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Il Terzo Salto


Vangel

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Il terzo salto

 

 

 

Non ho mai avuto grandi coinvolgimenti emotivi, né sono quel tipo di persona che ci mette l’anima in tutto quello che fa. Le anime costano, soprattutto ne hai una sola.

Per questo m’infastidisco a sentirmi dire “non t’impegni”, “non stai sputando sangue”, “non ci metti l’anima”: chiaro, se la metti si sporca. Se si sporca perde valore. Se perde valore è un casino.

Una cosa nella quale ricordo d’averci messo l’anima è stata l’accademia.

Ho vissuto a lungo nell’immagine di mio nonno, aviatore di guerra, e quando ho realizzato di voler diventare un soldato sono certo che fosse un equo mix tra retaggio innato e predisposizione mentale.

Sembra figo, ma non lo è.

Meglio: lo è fintanto che non ti scontri con la realtà dei fatti, cioè che non sei il più performante né il più furbo né il più colto o intelligente nella massa umana che aspira al tuo stesso obiettivo. Soprattutto, che i signori dell’Arma non stanno affatto aspettando te piuttosto che un altro idiota sognatore.

Vestire una divisa non è solo saper fare flessioni in serie e correre tot chilometri in tot minuti. È questo più molto altro.

Per essere ammesso, per occupare una di quelle duecento divise disponibili, devi combattere contro migliaia di altri, che nel mio caso furono quarantaquattromila. Devi essere migliore di loro.

Ed è un casino.

 

 

Parliamo di nozioni, di concetti, di logica, di piani d’azione, di sistemi d’arma?

Benvenuti.

Compilai quei test dentro una stanza enorme, colma di un reggimento di sedie e altrettanti candidati, sotto lo sguardo inquisitore di uomini in uniforme. Ero uno tra molti. Speravo di arrivare anche solo lontanamente in graduatoria utile, ma in realtà mi bastava sapere di esserci andato vicino, un modo per ricevere l’affettuoso Dai, quasi! di mio padre, mia madre, mio zio e la composta delusione di mio nonno.

Quando un mese dopo venne il postino, un tale che abitava nello stesso condominio, mi sventolò davanti la busta beige dell’Esercito e un meraviglioso Ma ti sei arruolato?!

Volevo ridere e piangere assieme.

Di quelle duecento divise, in graduatoria, vestivo in quel momento la numero 144.

No, davvero, 144.

Ero arrivato davanti a quarantatremila-ottocento-cinquantasei anime.

Volevo ridere e piangere.

Assieme.

 

 

Un soldato non è solo nozioni.

Un soldato è anche forza, velocità, resistenza.

In altre parole, uccelli per diabetici.

Per i test ci convocarono in un casermone maestoso nel cuore dell’Umbria: era febbraio e faceva un freddo schifoso. Mi ritrovai in una camerata con ogni sorta di marcantonio, gente che avrebbe passato quelle selezioni a occhi chiusi e con le dita nel naso.

E questo è un problema, specie se sei alto uno e settanta, pesi poco più di cinquanta e non hai fatto tutto sto allenamento prima di partire per il meeting col destino.

Avevo una paura del diavolo, paura di sprecare tutto, di fare la peggior figura di sterco della vita.

Quando hai paura, per qualche ragione, catalizzi la sfiga. Quando ti guardi intorno e vedi gente che dovrebbe avere diciassette o diciotto anni ma sembra già un leone a mezza criniera, mentre tu puoi passare al massimo per un bracco, e neanche col pedigree, catalizzi la sfiga.

Catalizzare la sfiga è un altro grosso problema.

 

 

La sera prima dei fatidici test mi salì la febbre.

Forse fu il freddo, forse lo stress, forse la sfiga, forse una gran miscela dei tre.

Presi un lenitivo, attesi appello e coprifuoco, me ne andai a dormire minimizzando, Va’ che domani ti passa, che vuoi che sia, nella testa i rintocchi osceni dell’indisposizione, del dover perdere l’occasione della vita.

Per una febbre.

Non dormii.

La febbre salì, divenne un febbrone. Mi giravo e rigiravo, inquieto, con occhi sbarrati e l’orrore di stare per sprecare tutto ciò cui tenevo. Nelle camerate dell’esercito non c’è mai il buio completo: lampade azzurre illuminano le stanze e i letti a castello. Io stavo lì, avvoltolato nelle coperte, senza vedere soluzione. Imprecavo tra i denti. Tremavo.

 

 

Non la vidi arrivare, non la sentii neanche: a un certo punto semplicemente me la trovai davanti, china sul letto, un sorriso strano incorniciato dai capelli biondi più erotici che abbia mai conosciuto.

Non avevo idea di chi fosse, non l’avevo mai vista, pensai a un’infermiera ma avrà avuto la mia età. Non aveva alcun senso che fosse lì, in camerata, a quell’ora, senza ragione.

Rimasi a fissarla con sguardo allucinato e biascicando frasi in furbish con due occhi che dovevano essere a metà tra attoniti e arrapati.

Proprio stasera ti doveva venire la malaria, sì?, bisbigliò accigliata, ravviando i capelli.

“Eh, la sfiga, la solita, sempre a me, sempre così…”, la lagna che ero uso ripetere in questi casi.

Senti, sorrise bonaria, Io la tua febbre me la prendo, ma tu devi fare un favore a me.

 

“Tu prendi cosa?!”

La febbre. Ma voglio una cosa in cambio.

 

“È uno scherzo, no? Cioè fa parte del test, mi state studiando, potrei diventare una recluta scelta, entrare nei servizi segreti: è questo che significa tutta ‘sta manfrina…?”

