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[Vangel] Rosso Sangue, Blu Abisso [Storia]


Vangel

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E ci proviamo.

Non so quanto la porto avanti, finché ho tempo, diciamo.

Spupazzatevi il capitolo 1, se ve la sentite.

I protagonisti penso li conosciate, erano tra i miei personaggi preferiti delle vecchie generazioni. :loves:

 

Buona lettura e grazie a tutti!

Ricordate di commentare, se vi va, nel topic apposito:

 

 

 

Tag doverosi:

@evilespeon @Rockink007 @Arock2 @ShadowBlue @NatuShiny

@Vanelope

 

***

 

Link al prologo.

 

 

 

***

 

Capitolo 1

 

La Kawasaki rossa fermò al bordo della strada con un ronzio basso.

Lei smontò di sella con un brivido, qualcosa che le traversò l’anima nel momento stesso in cui poggiò lo stivale corto a terra. Sopra di sé, il cielo grigio e denso del mattino era coperto da nuvole portate dalla brezza.

Intorno il viavai dei colleghi, moto e quad fermi sulla carreggiata; Furio, attaccato al com-link, interruppe per un attimo la conversazione e le fece un segno col capo, qualcosa a metà tra solidarietà e tetro sconforto.

Uno spiro di vento tiepido agitò le fronde degli alberi lungo quel tratto della Provinciale che passava attraverso i boschi della Pedemontana.

Tolse il casco e l’ampia coda di capelli scuri ondeggiò nella brezza come le due folte ciocche spioventi sul viso, l’intera acconciatura tenuta in ordine dalla fascia rossa sulla fronte: Solana Montego abbassò lievemente il capo, la stessa identica sensazione di amarezza che sentiva addosso da quando aveva lasciato il comando per raggiungere il chilometro 24 della Provinciale 14.

La casa, il lastricato che fungeva da sentiero d’accesso: tutto normale, tutto ordinario.

Il cielo grigio.

Si avventurò nell’erba, pochi metri di prato a dividere gli alberi dalla carreggiata, si diresse verso le piante già sapendo cosa avrebbe trovato tra i vecchi fusti e la macchia del sottobosco; l’ombra dei larici la avvolse come un sudario, sensazione di freddo, l’immagine dei tre colleghi che presidiavano pochi metri quadrati di sottobosco: si bloccò d’istinto a un paio di metri, lo sguardo catturato dalla figura a terra, fredda, l’uniforme rossa e nera; Giano Frenesio, medico legale del presidio di Torre Accadica, era chino sulla salma. Accanto, il corpo di Linoone: il bianco del pelame agitato di tanto in tanto da un soffio d’aria.

Chiuse gli occhi, le labbra morsicate in un moto di rabbia e sconforto, girò sui tacchi come se non guardare potesse rendere meno grave il fatto compiuto.

Passi sull’erba: lui si staccò dal gruppo, la raggiunse in un paio di solenni falcate.

“Ehi.” Mano a cingerle una spalla, Solana rabbrividì. “Va tutto bene”.

“Non va tutto bene.” Si voltò di scatto, il viso traversato da un moto di collera: incontrò i tratti forti, marcati, di Lunick Riviera. “Non va tutto bene…”

Occhi negli occhi, quelli castani di lei, quelli scuri di lui; si scostò con un gesto furente, tornò a fissare il corpo senza vita di Timo Nauscas e del suo complementare Mon: gli sguardi degli altri Ranger incollati addosso.

“’Lana,” la voce di Lunick suonò calma, forte, “Dobbiamo restare razionali. Tutti quanti”. Un brivido. “Tutti quanti.”

Le frasche agitate dalla brezza.

Solana ebbe un cenno d’assenso, vacuo. “D’accordo.” Voce un sussurro, polmoni svuotati. “Sono razionale”.

Sentì la mano di lui cingerle un’ultima volta la spalla, poi Lunick passò oltre, la sua figura alta, il corpo dall’ottima muscolatura sul quale la tuta aderente nera e la giacca rossa corta disegnavano ogni dettaglio di un fisico da atleta, corredo d’un volto scultoreo decorato di folti capelli corvini.

