compagni che sarebbero presto finiti al rogo. Eravamo riusciti a temporeggiare con la tattica Zeb-Monti, ma adesso toccava a me e Lù provare a portare la squadra alla vittoria. Elaborammo una strategia perfetta, tutti quanti ci erano cascati, tutti tranne uno. Gaetano riuscì a far saltare tutto e a far vincere la fazione dei buoni. Ma ho conosciuto degli amici fantastici, non importa se abbiamo perso.

***

Poco tempo dopo cominciò il Winter Camp di Chube. Ero felice perché nella mia squadra c'era la mia gemellina Emma, il mio concittadino Zar e i miei compagni lupi dell'Eggs: Simo97 e Lù. È stato molto divertente affrontare le svariate prove insieme ai miei compagni anche se nessuno di noi vinse. Ho legato moltissimo con i miei compagni, tanto che ancora oggi chiacchieriamo ogni giorno sul gruppo WhatsApp. Con alcuni di loro parlavo anche in chat privata. Andavo molto d'accordo con Lù. Abbiamo moltissimi interessi in comune e con me è molto gentile e simpatico. Parlare con lui è molto divertente e mi fa stare bene. Finalmente dopo 2 anni di totale solitudine ho di nuovo degli amici che mi apprezzano per quello che sono.

Capitolo 2 - Il sospetto

Era circa metà  gennaio e conoscevo Lù ormai da un mese. Messaggiavamo tutti i giorni e a volte parlavamo anche al telefono. Cominciò a nascere un sospetto dentro di me. "Possibile che Lù si stia innamorando di me?... Nah..." pensavo "figurati se qualcuno può innamorarsi di me..." e così provai a scacciare il sospetto dalla mia mente, senza successo.

***

Era il pomeriggio del 19 gennaio. Io parlavo con Lù con i miei soliti discorsi da depressa Â«È inutile che io mi stressi così tanto a studiare... Come minimo fra qualche anno tu sarai un riccone e io sarò la cassiera del tuo supermercato di fiducia...»
«Guarda... È meglio che non rispondo se no mi affosso...»
«Ti affossi? E perché dovresti? Ora mi dici cosa avresti voluto rispondere.»
«No guarda... è meglio di no...»
«No un cavolo! Adesso lo dici, altrimenti non ti parlo più.»
«No ti prego... Tutto tranne questo...»
Io non risposi.
«Ti prego parlami!»
Nulla. Ero intenzionata a tacere fin quando non avesse parlato.
Dopo pochi minuti di spam di faccine piangenti finalmente scrisse: «E va bene... Te lo dico... Ma non adesso, sta sera.»
Avevo ottenuto ciò che volevo. Ma avevo fatto la scelta giusta? Probabilmente se non voleva dirmelo c'era un motivo, ma ancora una volta la mia insistenza si era rivelata eccessiva e fuori luogo. Mi tormentai per tutto il pomeriggio pensando di aver sbagliato ad insistere. Ero tormentata dai sensi di colpa.

Capitolo 3 - Il riccone e la cassiera

Finalmente arrivò la sera.
«Allora? Mi dici o no quella cosa?»
«Uff... E va bene... Oggi tu dicevi che io sarei diventato un riccone e tu una cassiera... Ebbene... Avrei voluto risponderti che sono abbastanza sicuro che se ci incontrassimo, avessimo un po' di tempo per conoscerci, questo, a tuo parere, riccone qui, sarebbe perfettamente in grado di innamorarsi di una cassiera dato che è una persona fantastica...»
Rimasi paralizzata con il cellulare in mano sul mio letto. "Allora avevo ragione..." pensai "è davvero innamorato di me... E adesso cosa faccio?"
I miei pensieri furono interrotti da un messaggio: «Adesso non lamentarti però... Sei tu che hai insistito...»
«E chi si lamenta? Nessuno mi aveva mai detto una cosa simile...»
«Sei la persona più speciale che abbia mai conosciuto, nonché l'unica che mi sopporta così bene e con cui posso parlare di tutto»
«Così mi fai piangere...»
«Io non voglio farti piangere...»
«Ma se sono lacrime di gioia sono ben accette, no?»
«Si... Ora posso farti una domanda?»
«Dimmi»
«Pensi che potrei mai piacerti?»
"Ecco la domanda fatale... E adesso?" pensai tremando sotto le coperte. Ci pensai su per qualche secondo e finalmente scrissi: «Oddio... Mi cogli alla sprovvista... Comunque... Secondo me... Potresti.»
"In fondo... È gentile, simpatico, abbiamo molte cose in comune, e mi sopporta... E per sopportarmi ce ne vuole..."
«Solo un pazzo potrebbe innamorarsi di una come me...»
«Solo una pazza potrebbe mai ricambiare prima o poi... Direi che siamo pari»
«Credo di non essere mai stata più felice di così... Così felice da sorridere come un'ebete e contemporaneamente far scendere giù le lacrime...»
«Io prima di scriverti ho pianto per paura della tua reazione... Domani ascolta la canzone di Max Pezzali "Eccoti"... Te la dedico... E ora vado a dormire, ma con il sorriso sulle labbra... Buonanotte»
«Buonanotte»
Quella notte non dormii, ero troppo confusa, agitata e felice.

Capitolo 4 - Treno fuori dai binari

Quella dichiarazione d'amore mi aveva confusa e non diedi subito una risposta. Pochi giorni dopo litigavo come al solito con Keita e Simo97 nel gruppo WhatsApp, ma ciò che successe in seguito mi sconvolse così tanto da scordare il motivo del litigio. Ero incavolata nera e per tranquillizzarmi Lù mi scrisse in privata: «Amore, dai su... Lasciali perdere... Sono degli idioti...»
Ero sconvolta. Il cuore batteva all'impazzata. "Amore?! Cosa?! Ma così? Di punto in bianco?"
Non sapevo cosa fare, quindi seguii il mio carattere schietto e diretto.
«Ma tu mi chiami amore di punto in bianco?»
«Oddio scusa... Non ci ho fatto nemmeno caso...»
Nervosa, agitata, ma soprattutto confusa. Vagavo per la mia camera come un'anima in pena, lo stomaco sembrava una serra per farfalle, la testa era come un groviglio di scarabocchi, mentre il telefono giaceva sulla scrivania, silenzioso come non lo era da tempo. La vibrazione si attivò: Lù aveva ricominciato a scrivermi.
«Forse è meglio che vada... Ho già  fatto abbastanza danni per oggi...»
«No. Non andartene. Non mi piace stare da sola...»
«Ok... Allora non ti lascerò mai sola.»
Seguì qualche istante di silenzio. Infine lui riprese: «Scusa... È stato istintivo... Non volevo farti star male, è l'ultima cosa che vorrei... Ora sei confusa e ti capisco, ma ti prego, perdonami...»
«Non c'è nulla da perdonare. Non me lo aspettavo e non mi era mai successo. Ma sto comunque reagendo in modo esagerato. È bastata una semplice parola per far uscire il mio cervello dai binari della ragione...»
«Beh... "Semplice"... Stiamo parlando della parola che è forse la più importante al mondo.»
«Forse hai ragione...»
E il discorso si chiuse lì, nel nulla. Io ricominciai a battibeccare con i miei amici sperando di calmarmi, ma non successe. Quella sera non toccai cibo e non dormii quasi per nulla.

Capitolo 5 - Inaspettato

Era il 30 gennaio e Lù doveva restare a scuola tutto il giorno per fare una specie di spettacolo, quindi sarebbe stato poco presente. Io vagabondavo su Facebook senza un perché e mandavo a Lù frasi dolci trovate su una pagina che rispecchiavano i miei pensieri. Ad un certo punto mi arrivò una nota vocale di WhatsApp da parte di Lù accompagnata da un messaggio normale: «Non ascoltarlo subito... altrimenti poi mi impazzisci...»
"E perché dovrei impazzire?... Bah proviamo a non ascoltarlo..." pensai. Inutile dire che la mia curiosità  fu più forte della mia pazienza... Un minuto dopo aver ricevuto il messaggio cliccai su quel dannato tasto play: «Scusa se oggi non ti scrivo molto... ma sono molto impegnato con lo spettacolo... ti sto parlando tra una pausa e l'altra. Tu che dici sempre che non sei dolce... Non è affatto vero... Le cose che mi hai mandato su Facebook sono dolcissime» Seguì una breve pausa, poi riprese: «Ps... Ti amo.» Ancora una volta mi ritrovai paralizzata con lo stomaco sottosopra, il cervello in pappa e il battito talmente forte che il cuore sembrava volermi uscire dal petto mentre i polmoni lo trattenevano dentro a fatica affannando il mio respiro. Riascoltai più volte il messaggio pensando di aver capito male, ma ogni volta terminava allo stesso modo.
«Oh no... Lo hai ascoltato...» Scrisse «Adesso uscirai di testa ed io non potrò starti vicino...»
Intanto io pensavo: "M-mi ama?! C-com'è possibile che qualcuno mi ami?!..." cominciai a tremare e a piangere "Nah... È impossibile... dev'essere un sogno, non c'è altra spiegazione... Devo solo svegliarmi." Ma non era un sogno, era la realtà .

Capitolo 6 - La parte più dolce di me

Trascorsi tutto il pomeriggio cercando di capire quali fossero i miei sentimenti. Era sera inoltrata quando finalmente capii cosa dovevo fare. Con la voce tremante, la gola e la bocca secche, presi il telefono e cominciai a registrare una nota vocale. Provai mille volte, ma senza successo. Mi bloccavo sempre a metà  strada. Dopo 50 minuti di tentativi finalmente riuscii a completare quella maledetta registrazione. Parlavo praticamente sottovoce e si sentiva che stavo tremando come una foglia. Lù visualizzò il messaggio e scrisse: «Adesso non posso ascoltarlo, non ho le cuffie. Sono ancora a scuola, appena arrivo a casa lo ascolto.»
Non andai a dormire, volevo aspettare che Lù ascoltasse il mio messaggio. Ormai era quasi l'1 di notte del 31 gennaio quando finalmente il messaggio venne ascoltato: «Io dico sempre che non sono dolce perché sinceramente non conoscevo neanche io questa parte di me stessa... Tu sei la prima persona che è riuscita a tirarla fuori, quindi penso di poter dire tranquillamente che...» Seguì un attimo di silenzio rotto solo da un mio sospiro «Ti amo anch'io.»

Capitolo 7 - il primo San Valentino

Si avvicinava il 14 febbraio, il giorno di San Valentino, e da brava fidanzata stavo preparando un bel regalo per Lù. Quel sabato mattina avremmo dovuto parlare in videochiamata su Skype ma Lù mi piantò in asso e io ci rimasi male. Nonostante ciò continuai a preparare con amore il mio regalo per lui. Si scusò e io ovviamente lo perdonai subito, non riuscivo ad essere arrabbiata con lui, e poi era a casa di un amico quindi era abbastanza normale che trascurasse il cellulare. Mi è bastato vedere come si è comportato quando, alle 23, gli dissi che avevo quasi terminato il regalo, lui non se lo aspettava, andò nel panico e cercò di realizzare qualcosa in un'ora, senza riuscirci ovviamente. Lavorai tutto il giorno al regalo e terminai circa a mezzanotte. Avevo ricamato a punto croce su un pezzo di stoffa il nome della nostra canzone, "Eccoti", accompagnato da un cuore, poi trasformai quel pezzo di stoffa in un piccolo cuscino, cucito interamente a mano. Non ricevetti nulla in cambio, ma non mi interessava. Non avevo bisogno di regali per sapere di essere amata da lui.