Al terzo salto, non alzare il culo.

 

La fissai sconvolto. “Che?”

Al terzo salto, non alzare il culo.

 

“E che ne so, va bene”.

Mi baciò.

Poggiò le labbra sulle mie.

Lo giuro: fu come sentire un battito che non era il mio. Respirare, per un breve attimo, coi polmoni di qualcun altro. Una sensazione che non saprei descrivere, ma che ricordo ancora, a distanza di più di dieci anni.

Mi addormentai quasi subito, e di lei vidi solo un ultimo, benevolo sorriso.

 

 

La mattina, alla sveglia, la febbre era svanita.

 

 

Nella batteria di aspiranti ero il più scarso.

Il più basso, il più magro, quello con la faccia più stupida.

Ma stavo bene.

Davvero bene.

Cominciammo con le flessioni, un tot di fila, guardati a vista da un colonnello dei Bersaglieri.

Ne feci un tot. Persi anche il conto. Mi fermò la voce del suddetto, Oh, quante ne fai? Basta!

Lasciammo per strada marcantoni incapaci di arrivare a farne neanche dieci.

 

 

Toccò alla corsa. Due chilometri in cinque minuti. Tre giri della pista d’atletica.

In allenamento, le settimane passate, avevo sbagliato più volte di quante ci fossi riuscito.

La pista era bagnata, il cielo uno schifo, il freddo pungente.

Corsi due giri da ultimo e staccato.

Il terzo lo feci a mille. Recuperai tutto il terreno perso, mi ritrovai a carburare come Carl Johnson, a lasciare indietro bestioni palestrati col fiatone, a ringhiare loro DAI C.AZZO!, sincero, mentre li superavo involandomi al traguardo.

Arrivai in fondo con anche cinque secondi d’avanzo.

Ci allinearono in fila, sull’attenti, col sergente istruttore a berciarci in faccia SCARTATO o PROMOSSO in base al risultato. Fissavo avanti con la grinta del marine ma dentro ridevo come un pazzo.

 

 

Toccò alle corde.

Salii la mia fino al soffitto, senza problemi, dove altri, ben più muscolari, si lasciarono andare molto prima del drappo da raggiungere.

Dentro ridevo, senza sosta.

 

 

Toccò al salto in alto.

Balzai oltre l’asta bassa.

Balzai oltre l’asta media.

Per la terza asta, quella più difficile, c’erano tre tentativi a disposizione.

Il primo lo sprecai, urtai la barra.

Il secondo lo vanificai allo stesso modo.

Un vecchio ufficiale che assisteva mi fece un segno, mi chiamò vicino. “Alza di più il fondoschiena”, mi disse bonario, “Ce la puoi fare”.

Tornai alla linea di partenza ripetendomi che potevo farcela, che bastava inarcarsi di più; poi, in un attimo fugace, ricordai la notte. La febbre. Lei.

Al terzo salto, non alzare il culo.

 

Partii.

Saltai.

Non so perché lo feci davvero.

L’asta alta non la superai mai. Il mio stupido e certo non ingombrante deretano urtò la barra e la fece cadere per la terza volta.

Salto non valido.

Il vecchio ufficiale scosse la testa.

Ci allinearono in fila, sull’attenti, col sergente istruttore a berciarci in faccia il voto finale e la nostra destinazione: OPERATIVO, oppure RISERVA.

Fissavo avanti con la grinta del marine ma dentro non ridevo più.

RISERVA.

 

 

Non entrai mai nel nucleo operativo dell’accademia. Le porte si chiusero lì e quel giorno, senza possibilità di recupero.

Non sarei stato tra i selezionabili per le missioni.

Non sarei diventato come mio nonno, non avrei visto un campo di battaglia.

Pensai di aver sprecato l’occasione della vita.

Pensai che fosse giusto così: me l’ero cercata. Era colpa mia. Avevo scelto di credere, senza ragione, a una cosa illogica.

 

 

Non seppi mai chi fosse quella ragazza, né la rividi più.

Troppo bella per essere reale, troppo illogico il suo apparire, insensate le sue parole.

A distanza di tempo mi convinsi che non esistesse affatto. Fu con ogni probabilità il frutto di un dormiveglia, della febbre, o del mix delle due cose. Se la salute tornò nell’arco di una notte fu certo merito del lenitivo.

Avevo avuto paura, questo è tutto, una paura folle di mancare le selezioni, e la mia mente aveva creato un angelo perché mi liberasse dal male. Un angelo plasmato su chissà quale immagine già presente nel subconscio, reso illusione, portato a salvarmi dalle febbri e assieme a condannarmi a star lontano dal mio sogno, perché così vanno le cose.

Si dice che la mente degli esseri umani sia capace di imprese meravigliose, e quella notte io ne ebbi la prova.

In fondo, molto in fondo, siamo artefici del nostro destino.

 

 

Di una sola cosa ancora oggi non trovo risposta.

Potrei sbagliare codici di riferimento, la mia memoria essere imperfetta, confondere questo o quel nome, ma una parte di me sa, e sa bene, che solo un anno più tardi quel gruppo, quella batteria, quei pochi che uscirono vincitori da ogni prova, si sarebbero ritrovati in un luogo della Terra che abbiamo imparato a conoscere.

Un luogo il cui nome è entrato nella nostra memoria collettiva.

Un nome che a volte popola i miei silenzi.

Che mi scopro a ripetere nelle occasionali notti insonni.

Nassiriya.

 

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