“Come,” le parve di non riuscire a trovare la voce, “Come è successo?”

Frenesio levò uno sguardo assieme tetro e profondo, il bianco del camice aperto su una maglia bordeaux, il volto squadrato decorato dai grandi baffi bianchi e dal pizzetto candido. “Stabilirlo è…” pausa, “Complicato.”

“Che significa?” Un respiro feroce, rabbia, sconforto. “Dicevate per radio che è stato…!”

“Ucciso? Sì, forse è andata così.”

“Forse?!”

Solana si mosse, qualche passo per scaricare la tensione, le mani dietro la testa in un gesto di frustrazione. Lo sguardo le cadde, involontario, sul corpo di Timo raccolto al suolo, chinato su un fianco, la divisa rossa e nera da Ranger sporca di terra. Il pallore del volto, gli occhi rimasti aperti e dilatati.

Brivido.

“Non ha ferite o percosse.” Giano aggiustò gli occhiali, tetro. “Gli si è fermato il cuore.”

Silenzio. “Cosa?” Solana un’espressione attonita, le mani aperte, “Che stai dicendo?”

“Arresto cardiaco.”

“Non è possibile.”

“Sono io il medico, Ranger.”

“Timo aveva trent’anni! Era allenato, in salute!” Scalciò il suolo. “E Sikes?! Anche lui è morto di arresto cardiaco?! Vuoi dire che anche a lui si è fermato il cuore?!”

Non ci fu risposta, le fece eco solo il silenzio del bosco, il canto dei passeracei un requiem gioviale e sinistro assieme; gli altri Ranger, immobili, guardavano il terreno, pensieri foschi tenuti in fondo al cuore.

“Per questo,” Lunick voltò appena il capo, “Potrebbe essere stato ucciso o aver avuto un tragico incidente.”

Ucciso,” Solana una nota tremula nella voce, “Chi ucciderebbe un Ranger?!”

Silenzio torbido.

“Non lo so.”

Espirare sconfortato; la ragazza scosse il capo, un solo attimo di quiete emotiva, poi liberò un pugno contro il palmo della propria mano, stridore dei guanti senza dita neri. Sentì lo sguardo di Lunick su di sé, ringraziò che non avesse detto nulla.

Il Ranger si mosse con un altro respiro pesante, accennò verso Giano ancora chino sul collega morto, “Li faccia portare via, doc. E, per favore, si occupi subito dell’autopsia.” Gli rispose un grugnito d’assenso. “Martino,” uno dei due piantoni alzò il capo, “Da’ un’occhiata in giro. Trova delle tracce, degli indizi, qualsiasi cosa, prima che arrivi il Dipartimento.”

“D’accordo.”

“Marti,” sguardo d’intesa, “Fa’ attenzione”.

“Ricevuto.”

Lunick guardò il collega incamminarsi, poi girò sui tacchi, s’avviò nella direzione opposta. “Ehi.” Cinse Solana per una spalla, la obbligò a voltarsi, ne incontrò lo sguardo velato, il bel viso traversato da un livore profondo. “Eravate buoni amici. Mi dispiace.”

La guardò annuire, in silenzio.

“Vieni.” La obbligò a incamminarsi con lui, i loro stivali sull’erba lunga, il suono delle frasche mosse dal vento.

“Spero,” sospiro furioso, “Spero ti renderai conto di cosa significa… di cosa significa se…”

“Non saltiamo a conclusioni. Non sappiamo ancora nulla.”

“Non può essere morto per cause naturali. È impossibile. Sikes… Sikes è morto con lui!”

“A Sikes si è fermato il cuore. Dicono che possa succedere quando la comunione tra uomo e Mon è molto forte e l’essere umano muore”.

“Non è mai stato verificato. MAI. Mon che si lasciano morire di stenti, questo sì, succede; ma che muoiano assieme, nello stesso modo… no, non ci sono prove scientifiche di una cosa del genere.”