Capitolo 8 - Pregiudizi

Era un pomeriggio di fine febbraio quando Lù decise che era il momento di parlare di me a sua madre. Lei lo stava accompagnando in palestra e, scendendo dall'auto, disse con il sorriso sulle labbra: «Mamma, ricordi quella mia amica siciliana? Beh... ci siamo fidanzati.» Lei non disse nulla e andò via. Lù mi scrisse un messaggio: «L'ho detto a mia madre... non sembrava arrabbiata, forse perché ha visto come sorridevo.» La cosa non mi convinceva, ma mi fidai delle sue parole.
Il giorno dopo, a cena, i suoi genitori gli fecero intendere chiaramente che non approvavano la nostra relazione. Tirarono fuori alcuni pregiudizi sui siciliani e, anche se non erano cattivissimi, io mi sono offesa comunque.
«Quello che dite non è vero!» urlò Lù «Lei non è come dite voi! Vedrete! Quando in estate ci incontreremo-»
«No.» sua madre non gli lasciò neanche terminare la frase «Voi non vi incontrerete.»
«E quando dovremmo incontrarci la prima volta? Fra quattro anni? Fra cinque? Dopo la laurea?!»
«Calmati.» inervenne suo padre.
Detto questo, Lù si alzò da tavola senza neanche finire la cena e si chiuse in camera per raccontarmi ciò che era successo. Io ci rimasi malissimo, soprattutto per quel secco "voi non vi incontrerete". In un attimo mi crollò il mondo addosso. Mi chiusi al buio in una stanza, lanciai il telefono in un angolo e piansi per almeno mezz'ora. Quando ripresi il cellulare era troppo tardi: Lù si era addormentato mentre aspettava il mio ritorno. Cosa sarebbe successo? Davvero non ci saremmo mai incontrati?

Capitolo 9 - Non è un gioco

Lù aveva reso nota la nostra storia ai suoi genitori, e io non volevo essere da meno. Qualche giorno dopo lo dissi a mia madre. Era mattina e, prima di salutare mia madre per andare a scuola, le dissi: «Ehy mamma... Ti ricordi il mio amico Samuele di Sanremo?»
«Si, perché?»
«Beh... Ci siamo fidanzati.»
«Per telefono?! Va bene Sara... poi ne parliamo...» Pronunciò le ultime parole con un inquetante sorriso sulla faccia.
Una volta tornata da scuola, tirò fuori l'argomento. Anche lei, come i genitori di Lù, non approvava. L'ultima cosa che disse fu: «Va bene Sara... divertiti, tanto è un gioco... Non è nulla di serio.»
La guardai malissimo. "È un gioco?! Nulla di serio?!" Pensai mentre uscivo dalla cucina sbattendo la porta. Ero furiosa. Come aveva potuto dire una cosa del genere? Di una cosa ero sicura: lei aveva torto, torto marcio. Quello che stavo vivendo non era affatto un gioco.

Capitolo 10 - Il primo mese

In assenza del 31 febbraio, il nostro primo mese lo festeggiammo tra il 28 febbraio e il 1° marzo. A mezzanotte ci scambiammo messaggi quasi papirici, dopodiché andammo a dormire. Il giorno seguente io non avevo molto tempo per preparare un bel regalo per Lù, dato che continuavo a litigare ininterrottamente con mia madre, quindi realizzai qualcosa di semplice ma significativo. Infatti, qualche tempo prima, io e Lù decidemmo che, quando ne avessimo avuto l'occasione, avremmo dovuto leggere insieme un bel libro immersi in uno dei tanti paesaggi meravigliosi che era solito fotografare. Quindi ho utilizzato la tecnica dell'origami per creare due segnalibri di cartoncino con un cuore in cima e una citazione scritta sul lato: "Nella buona sorte e nelle avversità ... nelle gioie e nelle difficoltà ... se tu ci sarai, io ci sarò."
Ma il mio regalo non fu minimamente paragonabile al suo. Lui lavorò una giornata intera per realizzare a mano due cornici per foto con degli schizzetti di vernice come abbellimento. Erano bellissime.
Ma la cosa più importante era che stavamo insieme da un mese e tutto procedeva a meraviglia. I nostri sentimenti non diminuirono minimamente, anzi, aumentarono.

Capitolo 11 - La svolta

Era una delle prime mattine di marzo, apparentemente una mattina come tante. Ero in classe quando la professoressa di educazione fisica entrò portando con sé una circolare riguardante la gita di fine anno. Io non la stavo ascoltando perché probabilmente non avrei partecipato alla gita. Ma ad un certo punto la mia compagna di banco cominciò a scuotermi per un braccio quasi urlando: «Sara! Sanremo!»
«Nah... Cosa dici... Avrai capito male.» le risposi, incredula. Intanto la prof ripeté per la seconda volta le tappe della gita: «Genova, Sanremo, Montecarlo, Nizza, Cannes.»
Spalancai gli occhi, mi alzai dal posto e presi di mano il foglio alla prof, per assicurarmi di non essermelo sognato. Era lì, scritto nero su bianco: Sanremo. Sulla mia faccia apparì un sorriso di quelli che sfoggio raramente. I miei pensieri furono interrotti dalla prof: «Sara, ma che stai facendo?»
«N-niente prof, pensavo di aver capito male...»
Consegnai il foglio alla prof e scendemmo in palestra. Scrissi immediatamente a Lù per comunicargli la buona notizia. Eravamo entrambi felicissimi: finalmente ci saremmo incontrati.

Capitolo 12 - Non sapere chi ringraziare

Era la fine di marzo quando vidi per la prima volta il programma dettagliato della gita. Il nostro hotel era a Sanremo, ciò significava che per un paio di giorni avremmo passato la sera nella città  di Lù. Inoltre, il mio periodo di permanenza a Sanremo avrebbe coinciso con il nostro terzo mesiversario. Per questa occasione non sapevo chi ringraziare. Il destino? Il fato? Non lo so, ma questa era un'occasione d'oro da non sprecare, dovevo partecipare a quella gita a tutti i costi.
Pochi giorni dopo festeggiammo il nostro secondo mese insieme. Io avevo preparato, come mio solito, un regalo fatto con le mie mani. Realizzai una pallina origami a forma di stella a venti punte rossa con un'estremità  azzurra. Un regalo semplice, ma carino. Lui invece mantenne segreto il suo regalo, sapevo che mi aveva comprato qualcosa a Monaco di Baviera mentre era in gita, ma non sapevo cosa. La curiosità  mi uccideva, ma resistetti fino alla fine.
Da qualche tempo la mia, anzi, la nostra felicità  continuava a crescere sempre di più.

Capitolo 13 - Partenza

Era finalmente giunto il 30 aprile. Quella mattina terminai di preparare la valigia assicurandomi di aver preso tutti i regali per Lù. Nel pomeriggio mi diressi in stazione. Ero nervosissima più perché a breve avrei incontrato per la prima volta il mio ragazzo, che per il fatto che quella fosse la mia prima gita di più giorni. Salutai mia madre e salii sul treno. Dopo pochi minuti stavamo già  attraversando lo Stretto di Messina a bordo di un traghetto. Ero l'unica ragazza della mia classe, e nessuno a bordo di quel treno conosceva la mia situazione. Quindi sentii il bisogno di parlarne con un'amica di seconda, Lorena, anche lei appassionata di Pokémon ma non iscritta al forum, mentre tentavo forzatamente di mangiare un panino pur non avendo affatto fame. Alla sera tornai nella mia cuccetta che condividevo con due antipatiche ragazze del quarto anno. Rimasero sveglie fino alle 2 di notte circa, impedendomi di prendere sonno. Non appena anche loro decisero che era il momento di dormire, mi resi conto che quella notte non avrei dormito affatto, non tanto per i rumori del treno in corsa, quanto per quello stesso nervosismo che mi fece perdere l'appetito. Così passai tutta la notte sveglia ad osservare il susseguirsi delle stazioni ferroviarie.

Capitolo 14 - L'incontro

La mattina dopo scendemmo dal treno a Genova. Abbiamo visitato il centro storico, abbiamo pranzato e ci siamo diretti all'acquario. Mentre ero lì comprai una calamita a forma di pesce pagliaccio per Lù. Durante il viaggio in pullman verso Sanremo tentai di dormire un po' per recuperare le forze.
Arrivammo in hotel verso le 19 o le 20 ma lui non c'era: sarebbe venuto dopo cena. Da un lato era meglio così, avevo il tempo di fare una doccia e cenare.
La cena mi sembrò particolarmente lunga, avevo paura che arrivasse mentre stavamo ancora mangiando. Finita la cena feci una doccia e sistemai i miei ribelli capelli ricci.
Erano le 22:27 quando il cellulare vibrò: era una nota vocale di Lù, diceva di essere davanti all'albergo. Presi in fretta la tracolla e uscii. Quell'albergo era un labirinto e, dopo aver scoperto a mie spese che c'erano due edifici, riuscii ad arrivare all'uscita vicino alla reception. Non individuai immediatamente le porte in vetro che mi separavano dall'esterno, ma sentii delle voci chiamarmi e mi voltai. Era lì. Era lì e mi stava chiamando. Armata di sorriso da ebete corsi fuori e saltai al collo del mio ragazzo. Finalmente lo stavo stringendo fra le mie braccia. Restammo abbracciati per almeno 10 minuti. Era come se le persone intorno a noi non esistessero più, eravamo solo noi due. Ci separammo per un istante. Lui mi porse tre bellissime rose rosse, io le presi e tornai ad abbracciarlo.
Â«È il momento di babbo natale.» sussurrò lui mentre scioglieva l'abbraccio. Tremando come una foglia tirò fuori i regali dalla sua tracolla: una bellissima conchiglia, la cornice del primo mese, e la sorpresa del secondo mese. Era una bellissima collana a forma di fiore con delle pietre magenta al centro. Con le mani tremanti, ma in un gesto dolcissimo, mi mise la collana. Lo abbracciai ancora, poi anche io consegnai i miei regali.
«Credo sia il momento di presentarti ai miei amici.» disse.
Mi prese per mano e cominciò a dirigersi verso il cancello, ma a metà  strada lo fermai e lo baciai a stampo. Lui mi guardò e mi abbracciò ancora. Poi mi presentò ai suoi amici che scattarono la nostra prima foto insieme. Dopodiché cambiammo insieme lo stato di WhatsApp in "Grazie a Dio è venerdì e grazie a Dio sei qui e cacceremo i pensieri che torneranno lunedì ma non pensiamoci e godiamoci ogni istante". Ci baciammo ancora, ma sta volta ci misi la lingua. Il nostro primo bacio fu stupendo.
Poco dopo sua madre lo chiamò: doveva andare via. Mentre si allontanava io non gli staccavo gli occhi di dosso, finché non sparì dietro un angolo.
Tornai nella mia camera dove trovai i vari compagni che chiedevano spiegazioni. Non ci badai molto e mi misi a scrivere una lettera che sarebbe stata il mio regalo per il terzo mesiversario. In quella lettera aprii il mio cuore come mai avevo fatto. Alle 2:30 di notte terminai la lettera e osservai i miei compagni addormentarsi abusivamente nella stanza che condividevo con le due ragazze del quarto anno. Dopodiché, finalmente, mi addormentai.