Camminarono, senza fretta; attraversarono gli alberi, tornarono sul tratto erboso da cui si scorgeva la strada, i veicoli rossi dei Ranger parcheggiati alla buona. Lunick accennò col capo verso la Kawasaki di Timo rimasta ferma al bordo della carreggiata. “Ho ascoltato la chiamata che ha ricevuto: risale a ieri sera, poco dopo le undici e mezza; una donna ha richiesto assistenza per il proprio Houndour fuggito e forse affetto da malessere, Timo ha raccolto l’appello ed è venuto a controllare.” Alzata tetra di spalle. “Da quel che ho potuto constatare ha rispettato in toto il protocollo. Non ha portato con sé il com-link, ma evidentemente non lo aveva ritenuto necessario.”

Solana increspò le labbra. “E questa donna?”

Il compagno aprì le braccia in un gesto eloquente. “Scomparsa.”

“Che significa?”

“Non c’è traccia di lei.” Lunick indicò avanti a sé, l’abitazione che si ergeva al fondo del breve sentiero lastricato connesso alla Provinciale. “La casa è vuota. Era aperta, ma sembra tutto in ordine. Ho mandato Erasmo a chiedere nelle abitazioni che ci sono più avanti: spero ci chiariscano le idee.”

Solana regalò un’occhiata torbida alla casetta costruita poco prima del limitare degli alberi: una testimone senza occhi né voce; seguì Lunick alla veranda, poi sui pochi gradini. Una targhetta di ferro con Margherita Morán inciso in bel corsivo stava accanto all’uscio; entrarono in quello che era un salotto dall’aspetto curato, accogliente: un camino spento, due poltrone, una sedia a dondolo, decine di quadretti e fotografie alle pareti di legno.

Lei mosse qualche passo, il rumore dei propri stivaletti sulle assi di legno del pavimento; raccolse dallo scrittoio un portafoto di cui contemplò l’immagine incastonata: una donna sui sessanta, sorridente,un cucciolo di Houndour tenuto al petto.

Sembrano felici.

Ripose il quadretto.

“E questa donna ha chiamato ieri sera per chiedere assistenza?”

“Sì.”

Altre occhiate intorno, la ricerca affannosa di un qualsiasi indizio che desse un senso, anche remoto, alla notte orribile appena conclusa; Solana si spostò, raggiunse il lato lontano della stanza, si avvicinò allo specchio lungo e stretto che campeggiava sulla parete di fondo. Guardò la propria immagine riflessa, la tuta aderente nera ad avvolgerla dal collo fin sotto le natiche, esaltare curve e forme di un corpo allenato e modellato, la giacca rossa corta, risvolti bianchi, indossata di sopra; poi le calze nere e lunghe, sintetiche, alte fin sopra il ginocchio. Stivaletti, mezzi guanti, la fascia rossa a reggere l’acconciatura, il cinturone bianco con torcia, kit da arrampicata e Sarissa.

Ranger.

“Che senso ha?”

“Cosa?”

Lei accennò col capo. “Uno specchio qui,” si voltò, “Esattamente di fronte alla porta d’ingresso.”

Lunick alzò di spalle. “Lo trovi rilevante?”

“Non saprei.”

Vagare di sguardi, il vano scala aperto alla sua sinistra, una rampa tortile che portava al piano superiore.

“Ho già buttato un occhio di sopra,” la anticipò, “Non c’è niente di anomalo.”

“Una donna chiama per assistenza, Timo raggiunge il posto. Lei scompare, lui perde la vita per un arresto cardiaco, e Sikes con lui.” Brivido. Guardò Lunick con un tremolio di consapevolezza nelle iridi. “Ha evocato Sikes. Lo ha fatto uscire dalla sfera.”

“Per qualche ragione era in difficoltà.”

Silenzio.

Pensieri a rincorrersi, pungolarsi. Senso d’inquietudine.

“Usciamo?” Il compagno ammiccò dietro di sé, “Non credo che questo sia il posto dove cercare risposte.”

Lei assentì, fece per seguirlo alla porta. “Aspetta.” Si bloccò, Lunick fece lo stesso sulla soglia dell’abitazione. “Chiudi la porta, per favore.”

Un momento di silenzio perplesso, poi eseguì: Lunick Riviera si ritrovò a guardare se stesso, disegnato nello specchio lungo e stretto che campeggiava sulla superficie interna della porta. Batté le palpebre, inespressivo.

“Un riflesso infinito.” Solana e la propria immagine ripetuta decine di volte, in ambo le direzioni, dai due specchi perfettamente contrapposti, un lato e l’altro del salotto.

Il compagno ebbe un’alzata lieve di spalle. Aprì la porta, tornò sulla veranda: guardò il cielo grigio del mondo di fuori, i prati, i boschi della Pedemontana; sensazioni cupe che tenne per sé, confinò in fondo all’anima.

“Lunick!” Martino comparve dalla linea degli alberi alla sua destra, l’espressione contrariata; si avvicinò a passo spedito. “Non ho trovato nulla di rilevante, eccetto alcune tracce di Mon, direi un canide. Credo abbia girovagato in zona per parecchio, molte volte le orme sono sovrapposte, poi deve essersene andato. A una cinquantina di metri in quella direzione iniziano gli acquitrini, e lì,” smorfia di fastidio, “Lì non è che puoi fare ricerche senza attrezzatura, né sperare di trovar tracce.”

Silenzio consapevole.

“Nessuna idea su dove potrebbe essere finita la donna che abitava in questa casa?”

“Non ho trovato segni di passaggio umano, se è questo che intendi.”

“Non mi riferivo solo al passaggio.”

Silenzio grave.

“Senti,” Martino fece un cenno nervoso, “Timo e Sikes sono morti, d’accordo? E non… non è una cosa cui siamo preparati. Mi stai chiedendo se il cadavere di quella donna può essere dentro la palude? Certo che può essere. Tutto può essere!” Pausa. “Dammi tregua, d’accordo?” Scosse il capo, una mano passata sulla testa rasata, poi si scostò, qualche parola masticata a mezza voce.

Lunick sentì gli occhi di lei su di sé: si voltò a guardarla, sulla veranda, lo sguardo mesto. “Come fai,” la sentì scandire, “A essere così…”

“Insensibile? È questo che vuoi dire?” I tratti induriti da una venatura di sdegno. “È questo che pensi di me, ‘Lana? Che non me ne importi nulla di Timo, di Sikes, o di questa donna che è scomparsa col suo Houndour?”

Lei vagò lo sguardo, confusa. “Non… non volevo dire questo.”

“Cosa allora?”

“Siamo… siamo tutti scossi, Lunick. Invece tu… tu riesci a essere sempre presente. Anche in una situazione del genere.”

Ammiccò. “Cerco di restare razionale, ‘Lana. Lo faccio per tutti. Guardati intorno: dimmi se uno solo degli altri ti sembra concentrato abbastanza da poter portare avanti un’indagine.”

“No. No, nessuno di noi lo è.”

Lunick mosse un passo, le fu accanto. Rilassò i tratti in un sorriso accennato: la sua mano dai mezzi guanti neri le sfiorò una guancia, gentile, inaspettata, occhi negli occhi in un semplice momento, qualcosa che la lasciò confusa e inquieta, fremente.

“Allora capisci perché devo continuare a essere razionale?”

“Sì…”

Occhi negli occhi. Il sorriso di lui, genuino, le scaldò il cuore, le ricordò il Lunick che conosceva fin da bambino: l’uomo più generoso che avesse mai conosciuto.

“Scopriremo cosa è successo, ‘Lana. È una promessa. Che manterrò, se mi darete il vostro aiuto,” le poggiò un indice contro la tempia, “Se resteremo tutti concentrati.”

Lei annuì appena, il contatto sensoriale interrotto, quella specie di legame affettivo che aveva sentito crescere per un singolo momento: Lunick Riviera si scostò senza aggiungere altro, richiamato dal suono di motori dalla strada. Due volanti e un sidecar bianchi con l’emblema della Polizia di Torre Accadica si fermarono sulla carreggiata, ne smontarono una mezza dozzina di agenti in camicia azzurrina e calzoni blu elettrico. Il prefetto Gordini, un uomo sui cinquanta, tarchiato, calvo, dai grandi baffi bianchi, li raggiunse trafelato; salutò con voce burbera nelle cui note strideva un malcelato senso d’inquietudine. “Allora mi hanno detto, mi hanno informato,” il cappello d’ordinanza ficcato sottobraccio, occhiate nervose intorno, “Condoglianze a tutti i Ranger, nessuno… nessuno poteva immaginare una cosa del genere.” Incontrò lo sguardo severo di Lunick, raschiò la voce, “Ma ora, ora non dovete preoccuparvi di nulla, i miei uomini scopriranno molto presto cosa è accaduto, sistemeremo questa faccenda in breve.”