Capitolo 15 - Sul lungomare

La mattina seguente oltrepassammo il confine per visitare Monaco e Montecarlo, in Francia. Per questa ragione non potei parlare con Lù fino al primo pomeriggio. Una volta rientrati a Sanremo, era prevista una visita libera del centro città , quindi Lù mi raggiunse e insieme andammo sul lungomare. Io gli consegnai la lettera che avevo scritto raccomandandogli di leggerla quando me ne fossi andata. Lui mi consegnò una busta contenente delle conchiglie, dei minerali, dei fossili e degli Scooby Doo. Passammo tutto il tempo insieme ad abbracciarci e baciarci. Ci scattammo una foto sulla scogliera, dopodiché dovetti tornare al pullman. La sera i miei prof volevano uscire, quindi ci saremmo incontrati di nuovo.
Dopo cena salimmo sul pullman e raggiungemmo di nuovo il centro. Qui io e Lorena incontrammo Lù e alcuni suoi amici. Ancora una volta scendemmo sul lungomare e Lù, commosso dalla mia lettera, ne scrisse una per me con la stessa condizione di leggerla da sola. Trascorsi la serata a tremare fra le sue braccia: il tempo stava passando troppo velocemente e la cosa mi causava tristezza. Tornammo al pullman dove i prof ci aspettavano infuriati: eravamo in ritardo di mezz'ora. Inoltre le compagne di Lorena erano arrabbiate perché una di loro aveva avuto problemi con dei ragazzi e necessitava della vicinanza di tutte, ma Lorena era con me. Tornammo in hotel dove i prof ci fecero una bella ramanzina, ma non mi importava. L'unica cosa di cui mi dispiaceva era il fatto che le amiche di Lorena si erano arrabbiate con lei. Lessi la lettera di Lù, la lessi tantissime volte di fila. Era bellissima. C'erano scritti i sentimenti più profondi del mio ragazzo. Rimasi sola in stanza: le ragazze del quarto e i miei compagni si erano riuniti nella stanza dei ragazzi, e non avevo il coraggio di presentarmi alla porta della stanza di Lorena. La solitudine non mi aveva mai fatto bene, ma nonostante ciò cedetti alla stanchezza e mi addormentai.

Capitolo 16 - L'ultimo giorno

Era domenica. Quella mattina mi alzai consapevole che la gita era quasi finita, e con lei il tempo da trascorrere con Lù. Quel giorno oltrepassammo ancora una volta il confine e visitammo Nizza e Cannes. Alla sera tornammo in albergo e cenammo. Poco dopo Lù mi raggiunse davanti all'albergo. Ancora una volta mi aveva portato dei regali. Uno di questi era una piccola ocarina blu da appendere al collo. Inoltre, dato che sono solita chiamarlo "orsacchiotto", portò un orsacchiotto bianco di peluches, ma non uno qualsiasi, gli era stato regalato alla nascita, quindi dal mio punto di vista quello era un piccolo Lù di peluches. Passammo tutta la sera ad abbracciarci e darci baci. Lo tenevo stretto a me, come a non volerlo lasciare andare. Singhiozzavo, ma non piangevo. Finché stavo con lui non ero in grado di piangere. Ad un certo punto sentii il telefono squillare: mia madre stava chiamando. Ma lei riattaccò prima che potessi rispondere. Avevo tantissime sue chiamate perse. La richiamo e lei risponde con voce preoccupata e arrabbiata dicendo che avrei dovuto chiamare o almeno rispondere alle chiamate. Non potevo dirle che ero con Lù, o si sarebbe arrabbiata di più. Quindi le dissi che ero con le ragazze della seconda a fare una specie di festino con patatine e musica alta. Mi tenne al telefono per un po' e mentre parlavo il mio ragazzo mi teneva stretta a sé accarezzandomi i capelli. Quando finalmente attaccò il telefono, lo abbracciai chiedendo perdono per il tempo che mia madre mi aveva fatto perdere. E lui rispose: «Tranquilla, lo ha fatto perché ti vuole bene... Come te ne voglio io... È normale che fosse preoccupata.»
Purtroppo mentre parlavo con lei, Lù fu chiamato da sua madre: era venuta a prenderlo e doveva andare via. Non volevo che se ne andasse, volevo rimanere con lui, anche a costo di non tornare a Messina. Ma purtroppo non potevo. Lo abbracciai fortissimo e ci baciammo un'ultima volta. Dopodiché lo seguii con lo sguardo finché non sparii dietro l'angolo della strada. Rientrai in hotel e incrociai Lorena nel corridoio. Istintivamente la abbracciai, ne avevo bisogno. Ancora una volta ero rimasta chiusa fuori dalla mia stanza e, con il permesso del professore, spostai le mie cose e mi trasferii in una delle stanze delle ragazze di seconda, ma non quella di Lorena, perché probabilmente la sua compagna di stanza era ancora arrabbiata con me. Loro erano tutte nell'altra stanza ma io non mi unii al festino, con la scusa di dover preparare la valigia, anche se in realtà  era già  pronta. Tenevo stretto l'orsacchiotto e continuavo a leggere la sua lettera. Poi arrivarono le mie nuove compagne di stanza e andammo a dormire.

Capitolo 17 - il ritorno più triste

Quella mattina lasciammo l'albergo molto presto dato che per arrivare a Milano ci volevano almeno quattro ore di pullman. Tutti quanti durante il tragitto dormivano. Tutti tranne me. Io guardavo fuori dal finestrino e piangevo. Tenevo tra le mani le rose mentre osservavo il paesaggio intorno a me mutare. La sera prima Lù mi aveva dato un pezzo di quel muffin gigante che prepara spesso, così ne assaggiai un pezzetto. Inutile dire che era buonissimo, ma decisi di conservarlo e mangiarlo la mattina seguente in treno, per ricevere un po' di dolcezza da parte sua anche quando sarei stata lontana.
Arrivammo all'Expo a mezzogiorno ma non ho visto molto perché alle quattro e mezza stavamo già  andando via. Arrivammo alla stazione centrale di Milano alle cinque e mezza. Andavo in giro con le rose in mano. Ho visto coppie nella stessa situazione mia e di Lù, scene di abbracci che sono riuscite a strapparmi un sorriso. Salimmo sul treno alle otto. Nella mia cabina non c'era la presa elettrica, quindi lasciai il telefono a caricare nella cabina del prof e a causa della stanchezza mi addormentai per circa un ora. Recuperai il telefono e tornai in cabina giusto in tempo per vedere il portabagagli superiore cadere sulla testa delle mie antipatiche compagne di cabina sotto il peso delle loro megavaligie. Ci trasferimmo in un altro vagone e andammo a dormire. La mattina ci svegliammo alle dieci. Ci trasferimmo nell'altro vagone nella cabina delle prof e io mangiai il buonissimo muffin che Lù aveva preparato apposta per me. Intorno all'una eravamo alla stazione di Messina. La gita più bella della mia vita era finita. Avevo incontrato il mio ragazzo, speravo solo di poterlo rivedere il prima possibile.

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Lightning

Effimero

Capitolo I - Azioni

27/03/2015

Beatrice scese dall'auto, nervosa e piuttosto agitata. Persa nei suoi pensieri, sbatté la portiera con la forza del rancore che provava, facendo vibrare lo specchietto retrovisore. La ragazza si sedette su una panchina lì vicina, dimenticandosi di chiudere la macchina, in attesa. Non si preoccupò di spostare la ciocca bionda che le ostacolava la vista.

Era un parcheggio non molto ampio, apparentemente deserto, delimitato da una vecchia fabbrica sul lato nord e dalla strada di paese che aveva appena percorso su quello sud. Gli altri due erano occupati dall'ingresso e dall'uscita, indicati da due cartelli insolitamente nuovi e ben tenuti, se paragonati alle linee divisorie dei posteggi, quasi cancellate dal tempo e dalle intemperie. Un magnifico acero era piantato in una zolla erbosa al centro del parcheggio, stagliandosi maestoso contro il cielo che stingeva all'arancio chiaro.

Ormai era determinata. Nulla avrebbe potuto smuoverla, perché quando prendeva una decisione non tornava mai indietro. Una caratteristica che si portava dietro da anni, che spesso l'aveva aiutata, ma in altrettanti casi tradita. Ma Beatrice non si chiedeva se questa volta si sarebbe aggiunta alla prima o alla seconda lista; era stanca, stremata dai litigi con la sua famiglia e non vedeva l'ora, finalmente, di partire per la vacanza improvvisata che le si era presentata non più di due settimane prima. Il che, forse, le faceva vedere il suo principale problema di quell'ultimo mese più grande e stressante di quanto fosse in realtà . E pensare che fino a dieci giorni prima era tutto così magnifico e perfetto... ma no, no, non doveva pensarci. Il passato non andava rivangato, perché le cose erano cambiate, lui era cambiato. E lei si era adattata di conseguenza, come aveva sempre fatto.

Le nuvole si erano tinte di rosso quando il rombo di un motore attirò la sua attenzione. Voltandosi, vide una Chevrolet scura, lucida, posizionarsi di fianco alla sua auto. Il conducente, un ventenne alto e vestito con una maglietta a maniche corte bianca e un paio di jeans, scese con una calma micidiale e chiuse la vettura, tanto che la ragazza con un sussulto si ricordò di aver lasciato la sua aperta e si affrettò a rimediare. Il nuovo arrivato girò attorno alle due automobili e finalmente entrò nel campo visivo di Beatrice, che tuttavia non alzò lo sguardo: era lui. Era Luke.

- Hey tesoro, come stai piccola?

Lei non rispose. Si limitò a fissarlo da dietro la ciocca di capelli che le nascondeva parte del viso, con uno sguardo talmente penetrante che Luke quasi rabbrividì. Dunque siamo davvero alla fine dell'ultimo ballo in maschera, pensò il ragazzo. Una stretta al cuore, che aumentava di intensità  secondo dopo secondo, riuscì a sopraffarlo completamente. Sentì le lacrime tentare di farsi spazio, ma strinse gli occhi e le ricacciò indietro.

- Capito...

- È finita, Luke - disse semplicemente lei.

Credeva di essere forte. Aveva già  sopportato e superato situazioni del genere. Eppure, per la prima volta in vita sua, due gocce salate gli rigarono il volto. Una frase, nulla più. Tre parole. In un istante, tutta la felicità , le risate, la dolcezza di quei mesi gli passarono di fronte alle palpebre chiuse. Non desiderava altro, tenere gli occhi sigillati e rifugiarsi in quel modo nero e oscuro, per l'eternità . Perché nulla aveva più senso... come poteva averne?

- Perché... perché? - ribatté Luke, ormai alla soglia della disperazione - perché vuoi far finire questo sogno? Tu... tu hai detto che ci credevi, che avresti fatto di tutto per preservarlo...

- Il passato è passato. Lascialo dov'è. Sai che non amo rivangarlo. Io vivo solo col futuro - rispose lei, non una nota di rimpianto nel tono di voce.

- Quindi erano tutte parole vuote? Tutti quei progetti, quelle promesse...

- Avevano il loro valore. Ma ora non lo hanno più. Sei cambiato, Luke. Non sei più la persona fantastica che mi ha fatto stare meglio di chiunque altro in tutta la mia vita. Sei ossessivo. Oppressivo. Mi hai tolto l'unica cosa che avevo, che ero riuscita a conquistarmi nel corso degli anni. La mia libertà , nelle piccole cose - concluse Beatrice, guardando il suo ex ragazzo dritto negli occhi.

Già , la sua forza era solo un'illusione. Freddo e distaccato, così amava descriversi. Senza cuore, spietato. Cattivo. Così si era sempre sentito. Odiato da tutti. Genitori, parenti, amici, conoscenti. E adesso anche da lei, lei che lo aveva salvato e lo aveva aiutato nella ricerca interiore del suo cuore, lei che era riuscita dove tutte le altre avevano fallito: gli aveva fatto ascoltare il suo stesso battito.

- Io... ti prego, ti prego, tesoro. Ripensaci. Stiamo passando entrambi un periodo terribile, la tua decisione è influenzata dallo stress che provi in questo momento, lo sai anche tu in fondo... lo sai... non è questo che vuoi... - riuscì finalmente a rispondere Luke.

- Lo vedi? Ancora parli per me, come se fossi nella mia testa e conoscessi i miei pensieri. Ma non lo sei. E adesso smettila di fare la vittima.

In cuor suo, Beatrice sapeva che Luke aveva ragione; ma era arrivata al punto di non ritorno. Sapeva di essersi comportata male, di non essere riuscita ad aiutarlo mentre lui aveva solo lei al mondo. Era come un faro di speranza, grazie alla sua luce lo aveva recuperato dal centro dell'oceano, giusto prima che la tempesta lo travolgesse. E ora il rimorso stava travolgendo lei. Eppure, senza volerlo, Luke l'aveva fatta distrutta, e questo pensiero oscurava tutto il resto, nella sua testa.

- Bene. Adesso torno a casa. Addio, Luke. Forse un giorno torneremo a parlare, si sa che il tempo è riparatore, ma non ti assicuro che accadrà . Non farti false speranze - concluse Beatrice, affranta ma con la voce ferma.

Quindi la ragazza si alzò e si diresse verso la sua automobile, senza voltarsi. Luke non tentò di fermarla, di dissuaderla. Era devastato psicologicamente ed emotivamente. Provava sensazioni nuove, con intensità  uguale, ma contraria, a quelle che aveva sentito sulla sua pelle quando l'aveva conosciuta. E mentre l'oscurità , che ormai si era fatta pesante intorno a loro, avvolgeva la figura scura dell'unica persona che avesse mai amato, il ragazzo la osservò allontanarsi nell'aria fredda della sera.

Lei, alla guida, pianse per tutto il tragitto.

Capitolo II - Reazioni

29/03/2015 - 03:58

Stesa sul letto, Beatrice cercava di addormentarsi. Erano le quattro di notte e l'unico rumore udibile era il flebile miagolio del gatto che accarezzava piano. Per fortuna a quell'ora i suoi genitori dormivano, lasciandola libera di riflettere tranquilla su quanto accaduto pochi giorni prima.

Aveva preso la giusta decisione? Non ne era più sicura. Ma una decisione è una decisione e il suo orgoglio le impediva di ricredersi, nonostante una lieve voce nella sua testa le suggeriva di farlo. Eppure...

Erano stati mesi magnifici. Era stata bene, davvero bene, come mai prima d'ora. Nessun altro le aveva mai fatto battere il cuore fino a quel punto. Nessun altro era mai stato così importante per lei, così indispensabile, così insostituibile. Rimpiangeva il Luke divertente, scherzoso... meraviglioso. Lo stesso che era riuscito a ricostruire il suo cuore in pezzi e a farlo suo, solo suo. Il ragazzo che nel corso di tre mesi l'aveva conquistata completamente, senza pretese, senza mettere fretta al loro rapporto, senza nemmeno sentirsi alla sua altezza... che scemo.

Beatrice sorrise nel buio. Un sorriso sincero, di rimpianto e felicità . Ma ben presto sul suo viso tornò l'espressione triste e piena di rancore che aveva mostrato negli ultimi giorni.

Era iniziato tutto da piccoli contrasti... aumentati sempre più in numero e intensità , fino al collasso. Non si era mai chiesta perché avessero iniziato a litigare, proprio quando erano riusciti insieme ad aprirsi e a mostrare quel che provavano l'una per l'altro. Forse erano stati troppo precipitosi? Semplicemente non erano fatti per stare insieme? Oppure... oppure era il periodo difficile che passavano entrambi, anche se per motivi differenti, ad aver rovinato la loro relazione? In fondo si sa, lo stress è il peggior nemico della ragione, no?

Ma ancora una volta, l'orgoglio della ragazza intervenne e cancellò quell'ultimo pensiero, scacciandolo dalla sua mente con violenza. No, non era così. Era stata male, malissimo, per colpa di Luke. Aveva preso la decisione giusta e ora avrebbe pensato al futuro, come sempre. D'altronde, un amore malato è inconcepibile, quindi perché frustrarsi tanto? Prima o poi i ricordi sarebbero scivolati via da soli, come sempre... o li avrebbe trasformati in qualcosa di terribile, in modo da stare in pace con se stessa. Forse se avesse trasfigurato Luke in un personaggio ormai immaginario, malvagio e cattivo, il peso che avvertiva sul cuore si sarebbe allentato.

Era determinata. Lo avrebbe deriso, con le stesse persone che alla fine avevano causato la loro rottura, quelle che a lui non piacevano e dalle quali la voleva proteggere. Lo avrebbe annientato, mostrandosi apertamente e più del necessario legata a loro. La sua gelosia lo avrebbe consumato da solo.

Con un altro sorriso, più simile a un ghigno questa volta, Beatrice si addormentò e cadde in un sonno leggero e senza sogni.

29/03/2015 - 01:21

Il parco era vuoto. Proprio come sperava.

Luke camminò a testa bassa e si lasciò cadere su una panchina. In una mano reggeva il suo smartphone, che nervosamente, con ossessione, teneva sbloccato per osservarne lo sfondo che aveva impostato; nell'altra, una bottiglia di liquido trasparente che non sembrava affatto acqua. Il ragazzo era visibilmente scosso. Non riusciva a pensare con lucidità , respirava a fatica ed era nel pieno di una crisi di pianto. Lasciò il telefono e portandosi la mano al petto, chiuse gli occhi e buttò la testa all'indietro. Una sola frase gli risuonava nella testa, facendo eco nel cuore.

È finita, Luke

Si alzò di scatto, barcollando leggermente, guardandosi intorno. Individuò un albero a pochi metri alla sua sinistra e puntò verso di esso, a passi lunghi e rapidi.

Lo colpì con un pugno tirato con disperazione, graffiandosi vistosamente le nocche che scalfirono la corteccia. Noncurante delle piccole gocce rosse, tirò un secondo pugno alla pianta, sporcandola di sangue in vari punti. E nonostante i tagli si fossero fatti ormai ampi e abbastanza profondi, ne sferrò un terzo.

Sei cambiato, Luke

Il ragazzo tornò alla panchina e diede un sorso dalla bottiglia. Sentì il liquido caldo scendergli in gola, ma più che un vago senso di leggerezza non gli procurava. Niente poteva distogliere la sua mente da lei, nemmeno l'alcol. Si risedette a fatica e guardò nuovamente lo sfondo del telefono, quasi l'immagine di Bea, della sua Bea, potesse uscire da lì e tornare da lui, come se nulla fosse successo.

Ma lei restava lì, congelata nella fotografia che occupava l'intero display dello smartphone, immobile.

Sei ossessivo

- No, non lo sono! Non lo sono...

Oppressivo

- Non è stata colpa mia... sapevi quello che passavo! Sapevi quanto ero sotto pressione! Sapevi che avevo bisogno di te! Non era mia intenzione farti del male... lo sai, Bea, lo sai! - urlò il ragazzo al cielo.

Smettila di fare la vittima

- Non la sto facendo! È solo la verità ... solo la verità ... non sono cambiato... sono state le settimane difficili a metterci contro e a impedire di capirci a vicenda, non siamo stati noi a cambiare...

Addio

Luke si alzò di nuovo e prese a camminare senza meta, nell'erba, finché cadde in ginocchio. Una mano sempre sul cuore, stretto in una morsa di ghiaccio che gli procurava dolore fisico, si asciugò le lacrime con l'altra.

Restò in quella posizione a lungo, assaporando alternatamente la vodka liscia e la brezza fresca notturna. E piano piano tornò a prendere possesso delle sue facoltà  e a sentire il dolore alla mano, che ancora sanguinava.

- Sono caduto nel vuoto tempo fa, senza appigli... e mi hai salvato, tendendomi la mano. Mi hai mostrato il cuore che pensavo di non possedere, mi hai insegnato a sentire il mio stesso battito. Mi sei stata vicina fino a quando ho preso consapevolezza che fosse reale, che tu fossi reale e non il sogno più bello che potesse essere prodotto dalla mia mente malata... e poi mi hai lasciato solo. Mi hai abbandonato, proprio quando avevo più bisogno di te. Mi hai trafitto, mi hai spinto di nuovo giù dal precipizio. Ma se all'inizio almeno ero appeso alla speranza che qualcosa potesse cambiare, ora non lo sono più. Ora sono sul fondo, con tutte le ossa fratturate e gli avvoltoi che volano in circolo su di me. E tu... tu dove sei adesso?

Con quelle parole il ragazzo si tirò su, gettò la bottiglia ormai vuota, la seconda, e si diresse di nuovo al pub.

La serata era appena cominciata.

Epilogo

28/04/2015

Indossava una maglietta e dei jeans, entrambi neri. Solo le scarpe, un paio di Jordan bianche e rosse fiammanti, facevano contrasto col resto dell'abbigliamento. Procedeva a passo spedito sulla strada grigia illuminata dal caldo sole di mezzogiorno. La temperatura toccava i 26° C mentre Luke, cuffie alle orecchie e RayBan opachi a nascondere gli occhi, raggiungeva l'ormai familiare porta a doppio vetro, sigillata.