Battito di palpebre, lui. “Non ne dubito.”

Gettò un’occhiata ai poliziotti che, accanto ai propri veicoli, guardavano inorriditi la barella su cui transitava il corpo di Timo Nauscas, celato da un telo bianco, una mano non coperta rimasta contratta come a brancicare il nulla, qualsiasi cruenta emozione dovesse aver percepito negli ultimi istanti di vita; come lui il compagno Mon sulla barella successiva.

Gordini allentò il colletto della camicia, inspirò rumorosamente, “Sistemeremo questa faccenda, e con molta discrezione”.

Appena un cenno, il ragazzo, quella differenza di statura a marcare un divario che non era solo fisico. “Buon lavoro, prefetto.”

“Sì, certo, certo.”

Lunick gli passò oltre, Solana lo seguì da presso. Camminarono sull’erba, fino alla strada, un cenno del capo agli agenti che si guardavano l’un l’altro in attesa di istruzioni.

“Ci vediamo al comando,” Solana, cupa, montò in sella con un movimento elegante; interruppe il flusso dei pensieri quando Lunick le si chinò sul parabrezza della moto, la stessa espressione torbida sul bel volto marcato, gli occhi scuri.

“Resta inteso”, scandì lui, “Che continueremo a cercare la verità per conto nostro. La polizia non troverà nulla: dovremo fare da soli.”

Lei annuì appena, uno sguardo agli agenti che confabulavano animatamente. “Credo sia la prima volta che vedono un cadavere in vita loro. D’altronde,” un sospiro amaro, “Siamo a Torre Accadica: quando mai capita qualcosa di brutto a Torre Accadica?”

Increspatura delle labbra, qualcosa di simile a un sorriso sui tratti di Lunick Riviera. “Se ne occuperanno i Ranger. Me ne occuperò io. E voglio il tuo aiuto, ‘Lana.”

“Certo”.

“Ne abbiamo passate tante assieme.”

Lei abbassò lentamente lo sguardo, un velo di mestizia, cercò conforto nel candore della ghiaia. “Supereremo anche questa.”

Lo sguardo di Lunick fiero, penetrante, le ricordò quell’Eden in cui aveva creduto di potersi perdere, forse per sempre, in un altro tempo e in un altro luogo.

Niente è mai riuscito a cambiarti.

Infilò il casco, attese il suo scostarsi, poi accese la propulsione della Kawasaki.

E non potevo riuscirci io.

Avviò la moto sulla strada, gli occhi di lui ancora addosso, sottilmente complici. Solana Montego lasciò quel luogo di dolore ascoltando il vento tra i larici della Pedemontana, sul cuore una danza di fantasmi, vecchie paure, ricordi indelebili.

Un abisso blu profondo.

 

***

 

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***

 

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***

 

“Allerta meteo? Bah.”

Porte scorrevoli aperte sulla modesta sala di controllo del comando Ranger di Torre Accadica, l’odore del caffè mattutino, le poche figure assorte su schermi e com-link, un alone di mestizia che era solo il riflesso della notte appena trascorsa.

Brigette Azura prese un sorso dalla tazza del ginseng, il piattino nella sinistra e quella posa aristocratica per la quale era già diventata icona nel comando. “Ve l’ho detto: avete un sistema operativo sub-ottimale, gestite un database come la Banca Mon con processori ridotti e connessioni in remoto, accedete all’Aeon e alla mappatura Viridant da ripetitori vecchi di otto anni. Se lasciaste a me la revisione dei router e dei terminali vi farei dimezzare i tempi di connessione e di accesso alla struttura dati.”