Si fermò un secondo sulla soglia, guardandosi le scarpe e pensando con un tuffo al cuore che erano le stesse che aveva promesso di mostrarle. Quindi a testa alta suonò e l'ingresso del suo Inferno personale venne spalancato. Ma sull'architrave non era incisa la nota frase dantesca, ma una sola, micidiale parola: psichiatria.

- Perdonami.

Non uno dei miei lavori migliori sicuramente, ma è strapieno di riferimenti, citazioni, trasposizioni di fatti realmente accaduti. Mi auguro trasmetta qualcosa, nonostante mi sia ridotto all'ultimo a scrivere.

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Nome dell’autore: Terry_McFail
Titolo: Fallo per lui
Elaborato:

Anna rimase sdraiata sul letto dando le spalle al marito Alessandro. Lo sentiva procedere a tentoni nel buio della stanza, alla ricerca del pantalone azzurro che gli aveva comprato lo scorso compleanno. Aveva sempre avuto una vista pessima, e il fatto che la stanza fosse completamente al buio di certo non lo aiutava.

Riuscì nell’impresa dopo un paio di minuti, caratterizzati da scontri con il mobilio circostante ed imprecazioni sussurrate. Gli costava davvero così tanta fatica accendere il lume del comodino? Gli aveva già  fatto questa osservazione non sapeva quante volte, ma lui aveva sempre minimizzato il problema. Ormai si era stufata di ripeterglielo. Che si spacchi le dita dei piedi sugli spigoli, se è questo quello che desiderava.

Sentì il materasso piegarsi. Si era seduto per finire di vestirsi, incurante della sua presenza. Si infilò i calzoni, allacciò la cintura di pelle il più stretto possibile e poi si piegò per raccogliere calzini e scarpe, facendo muovere su e giù il letto. Calzino destro, poi il sinistro. Scarpa destra, poi la sinistra. Anna non aveva bisogno di guardare: era un abitudinario. Non c’era un motivo preciso per cui seguiva quell’ordine, lo faceva e basta.

Si alzò di nuovo dirigendosi verso l’armadio. Aprì l’anta, che scricchiolò rumorosamente. Le aveva promesso che ne avrebbe oliato i giunti, ma aveva sempre rimandato. Trafficò un po’ con i vestiti appesi, per poi estrarre la giacca abbinata al pantalone. La sfilò dalla gruccia e la indossò - di nuovo, prima braccio destro e poi il sinistro. Poi fu il turno della cravatta. Lì le cose si facevano facili: ne possedeva solo tre, erano tenute appese in un punto ben preciso ed erano tutte e tre perfettamente uguali, a tinta unita nera. Impossibile sbagliare. Prese quella che gli era più vicina e se la annodò al collo, sul momento. Non aveva nemmeno bisogno di guardarsi allo specchio: sapeva che il nodo sarebbe stato impeccabile.

A quel punto uscì dalla stanza. Cinque minuti dopo Anna sentì la porta d’ingresso chiudersi.

Andato.

Senza dire una parola.

Non un “Buona giornataâ€. Non un “Ci vediamo staseraâ€. Nemmeno un semplicissimo “Ciaoâ€.

Fallo per lui.

Ma in fondo nemmeno lei aveva detto niente. Anzi, aveva cercato di far finta di dormire, e suo marito, nonostante il tempo trascorso insieme, ancora cadeva nel tranello.

O forse non gli interessava più sapere se era sveglia o meno?

Sbadigliò. Doveva essere ancora dannatamente presto.

Girò la testa verso l’orologio appeso in fondo alla stanza.

Mancavano ancora venti minuti alle sei.

Poggiò di nuovo la testa sul cuscino e decise di concedersi almeno un’altra mezzora di sonno.

 

La campanella della ricreazione suonò. I suoi studenti nemmeno le diedero il tempo di proferire parola che erano già  spariti fuori dall’aula. Anzi, probabilmente erano già  arrivati al bar del piano inferiore ad ingozzarsi di merendine. Gli unici a non essersi mossi erano i due che aveva alla sua destra, uno in piedi che, impacciato, si sfregava nervosamente le mani in attesa di istruzioni, e l’altro intento a risolvere una disequazione di secondo grado alla lavagna, concentrato. Probabilmente non si era nemmeno accorto che era finita l’ora.

- Molinari. - disse Anna, e questi si risvegliò, smettendo di scrivere - Per oggi basta. Raggiungete pure i vostri compagni.

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Lanciò il gesso nell’apposito contenitore sotto la lavagna e corse dietro l’altro compagno, che era già  partito.

Si massaggiò le tempie. Tutto sommato non erano andati malissimo, ma avrebbe preferito avere a che fare con menti più brillanti.

Segnò rapida una risicata sufficienza per entrambi in rosso. Poi iniziò a riporre tutte le sue cose nella borsa. Penna. Registro. Un libro di testo. La calcolatrice. Finito di sgombrare la cattedra si alzò, borsa sotto il braccio, e uscì dall’aula. Il rumore dei tacchi echeggiò nella stanza completamente vuota. Chiuse la porta alle sue spalle.

Ogni piano della scuola era dotato di bagni destinati ai professori, e tutti quanti erano ugualmente malridotti. Una volta fatto quel che doveva fare, cercò di risistemare il trucco davanti allo specchio sopra il lavandino, nonostante la scarsa illuminazione concessa dalla plafoniera rendesse le cose non esattamente facili.

Un po’ di fard sugli zigomi e una passata di rossetto color carne. Niente di più. Il giusto per mantenere un look pulito e naturale. In realtà  avrebbe preferito non truccarsi affatto, ma con l’arrivo degli anta i primi segni del tempo e dello stress avevano inesorabilmente fatto la loro apparizione e Anna si era dovuta arrendere a questo stratagemma tipicamente femminile per nasconderli.

Infilò il rossetto nell’apposita taschina, chiuse la borsa e rimase qualche altro istante a ricontrollare il suo aspetto. Si: poteva andare. Premette entrambi le mani sui suoi capelli ricci color sabbia per diminuirne un po’ il volume e fece per andarsene.

Afferrò la maniglia e spinse verso l’esterno, e dal lamento che ne seguì capì subito di aver sbattuto la porta addosso a un collega.

- Oh cielo! - fece lei, mortificata, affrettandosi ad uscire. Voleva scusarsi, ma una volta appurato chi era il malcapitato il buon proposito andò a farsi benedire. - Diego.

L’uomo, che fino a quel momento era rimasto piegato su se stesso, si tirò su in tutto il suo metro e novata d’altezza, tenendo la mano destra sul fianco nel punto dove la maniglia l’aveva colpito. - No, ma non ti preoccupare, Anna. Non mi sono fatto niente…

La donna inarcò un sopracciglio e incrociò le braccia sul petto. - Che intenzioni avevi? - disse, dura.

- Cosa?

- Che volevi fare? Quello è il bagno delle donne.

L’uomo passò da un’espressione sofferente ad un sorriso da finto santarellino. - Ah. È il bagno delle donne? Devo essermi confuso. Sembrano tutti uguali.

Anna alzò ulteriormente le sopracciglia, scettica. Poi scosse la testa e fece per andarsene. Lui la trattenne afferrandola per un polso.

- Andiamo, non fare la corrucciata con me. Volevo solo farti uno scherzo.

- Certo. Uno scherzo.

- Non sto mentendo. Croce sul cuore.

Lei sospirò, arrendendosi. Diego notò che aveva smesso di opporre resistenza e ne approfittò subito. La cinse da dietro con entrambe le braccia e la strinse a sé, poggiando la testa sulla sua spalla. Anna lo lasciò fare, ma rimase impassibile. Non afferrò con le mani le sue braccia per stringersi ancor di più a lui. Non inclinò la testa per poggiarla sulla sua. Non ricambiò il bacio che lui le schioccò sulla guancia, visto che le labbra di lei non erano raggiungibili.

Rimasero così per un po’. Troppo secondo Anna. Troppo poco per Diego, che aveva sperato una qualche reazione da parte delle donna, ma che non vedendola arrivare decise di rinunciare. Allentò la presa e la lasciò andare. Solo a quel punto Anna si girò verso di lui.

Fu Diego il primo a guardare altrove, grattandosi il collo con la destra - Sigaretta? - propose infine, dopo attimi di imbarazzante silenzio.

Lei valutò la proposta per qualche secondo, poi accettò con un cenno del capo.

 

Anna era poggiata sulla balaustra della scala antincendio, osservando il non così magnifico panorama sulla strada urbana oltre la recinzione della scuola. A quell’ora non passava quasi mai nessuna macchina, né tantomeno dei pedoni. Se non fosse stato per gli schiamazzi dal cortile sul retro, dove gli studenti si riunivano per la ricreazione, avrebbe detto che in quel momento non c’era nessun’altro.

Teneva la Camel offertale da Diego fra l’indice e il medio, già  accesa. La fumava molto lentamente, prendendosi lunghe pause fra una boccata e l’altra. Probabilmente la stava consumando più il vento che lei stessa. Diego invece aveva finito la sua da poco, tanto che dalla cicca schiacciata ai suoi piedi ancora si alzava qualche filo di fumo. Osservava la donna da dietro, standosene con la schiena appoggiata al muro e tenendosi un po’ a distanza da lei.

- Non era così che mi aspettavo di passare questa mezzora.

Anna girò la testa nella sua direzione, sempre continuando a dargli le spalle. - Davvero? E come pensavi di passarla?

L’uomo non rispose. Non ce n’era bisogno.

Tornò a guardare in avanti, fissando un qualunque punto dell’orizzonte. Non importava quale. Si portò la sigaretta alle labbra. Nel mentre espirava, Diego le si affiancò, le mani in tasca e lo sguardo rivolto anche lui all’orizzonte, forse proprio in direzione del punto che stava guardando lei.

Il vento si alzò un poco, agitando le foglie degli alberi, i capelli di entrambi e la gonna del vestito verde militare di lei. Era tutto tranquillo. Tranne i loro cuori.

- Perché. - fece Diego all’improvviso, girandosi verso di lei. - Perché dobbiamo farci questo?

Lei si rimise in posizione eretta, senza però rispondere. Con la bocca produsse un’altra nuvola di fumo.

- Non abbiamo entrambi diritto ad un po’ di felicità ? - continuò. Lei chiuse gli occhi. - Anna: io ti amo. Puoi ripetermi quanto vuoi di trovarmi un’altra donna. Nessuna è bella come te. Nessuna può farmi provare quello che io provo per te.

- Diego…

- Io voglio te! - la interruppe - Solo te. Il resto non conta, se posso averti accanto. Ti prego, Anna. - la sua voce si incrinò - Non posso credere che questo sia un desiderio soltanto mio. - Aspettò qualche istante, sperando di ricevere una risposta che non arrivò. - Dannazione, almeno guardami!

La afferrò per le spalle facendola girare nella sua direzione. La forza che mise fu tale da farle volare via la sigaretta dalle dita, che atterrò ad una ventina di centimetri da loro. Nemmeno si era accorto di quello che aveva appena fatto, preso dall’ira.

Però aveva ottenuto quello che voleva: ora Anna lo stava guardando. Un uomo più giovane di lei, elegante ed estremamente curato, dalle scarpe di pelle lucidate alla punta dei capelli, neri e tagliati corti, che i raggi del sole facevano brillare. Un uomo i cui occhi azzurri, resi lucidi dalle lacrime che cercava in tutti i modi di trattenere, dimostravano che quanto aveva detto non era nient’altro che la verità . Occhi che trasmettevano amore ma anche disperazione. Anna si sentì profondamente a disagio a fissarli.

Diego finalmente si risvegliò. Si accorse con quale foga aveva strattonato la donna e subito la lasciò, indietreggiando di un passo. - Mi dispiace. - balbettò, spaventato da se stesso. - Non era mia intenzione.

Anna abbassò il viso, colpevole. - Non fa niente. - sussurrò.

Quello sguardo. Aveva già  visto quello sguardo innamorato.

Ce lo aveva Alessandro quando si erano conosciuti. Ogni volta che uscivano insieme. La notte in cui si baciarono per la prima volta, e tutte le volte seguenti. La notte in cui, sotto i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno, le aveva chiesto di sposarlo.

Era successo quasi quindici anni prima.

Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui aveva visto il lui quello sguardo?

Chiuse di nuovo gli occhi. Si immaginò di tornare in quel corridoio. Immaginò di girarsi fra le braccia di Diego e di ricambiare il suo abbraccio e il suo amore, baciandolo. Immaginò di andare lontano da lì, di esser in una baita innevata, isolati da tutto e da tutti, finalmente insieme e soli. Immaginò di poter vivere la passione che lui nutriva per lei e di poter finalmente liberare la passione che lei provava per lui. Al calore di un camino scoppiettante. Nel calore dei loro corpi.

Si ricordò il giorno in cui lui aveva confessato i suoi sentimenti la prima volta. Erano appena usciti dai consigli della classe che avevano in comune. Era già  buio e non c’era nessun’altro in giro.

Si ricordò la sorpresa e il tepore che aveva provato quando glielo disse.

Si ricordò di come si era immediatamente resa conto di ricambiare, di come avrebbe voluto averlo per sé già  allora.

Si ricordò perché preferì non confessarglielo.

Aprì gli occhi e scoprì che, inconsciamente, aveva preso a girarsi la fede nunziale fra l’indice e il pollice.

Fallo per lui.

Anna tornò a guardare Diego. Gli si avvicinò e gli accarezzò la guancia.

Non gli poté concedere altro.

Non fu necessario aggiungere altro.

Diego aveva già  capito quando aveva sollevato lo sguardo. Un rifiuto. L’ennesimo. Il definitivo.

Ma guardò anche la tristezza negli occhi di lei, quegli occhi un po’ verdi e un po’ ambra di cui si era invaghito fin dal primo istante, e che nonostante quanto stava accadendo in quel momento sapeva bene che avrebbe amato ancora.

Anna provava il suo stesso sentimento, ma non l’avrebbe mai ricambiato.

Fu quella consapevolezza a provocargli la ferita maggiore.

- Non è giusto. - sussurrò, con voce rotta.

- Lo so. - rispose lei, allontanando la mano dal volto di lui.

Sollevò la borsa che aveva ai suoi piedi e la mise sotto il braccio, poi si avviò alla porta antincendio, che, al contrario di come doveva normalmente funzionare, poteva essere tranquillamente aperta dall’esterno.

Mentre questa si richiudeva, notò di sfuggita l’uomo accendersi un’altra sigaretta.

La campanella suonò in quel preciso istante. Non c’era più tempo per pensarci.

 

Anna e Stefano stavano parlando insieme del più e del meno. Il loro rapporto era sempre stato magnifico: lui era un fratello maggiore esemplare, mai dispettoso e sempre disponibile per la sua sorellina, e lei lo adorava per questo e non avrebbe fatta mai nulla che gli recasse fastidio. Tra loro passavano tre anni di differenza, ma era quasi come se fossero stati gemelli, tanto erano uniti.

Fu il rumore improvviso di piatti che si rompevano ad interromperli. Si girarono entrambi in direzione della porta, giusto in tempo per vedere la loro madre correre lungo il corridoio in direzione della camera da letto, in lacrime.

Stefano dalla sorpresa non riuscì a muoversi. Anna invece si alzò immediatamente per indagare, curiosa ma soprattutto preoccupata e spaventata.

I singhiozzi di sua madre erano diventati ancora più forti ora che si trovava sul corridoio, ma non andò da lei. Qualunque cosa fosse successa, qualunque fosse stata la cosa che l’aveva ridotta così, doveva per forza trovarsi nel luogo dal quale era fuggita via. Si mise a correre a sua volta, nella direzione opposta rispetto alla madre.

Si ritrovò nella sala da pranzo. I cocci erano sparsi alla rinfusa per terra, ma lei quasi non li notò. Notò invece le valigie piene di vestiti in fondo alla stanza, che in quel momento un uomo stava sollevando, dandogli la schiena. Questi sembrò invece non aver sentito il suo arrivo.

Anna si pietrificò sul posto. Capì immediatamente.

Una volta uscito, non l’avrebbe mai più rivisto.

Il cuore si fece pesante. La disperazione prese il sopravvento.

Urlò. Gli urlò di restare, di non lasciarli soli.

L’uomo si girò. Finalmente Anna lo poté vedere in volto.

Sgranò gli occhi.

Quell’uomo, che la guardava consapevole e colpevole, non era suo padre. Era suo marito.

 

Si svegliò di soprassalto. Non sapeva più dove si trovava. Si guardò attorno in preda all’angoscia.

Era sera ed era a casa sua, seduta al tavolo della cucina. Davanti a lei, sparsi, i compiti che i ragazzi avevano fatto all’ultima ora quella mattina.

Si era addormentata mentre stava correggendo. Era la prima volta che le capitava.

Sentì dell’umido sopra lo zigomo. Si portò una mano al volto e capì che durante l’incubo aveva pianto. E non era solo quello ad essere umido: anche alcuni fogli protocollo si erano bagnati, facendo colare parte dell’inchiostro.

Si alzò dalla sedia e recuperò dello Scottex per rimediare, tamponando le macchie. Rimasero comunque degli aloni grigiastri.

Cercò di non pensare a quello che aveva visto, ma non ci riuscì. Quegli anni erano stati orribili per lei.

Anche Stefano fu particolarmente colpito da quegli eventi, ma fu forte per entrambi e fece di tutto per poter aiutarla a superare la situazione. Il trauma rimase, ma alla fine si riprese. Anna gli fu sempre grato per la sua presenza e per tutto il sostegno che gli diede da allora in poi.

Se solo fosse stato lì in quel momento.

Le lacrime cominciarono a riaffiorare. Fece un profondo respiro. Buttò la carta usata nel secchione e si avviò all’armadietto dei medicinali per prendere i tranquillanti.

Era successo poco dopo il suo matrimonio. Un incidente. Cose che succedono nella vita di tutti i giorni. Una persona si distrae e colpisce un altro veicolo per sbaglio. Era capitato a tutti. Era capitato anche a lei. Ma suo fratello fu più sfortunato: era in moto e un camion non rispettò il rosso.

Ingoiò un’altra pillola, onde evitare che l’immagine di quel che aveva visto all’obitorio riaffiorasse.

La morte di suo fratello gli fece male tanto quanto la sparizione di suo padre.

Stefano. Suo padre.

Un giorno c’erano. Il giorno dopo no.

Non vedeva alcuna differenza.

Stava riponendo il flacone nell’armadietto quando sentì un rumore di chiavi alla porta d’ingresso e poi qualcuno entrare. Lanciò un’occhiata al suo orologio da polso. Le diciannove e un quarto. Era in anticipo.

Uscì dal bagno e trovò il marito che appoggiava il cappotto sull’apposito attaccapanni all’ingresso.

- Ben tornato. - fece lei, cercando di sorridere. Lui sobbalzò. Non l’aveva sentita arrivare.

- Grazie. - borbottò infine, mentre la superava di lato e si dirigeva verso la loro camera da letto.

Anna cercò di ignorare la sua freddezza e tornò in cucina. Doveva sgomberare il tavolo o non avrebbero cenato.

Alessandro fece la sua apparizione una decina di minuti dopo. Si era tolto scarpe, giacca e cravatta, ma per il resto indossava ancora gli abiti della mattina. Si buttò di peso sulla sedia a capotavola, con un lamento che dimostrava tutta la sua stanchezza.

- Non ti cambi? - chiese Anna, che era indaffarata sul lavello a sciacquare della lattuga.

- Non serve. - rispose lui apatico.

- Non hai paura di macchiarti?

- Tanto poi metto tutto in lavatrice.

- Guarda che il sugo non si leva così facilmente.

- Vorrà  dire che se mi comprerò un’altra camicia.

- Non sarebbe più semplice se mettessi degli abiti da casa?

Suo marito non rispose. Appoggiò i gomiti sul tavolo e si portò le mani sul viso, esasperato. Anna chiuse il rubinetto e lasciò la lattuga nel lavello, per poi asciugarsi le mani sul grembiule che indossava. Abbassò un poco il fuoco sotto la pentola d’acqua che aveva messo a scaldare poco prima e si girò a guardarlo.

Il tempo aveva avuto i suoi effetti anche su di lui. La folta chioma bruna che aveva quando si erano conosciuti aveva lasciato spazio a capelli brizzolati e ad un principio di stempiatura. Era sempre stato estremamente magro, ma il mancato esercizio fisico e le troppe ore passate in ufficio davanti al computer lo avevano reso ipotonico. Anche sul suo viso erano apparse le prime rughe, mentre le lenti degli occhiali diventavano ogni anno sempre più spesse e la montatura sempre più grande.

Eppure continuava ad essere un bell’uomo. Anna ne conosceva anche la mente acuta e la grande cultura. Ne aveva imparato ad apprezzare tutte le manie e continuava a provare un profondo affetto nei suoi confronti.

Ma appunto, affetto. Non amore.

Quello era morto insieme a Stefano.

La depressione distrugge una persona e tutto ciò che lo circonda. Alessandro tentò di rimanerle vicina, ma lui stesso era una persona fragile. Tentò prima di farle tornare il sorriso, poi semplicemente di farla andare avanti. Il tempo non portò miglioramenti, e lui arrivò al punto di non essere più in grado di guardarla. Non vedeva più la ragazza vitale che aveva conosciuto, la ragazza che pensava fosse sempre stata. Non ci riusciva. Così iniziò a distrarsi, ma non passo molto prima del passo definitivo.

Smise del tutto di amarla.

Anna non poté mai biasimarlo, né odiarlo per quanto accaduto. Non era colpa sua. Non era colpa di nessuno. Semplicemente, la vita a volte era ingiusta.

Alessandro spostò le mani dal viso e fece un profondo respiro.