Il Ranger Tessandra, concentrata sulla schermata attiva delle perturbazioni meteorologiche, si limitò ad assentire come aveva fatto altre volte nel corso dell’ultima mezzora.

Scosse il capo, Brigette, poi ebbe un mezzo sorriso di sopportazione. Ciondolò un piede, un gesto consono col quale ingannare l’attesa.

Le porte scorrevoli della sala si aprirono di nuovo: Lunick Riviera fece il suo ingresso, la carta magnetica lasciata sul tavolo di servizio, “Cambiamela, Ezio, questa non va di nuovo.”

“Ancora?” lui alzò gli occhi dal registro, un gesto delle mani, “Ma che problema hai con queste tessere?” Non ottenne risposta. Brigette alzò le sopracciglia, “Uh-oh, maschio alfa in avvicinamento.” Attese, sorniona, il ginseng nella mano, che Lunick le transitasse accanto.

“Interferenza magnetica,” lo apostrofò con un sorriso scaltro.

“Prego?”

Lei indicò col mignolo il suo cinturone. “Ho casualmente esaminato una delle vostre Sarisse: il campo di contenimento della resistenza è magnetizzato, se conserva la tessera in una scarsella accanto alla fondina è inevitabile che essa si smagnetizzi dopo pochi giorni.”

Lunick la squadrò per un lungo momento, la silhouette elegante di lei, alta, snella, un semplice vestito corto bianco a righe verticali, senza maniche, le lunghe gambe nude, ai piedi un paio di crocs verde lime: abbozzò un sorriso. “Non so mai se stupirmi per il suo talento o per le bizzarre scelte cromatiche del suo abbigliamento, signorina Azura.”

Brigette sorrise ancora di più, spietata, “Il talento vale poco senza estro.” Uno scuotere lieve della chioma castano lucente, piastrata in ciocche e ciuffi a conferirle un aspetto leonino.

Lunick ammiccò appena, le passò oltre senza aggiungere una sola parola. Si diresse ai pochi metri quadri del proprio ufficio; lei poggiò il ginseng, lo seguì con un’alzata d’occhi al cielo. “Mi ascolti,” sottile vena polemica nella voce, “Non le ruberò molto tempo, ma ho bisogno che”, lo guardò sedere alla scrivania, accendere lo schermo del terminale, connettere il proprio pad alla presa esterna, “Che mi dia retta per qualche minuto.”

“Non ora.”

Brigette s’appoggiò sonoramente al tavolo, due occhi spiritati di un castano quasi dorato: pretese il suo sguardo con un’imposizione autoritaria del proprio. “Senta, Ranger Riviera,” l’espressione orgogliosa pure sottilmente beffarda, “Mi aveva già detto ieri Non ora, e lo stesso l’altroieri. Sono due giorni che mi trovo in questo ridente paesello e non riesco a fare ciò per cui sono venuta. Capisco che sia successa una cosa grave, ma io sono stata mandata qui dal ministero per ammodernare la rete informatica di questo comando e delle vostre stazioni di ascolto sul territorio: mi faccia fare il mio lavoro e io le lascerò fare il suo.”

“Forse le è sfuggito che la cosa grave cui si riferisce è la morte di un mio collega. Lei viene da Porto Selcepoli, e forse nelle metropoli siete abituati a vedere la gente che muore, ma qui non funziona così. Qui vivono persone perbene, qui nessuno ruba, ammazza o distrugge: quello che è successo stanotte è grave, e richiede tutta la mia attenzione.”

Brigette aprì le braccia con un sorriso sarcastico, si scostò di qualche passo dalla scrivania verso la finestra. “Veramente? Vuol davvero metterla su questo piano? Ha ragione, comunque: nelle grandi città le cose brutte succedono, quasi tutti i giorni. Ma questo non le rende meno brutte, glielo garantisco. Deve indagare sulla morte del suo collega? Molto bene! Il caso ha voluto che io sia qui, caro Ranger, e forse la mia presenza potrebbe esserle più d’aiuto che di disturbo.”

“Non vedo come.”