- Anna. Dobbiamo parlare.

La donna girò intorno al tavolo per averlo di fronte a lei. Camminò lentamente, soppesando con cura i passi e senza staccare gli occhi dal marito.

In realtà  già  sapeva cosa voleva dirgli.

La depressione non la rendeva lucida, ma non la rendeva nemmeno cieca. I primi tempi tentarono di far sopravvivere il loro rapporto almeno dal punto di vista fisico, ma la puzza di alcool e di fumo che si portava dietro ogni volta che rientrava a casa alle tre di notte “per problemi a lavoro†non lasciavano alcun dubbio sulle sue frequentazioni. In seguito, forse perché schifato dal suo stesso comportamento, si limitò a parlare con lei, mentre i suoi istinti venivano soddisfatti nei bordelli.

Ma negli ultimi mesi era successo qualcosa.

Gli era tornato lo sguardo.

Se ne accorse una sera, quando lo accompagnò ad un party organizzato dalla compagnia in cui lavorava.

Lei si chiamava Erika. Si era trasferita lo scorso anno e le sue conoscenze nel campo della robotica l’avevano resa l’assistente ideale per Alessandro. Ci mise un po’ per convincerlo a farsela presentare e non le fu difficile capire il perché: non appena le due si strinsero la mano, la ragazza assunse un’espressione di colpevolezza che spiegò tutta la faccenda ad Anna. Ne seguì una conversazione di abbondanti dieci minuti, durante i quali capì come mai il marito si fosse innamorato fino a quel punto per lei.

Fallo per lui.

Alessandro stava con le braccia conserte sul tavolo e il volto rivolto a terra, quasi stesse studiando i suoi calzini grigi. Stava cercando di prendere coraggio. Evidentemente aveva paura di ferire troppo sua moglie. Anna capì, e rimase in silenzio, aspettando che fosse lui a parlare.

In realtà , lei non aveva granché da dire.

In realtà , qualunque cosa gli avesse detto il marito, non si sarebbe sentita ferita.

Sarebbe stata lei a ferire lui.

Alla fine l’uomo alzò la testa. Aveva assunto un’espressione decisa ed era finalmente pronto ad affrontarla.

In quel preciso istante la porta d’ingresso si aprì e richiuse con gran fracasso.

- Sono tornato! - gridò il nuovo arrivato. Nel giro di un minuto un tredicenne anni dalla chioma bruna particolarmente disordinata fece la sua apparizione in cucina.

Anna sorrise in maniera materna. - Ben tornato Paolo. - gli disse, allargando le braccia. Il figlio andò subito ad abbracciarla. Lei gli stampò un bacio sulla fronte. - Allora. Come sono andati gli allenamenti stasera?

- Benissimo! - rispose lui, allontanandosi da lei. - Il mister ci ha anche lasciato gli ultimi venti minuti per organizzare una partitella fra di noi. Sono riuscito a segnare tre reti!

- Tre reti? Wow! Ma è un risultato eccezionale! Potresti davvero diventare un calciatore professionista da grande.

- Nah. - Paolo scosse la testa con energia - Il calcio mi piace, ma non mi ci vedo a fare il calciatore da grande.

- Davvero? - fece Anna, fingendo stupore. In realtà  già  sapeva la risposta alla domanda. - E allora cosa farai?

Paolo fece un ampio sorriso. - L’ingegnere! Voglio essere utile alla mia città  e farla più bella! Progettare nuove strade, ponti… gli ingegneri sono molto importanti!

Anna rise. - Sono sicura che diventerai un importantissimo e famosissimo ingegnere. Ma adesso vai a cambiarti: fra venti minuti si mangia.

- Evviva! - Paolo si entusiasmava davvero con niente. - Sto proprio morendo di fame! Che c’è di buono?

- Uhm… - fece lei pensierosa - Che ne dici di un po’ di farfalle al sugo?

- Farfalle al sugo? Le mie preferite! Grazie mamma.

Detto questo, si mise sulle punte e le diede un bacio sulla guancia, per poi scappare via in direzione della sua camera.

Anna sorrise. Un angelo. Suo figlio era un vero angelo.

E la cosa più bella era il suo essere sempre sereno.

Serenità . Questa era la cosa più importante.

Il sorriso le morì immediatamente. Tornò a guardare il marito nascondendo ogni emozione.

Si fissarono l’un l’altro, in assoluto silenzio. Fu Anna a interrompere il contatto visivo, andando verso i fornelli.

Alessandro capì al volo.

Non aveva bisogno di dire niente a riguardo di Erika. Il discorso era stato già  chiuso.

Sospirò affranto e si alzò dalla sedia per tornare in camera. Avrebbe indossato gli abiti da casa come gli era stato suggerito.

- Alessandro.

Anna lo chiamò che era arrivato sull’uscio della cucina. Si voltò indietro, speranzoso.

Sua moglie fece altrettanto. Per un attimo, girandosi, vide Alessandro nelle sembianze di suo padre.

Rimase totalmente impassibile, ma dentro si dispiacque di dovergli dare quest’altro dolore.

La vita era ingiusta.

Se la situazione fosse stata diversa, l’avrebbe lasciato andare molti anni prima, libero di rifarsi una vita con una donna che potesse amarlo e apprezzarlo come una volta faceva lei.

Ma non poteva dargli questa libertà .

Non per la sua serenità .

- Fallo per lui, Alessandro. Fallo per lui.

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Peter Pan


L'abbraccio del mare


 


 



Il mare di Lerici si destava dal tepore notturno grazie ai flebili sussurri del sole che si affacciava pian piano, sempre più, sulla cittadina ligure.


Il silenzio delle prime ore del mattino era infranto solo dal continuo garrire dei gabbiani, che volteggiavano in maniera pacata e soave attorno agli scogli.


Le prime voci cominciavano ad animare la città .


Una nuova giornata era appena iniziata.


In una palazzina, affacciata proprio sul mare, una giovane coppia faticava a destarsi da letto. Per loro sarebbe stata una giornata tutt’altro che rilassante. Mancavano solo un paio di giorni al loro matrimonio. Già , ancora poche ore e Lorenzo e Sofia sarebbero finalmente diventati marito e moglie.


L’entusiasmo e la gioia si mischiavano alla preoccupazione di essersi dimenticati di qualcosa. Tutto doveva essere perfetto. Tutto doveva essere indimenticabile.


<< Forza! Basta poltrire, dobbiamo fare un sacco di cose >> disse, tra uno sbadiglio e l’altro, Sofia.


Dopo un rapido spuntino si diressero a ritirare i loro abiti nuziali, poi a discutere degli ultimi dettagli per il rinfresco e infine nella chiesetta vicina di San Francesco. Qui si sarebbero celebrate le nozze.


Don Mario, colui che li avrebbe sposati da lì a poche ore, li attendeva per parlare delle gioie e delle difficoltà  che ogni coppia deve affrontare.


<< Il matrimonio è un passo importante. Spesso si bada solo ai regali, agli abiti che devono essere perfetti, alle pietanze del rinfresco. Ma il matrimonio, miei cari, non è una cosa materiale. Sposarsi vuol dire fare un giuramento solenne di fronte a Dio. Voi dopodomani giurerete di amarvi e onorarvi l’un l’altro, senza costrizione alcuna, di esservi fedeli sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, fin che morte non vi separi. Siete pronti a tutto questo? Siete davvero pronti a questo grande passo? >>.


Lorenzo e Sofia restarono qualche istante in silenzio perdendosi l’uno negli occhi dell’altra. Uno strano ameno bagliore inebriava i loro sguardi.


Poi Lorenzo disse: << Padre, è vero, noi non sappiamo cosa ci aspetta. Forse la nostra sarà  una vita difficile, ma noi ci amiamo e sarà  proprio questo smisurato amore che proviamo scambievolmente a riuscire a farci superare ogni prova, ogni difficoltà , che il destino ha in riservo per noi. Noi abbiamo una sola certezza al moment ed è quella di sposarci >>.


Sul viso di don Mario si dipinse un tenue sorriso.


<< In questo caso non ho altro da aggiungere, miei cari. Andate pure. Vi auguro ogni bene. Ci rivediamo fra due giorni. Alle 14:30, mi raccomando! Puntuali!>> disse il prete con aria bonaria.


La giovane coppia uscì dalla chiesa e raggiunse l’auto per l’ultimo viaggio della giornata, quello verso casa.


Finalmente avrebbero potuto rilassarsi.


Era ormai sera e i caldi e focosi colori del cielo al tramonto si riverberavano sul mare.


Il profumo di salsedine e la brezza di mezza estate filtrarono dai finestrini semiaperti della vettura.


Ad un certo punto Sofia disse: << Amore, in realtà  ci manca ancora una cosa, non credi? >>.


Lorenzo, a seguito delle parole dell’amata, iniziò a preoccuparsi. La sola idea che mancasse ancora qualcosa lo terrorizzava.


La giovane allora lo tranquillizzò subito dicendo: << Tranquillo! Parlavo della nostra canzone. Quella che ci riporterà  alla mente questi splendidi giorni e il nostro matrimonio. Non piacerebbe anche a te? >>.


Lorenzo fu d’accordo con l’amata, ma non sapeva proprio che canzone scegliere.


Improvvisamente ebbe un’idea e così disse: <<Ho trovato! Accendi la radio. La prima canzone che troverai sarà  â€œla nostra canzone†>>.


Era una decisione un po’ azzardata. Poteva venire fuori qualsiasi canzone. Tuttavia, dopo un istante di tentennamento, Sofia accese la radio e cercò una canzone.


Eccola!


Era appena iniziata. Un piacevole accordo di pianoforte e batteria a cui seguì la dolcezza di parole una più adatta dell’altra all’esperienza che stavano vivendo.


 


“Non mi stanco ancora


A stare sotto il sole


A prenderti la mano


A dirti che ti amo


Passeranno gli anni


Cambierò colore


Ma io son sicuro che


Saremo ancora noi due


Come l'asino ed il bue


Come il bianco e il nero


Come una bicicletta che va


Sopra la collina


In salita a faticar


E poi giù come a planar tra mille girasoli


Tra tutti quei colori


Verso una piccola Abbazia


Dove ogni giorno che vivrò


Ti sposerò


 Giorno dopo giorno, ora dopo ora


Siamo diventati forti come una verità 


Ricominciamo


Andiamo lontano come sconosciuti


Soli in una grande città 


Ciao piacere come stai


Di che segno sei


Come ti chiami, andiamo via


Lungo l'autostrada con lo zaino in autostop 


Arrivare a Capo Nord tra tutti quei gabbiani


E prenderti le mani


Noi due abbracciati in un igloo


Dove ogni inverno che vivrò


Ti scalderò


Che ogni giorno sia un giorno d'amore


E ogni luna una luna di miele.â€


 


Era “Ti sposerò†di Lorenzo Jovanotti. Una canzone perfetta, al punto che gli occhi dei due ragazzi  furono offuscati da lacrime di gioia.