Lei espirò, un abbozzo di risata sarcastica. “So,” gesto vivace delle mani, “So che lei non ha mai sentito il mio nome prima d’ora, come forse nessuno in tutta Torre Accadica, ma io non sono un semplice tecnico dei computer. Io sono una programmatrice, una sistemista. So che non ci avrà mai fatto caso, ma quando accede alla Banca Mon compare il logo Azura, e Azura è il mio cognome, signore.” Fece una pausa ispirata. “Ho ideato, progettato e realizzato l’intera rete della Banca Mon, così come le piattaforme dell’Aeon e tutte, dico tutte, le banche dati che sostengono la mappatura satellitare Viridant. Programmi come Solicitus, per la generazione dei codici univoci Mon, e Feora, per la catalogazione dei genotipi Mon, sono tutti opera mia. E voi li usate abitualmente, fanno parte del vostro lavoro. Nel suo piccolo ufficio da città campagnola, Ranger Riviera, c’è la mente creatrice degli strumenti coi quali lavora tutti i santi giorni: non crede sia il caso di sfruttare la circostanza?”

Un sospiro paziente, lui. “Di cosa ha bisogno?”

“Lieta che me lo abbia chiesto.” Brigette si issò a sedere sul davanzale interno della finestra, un movimento elegante col quale accavallò le gambe; esibì una mano, “Voglio le chiavi magnetiche di accesso al mainframe e ai router del comando e della torre radio; disponibilità a togliere corrente al sistema per sessanta minuti,” ogni voce conteggiata con le dita, “Accesso a un terminale remoto del comando; un accompagnatore che mi porti domani pomeriggio al ripetitore principale; un invito a cena da parte sua per questa sera.”

Silenzio.

“Come sospettavo, la sua presenza è impegnativa.”

Un altro sorriso caparbio. “Quale dei cinque punti le crea maggiore disturbo?”

Lunick scosse il capo. Si alzò dalla scrivania, lasciò l’ufficio per quello amministrativo lì accanto, recuperò le tessere magnetiche dalla cassaforte, rientrò concedendo solo uno sguardo calibrato a lei, ancora seduta sul davanzale, e quelle gambe accavallate in un sapiente gioco di luce su pelle liscia come il marmo. “Le tessere. I codici di accesso può domandarli a Ezio, che le assegnerà un qualsiasi terminale libero. Per la sospensione della corrente potrà utilizzare la fascia oraria del mezzogiorno, ma solo previa conferma mia o del Ranger più alto di grado presente in sala a quell’ora. Per quanto riguarda il passaggio al ripetitore principale le assegnerò qualcuno domani pomeriggio. Qualcos’altro?”

“Nulla, a posto così,” Brigette mantenne un’espressione sorniona sul viso; scese dal davanzale con gesto elegante, “Ci vediamo questa sera, allora. Si vesta bene, mi raccomando.” Fece per uscire dall’ufficio, si fermò sulla soglia, le sopracciglia inarcate e un ammiccare lieve verso il cinturone di lui, la piccola sfera color rubino assicurata al fianco. “Mi tolga una curiosità: dicono che il suo Mon non appartenga a una specie comune.”

“È così.”

Attimo di silenzio carico, lo scintillio carminio del globo. Brigette seppe che Lunick Riviera non avrebbe approfondito la questione; lasciò l’ufficio con un cenno di saluto cui lui non rispose.

 

***

 

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***

 

Piegò in curva, la strada un serpente tra gli alberi, luce grigia del giorno filtrata da rami e fronde.

Spinse la moto ancora più veloce, piegando su un lieve dislivello, seguendo il tracciato dell’asfalto come un sentiero verso il nulla.

Solana Montego lasciò fluire l’adrenalina, scorrere libera nelle vene, mordere come una bestia feroce: il vento sulle braccia, tra i capelli che stormivano fuori dal casco, era una carezza violenta.

Poi frenò con una pressione calibrata delle dita, rallentò, fermò la Kawasaki al bordo della strada; rimase in sella fissando il nulla nel ronzio basso del motore elettrico.

Ha ragione Lunick.

Senso di freddo, consapevolezza.

Non siamo pronti per veder morire qualcuno. Un amico, un collega.

Guardò la natura intorno a sé, i grandi alberi del bosco, le piante, il tappeto di foglie cadute.