Sofia poi, con un tremante, disse: << Lore, in realtà  devo parlarti di una cosa. Volevo aspettare il giorno del matrimonio, ma non riesco più a farlo. Beh, vedi… >>.


La giovane fu interrotta dalla brusca manovra di Lorenzo. Un’auto stava per venire loro addosso a tutta velocità . Lorenzo riuscì abilmente ad evitare quella macchina, ma purtroppo l’autovettura si capottò a finì giù per un dirupo.


Lorenzo non riusciva a muoversi e ad aprire gli occhi, ma con la mano destra andò in cerca di Sofia. Sentì la sua mano. Stava tramando.


<< Non lasciarmi… >>. Queste le deboli parole che Lorenzo udì prima di perdere i sensi.


Assordanti suoni di sirene scalpitavano per le strade della cittadina ligure.


Sopra il luogo dell’incidente uno stormo di gabbiani garriva in maniera convulsa.


Una corsa disperata quella di ambulanze e vigili del fuoco.


Ore disperate si susseguirono.


Le lacrime e le urla di amici e parenti, accorsi immediatamente, da una parte e il battito lento e il debole respiro dei feriti dall’altro.


Lorenzo riuscì a destarsi dal lungo sonno dopo una decina di ore. Si sentiva stanco, spaesato, confuso.


Attorno a lui erano radunati tutti i suoi cari che con gli occhi ancora tempestati di lacrime lo guardavano con la gioia.


Le loro parole erano distanti, incomprensibili.


<<Sofia! Dov’è Sofia?!>> gridò con agitazione Lorenzo guardandosi attorno.


In quel momento entrarono i medici. Avevano un viso preoccupato.


Lorenzo li guardò perplesso. Non capiva cosa stessero dicendo. Era come se parlassero un’altra lingua a lui completamente sconosciuta. Ma ecco che alle loro spalle comparve Sofia. Era pallida e con aria assorta.


Il ragazzo non riuscì a trattenersi. Scese dal letto, si vestì velocemente e raggiunse la giovane. Tutti cercarono di fermarlo, ma non ci fu niente da fare.


<< Come sono felice di vedere che stai bene. Sai, mi stavo già  preoccupando, eh! Pensa, anche il destino ha provato a separarci, ma niente e nessuno potrà  mai farcela. Il nostro amore è più forte di ogni cosa. Come mai sei così silenziosa? Preferivi vedermi morto? >> asserì sghignazzando Lorenzo.


I due si diressero all’uscita in attesa dell’arrivo del taxi che Lorenzo aveva chiamato pocanzi.


I medici e i famigliari di Lorenzo cercarono di trattenere quest’ultimo e provarono a parlargli, ma lui non li sentiva. Lì vi erano solo lui e la sua Sofia. Nessun altro.


Dopo una decina di minuti arrivò il taxi. Lorenzo aprì la porta sinistra retrostante della vettura,  fece salire a bordo Sofia e poi si mise al suo fianco.


Detta la destinazione, ovvero l’indirizzo di casa sua, Lorenzo si voltò verso la sua futura moglie. Era immobile, pallida, silenziosa, assorta in chissà  quali pensieri. Il giovane era tentato di domandarle cosa avesse, ma qualcosa lo fermò. Del resto aveva appena subito un forte shock. Preferì lasciarla tranquilla e si mise a guardare il paesaggio.


Il mare era agitato e la scura coltre di nubi che avvolgeva il cielo lo rendeva cupo e minaccioso. Che ne era stato di quel mare materno che per tanti anni lo aveva cullato e rassicurato nei momenti difficili?


Il candido sciabordare delle onde era divenuto un infrangersi repentino di specchi. I frammenti di vetro si scagliavano con forza negli occhi e nel cuore del povero Lorenzo. Quest’ultimo si sentiva sommerso da laceranti ferite. Il povero orfano non riusciva a spiegarsi quella reazione. Cosa aveva sbagliato? Qual era il motivo di quell’abbandono così improvviso, così violento?


Un’immane folgore pervase la zona.


Istintivamente Lorenzo si voltò verso la sua amata Sofia. Era nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata, ancora assorta in chissà  quali pensieri e noncurante delle assordanti e roboanti esplosioni che il cielo rilasciava.


Lei era l’unica certezza che gli rimaneva.


Dopo una ventina di minuti giunsero finalmente a casa.


 


 


Per tutte le stanze era diffuso il fragrante profumo di vaniglia della moglie. Ne andava letteralmente pazza! Lorenzo le aveva ripetuto migliaia di volte di non darsene così tanto, ma in realtà  a lui piaceva.


Il giovane si sentiva come spaesato. Dopo tutto quello che lui e la sua Sofia avevano vissuto sembrava assurdo essere giunti finalmente sani e salvi a casa e poter lasciare quanto successo al passato e dimenticare.


Lorenzo iniziò a girare tutta la casa con passo lento. Sembrava quasi in cerca di qualcosa che neanche lui sapeva con esattezza cosa fosse.


Si fermò improvvisamente innanzi al comodino della camera da letto. Su di esso era posata, in bella mostra, una foto che ritraeva lui e la sua amata Sofia sorridenti su una scogliera, circondati dal vasto mare ligure.


La foto risaliva all’estate di cinque anni prima.


Lorenzo ricordava molto bene quel giorno, indubbiamente il più bello della sua vita.


La giornata era iniziata male. Aveva appena scoperto di avere un tumore maligno e doveva iniziare la chemioterapia al più presto. Il mondo gli stava crollando addosso. Si sentiva ad un passo dalla fine e non aveva la forza di lottare contro un male simile. Era andato nell’unico posto dove sapeva di poter lasciar sprofondare i pensieri, ovvero su una scogliera, piuttosto isolata, della sua amata Lerici. Il mare lo stringeva a sé con la dolcezza di una madre e lo trascinava lontano, nella pace, nella tranquillità  dell’orizzonte.


Purtroppo quella pace era effimera e la realtà  gli sarebbe ripiombata contro più potente che mai non appena fosse tornato alla realtà .


All’improvviso sentì dietro di sé dei passi. Qualcuno si stava avvicinando sempre più.


 D’istinto Lorenzo si voltò e vide una graziosa fanciulla dai lunghi capelli ricci e color dell’oro e gli occhi di un verde smeraldo da lasciar senza fiato. Attorno a sé rilasciava una carezzevole fragranza di vaniglia.


Si sedette accanto a lui, si volse verso il mare e disse: << Anche tu qui per lasciar scorrere via i problemi, vero? Incredibile quanto questo mare ci dia conforto, non credi? Probabilmente se lo dicessimo agli altri ci prenderebbero per pazzi. Beh, pazienza, resterà  il nostro piccolo segreto, il nostro piccolo rifugio dai problemi che la vita >>. Detto ciò si voltò verso Lorenzo e sorrise con soavità  e dolcezza.


Quanta energia si sprigionò da quel sorriso. Lorenzo si sentiva rinquorato e più potente che mai.


Improvvisamente le sue paure furono completamente azzerate e questa volta il merito non era solo del mare.


Il suo cuore batteva in modo così potente che sembrava quasi poter esplodere da un momento all’altro.


Quello era stato il primo incontro con la sua amata Sofia e da allora non si erano più lasciati.


Grazie a lei aveva trovato la forza per lottare contro quel brutto male che lo affliggeva.


Ci volle circa un anno, ma alla fine la chemioterapia riuscì alla perfezione. Lorenzo era salvo e doveva tutto ciò a Sofia.


Erano trascorsi 5 anni da quell’insolito ed indimenticabile primo incontro. Ora finalmente i due ragazzi stavano per convolare a nozze.


Ancora stordito da quel lungo viaggio indietro nel tempo, Lorenzo andò a cercare la sua Sofia.


In quell’istante, però, squillò il telefono.


<< Sofia! Sofia! Vieni qui >> disse Lorenzo mentre si accingeva a rispondere al telefono.


<< Pronto, chi parla? >> chiese il giovane.


Sentiva qualcuno in lacrime e dopo qualche istante, una donna dalla voce tremante disse: << Sono Laura… >>.


Si trattava della madre di Sofia.


Perché piangeva? Cosa poteva essere successo?


Lorenzo si sentì pervaso da un gelido brivido.


<< Laura, è successo qualcosa? Stai calma e dimmi tutto >> disse il ragazzo.


La madre di Sofia, con un fil di voce e in lacrime, continuò dicendo: << … Ho appena perso mia figlia e mi chiedi se è successo qualcosa?! Volevo avvisarti solo che… che… hanno già  eseguito l’autopsia e il funerale si terrà  fra una settimana esatta, nella chiesa di San Francesco. Perché lei e non te… Perché… >>.


Lorenzo era incredulo.


Come poteva essere morta? Erano appena giunti assieme a casa. Cosa stava succedendo?


<< Signora, guardi che sua figlia è qui con me, siamo… >>. Il giovine non riuscì a finire la sua frase. La donna aveva riattaccato.


Lorenzo restò qualche istante in silenzio. Non riusciva a comprendere le parole di Laura. Che fosse impazzita?


Alla fine il ragazzo scoppiò in una lunga risata: << Ahahahah, Sofia, morta... Ma quella donna è completamente uscita di senno ahahah. Sofia! Vieni qui, per favore. Devo assolutamente dirti una cosa. Ti farà  scoppiare dalle risate >>.


Sofia, però, non arrivava.


Lorenzo, allora, andò a cercarla per tutte le stanze della casa.


Non riusciva a trovarla.


Sofia non c’era.


<< Sofia, dai, non nasconderti. Sofia! Esci fuori >> urlò con una calma solo apparente.


Della ragazza non c’era traccia.


Si fermò in mezzo al salotto. Dalla finestra spalancata si facevano largo i caldi raggi del sole, scampato, dopo una straziante lotta, dalla prigionia della minacciosa coltre di nubi. Ne era uscito vittorioso e ora splendeva con gioia sullo specchio d’acqua impreziosito di una folgorante luce di cristalli.


Tutta quella luce attirò l’attenzione di Lorenzo. Questi pian piano si diresse verso la finestra.


Eccolo quell’amato mare materno che a lungo lo aveva stretto fra le sue braccia! Era lì, più bello che mai.


La sua voce, trasportata dal vento, lo chiamava a sé. << Vieni Lorenzo, vieni da me >> sembrava dirgli.


Il giovane, col sorriso dipinto sul viso, si tuffò tra quelle braccia accoglienti, affettuose e materne e sparì in quel trionfo di luci e cristalli.


Commento: il mio romanzo non è d'amore come si potrebbe pensare inizialmente. Il romanzo è tutto basato su un altalenate gioco di mente e natura. La natura rispecchia la mente del protagonista. Questi, non riesce ad accettare la perdita dell'amata e fa di tutto per vederla ancora accanto a sé. Il mare cerca di avvisarlo e l rimprovera per questo suo volersi illudere., proprio come una madre farebbe col proprio figlio. Alla fine una chiamata e la luce, simbolo del risveglio. Solo il mare può donarli la serenità  e armonia in un momento così doloroso.


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