Ha ragione Lunick: viviamo troppo lontani dalle brutture dell’umanità per poterle accettare.

Qualcosa di simile a un sorriso le apparve sul volto stanco, una nota di colore sulla tela bianca del mondo, su quella verdeggiante del bosco.

Siamo diversi. Noi abbiamo la natura. Abbiamo i Mon. Viviamo in questo mondo che è nostro dovere proteggere e tutelare.

Un tocco alla cintura dove la sfera del proprio complementare pendeva inerte.

Il nostro dovere.

Accelerò a vuoto per un solo momento: ripartì. La silhouette rossa della moto sfrecciò su per un tornante, varcò il crinale, iniziò la discesa sotto una cupola verdeggiante, giochi di luce filtrati dalla volta boscosa.

Si sentì libera, sferzata dal vento e lanciata in corsa sul rettilineo: paure, timori, desideri e ossessioni, tutto svanì per pochi e grandiosi momenti.

Libera.

L’occhio le cadde su qualcosa a destra della carreggiata, nel sottobosco, un insieme di linee che colse nonostante la velocità.

Qualcosa.

Rallentò bruscamente, scartò a bordo strada; fece inversione con un piegare deciso dello sterzo, piede a terra a fare da perno. Tornò indietro di svariati metri, frugò con gli occhi il lato ora alla sua sinistra: la cosa era lì, abbandonata sul terreno, tra le foglie secche. Solana fermò la moto; smontò con lo sguardo fisso, inchiodato su di essa. La strada era deserta e il bosco silenzioso: si sentì immersa in una cappa di nulla. Tolse il casco e lo lasciò sulla Kawasaki.

Camminò, ebbe un brivido quando le prime foglie scricchiolarono sotto le suole dei suoi stivaletti.

È un…

Freddo.

Un Mon.

Corpo immobile, quasi due metri di creatura riversa al suolo, il pelame di un marroncino sabbia carezzato dalla brezza. Solana sentì il respiro accelerare, qualcosa di gelido percorrerle lo spirito. Un passo alla volta si accostò, si chinò lentamente sulle ginocchia: iridi tremule a vagare sulla grande schiena sporca di terreno, il palco di corna adagiato al suolo.

Mon base, tipologia: cervide, specie: Stantler.

Notò la posa contorta delle zampe, ripiegate sul ventre, il collo chinato in basso.

Allungò una mano per toccarlo, sentì il pelame ispido e umido sotto le dita.

Un solo attimo di attesa, pesante, poi la creatura mugghiò, scattò all’impiedi con un movimento orribile, disperato. Si voltò a guardarla e, per un attimo, un lungo attimo, in quegli occhi selvatici Solana vide la paura cieca.

Vide l’orrore.

Il volto del cervide non c’era.

C’era il bianco logoro del teschio e il rosso lattiginoso di occhi animali terrorizzati

Arretrò sconvolta, spaventata, il cuore a batterle sullo sterno. Lo Stantler si divincolò con una contorsione terribile, scalciò il vuoto, poi corse via nel sottobosco, svanendo tra gli alberi in penombra.

Scese il silenzio, rotto solo dal respiro affannato di lei.

Non è possibile, non è possibile.

I suoni di colpo mostruosi del bosco, il canto dei passeracei, la brezza tra i rami, il frinire degli insetti. Solana si voltò di scatto verso la strada, gli alberi, il nulla.

Un senso di minaccia illogico e scatenato.

Si guardò intorno, febbrile, con la sensazione d’essere osservata, guardata, fissata.

Un verso profondo nella testa.

Portò una mano al capo, sentì la tempia pulsare sotto la fascia rossa.

Ti stai suggestionando.

Cadde a sedere sul terreno, arrancò per un attimo, la voce soffocata dietro un singulto, cercò di allontanarsi, scrocchiare delle foglie secche sotto le dita.

Paura irrazionale.

Solana portò ambo le mani alla testa, ansimante, il volto imperlato di sudore: vide la sfera assicurata alla propria cintura baluginare d’azzurro, il richiamo del complementare Mon che avvertiva il suo caos interiore.

“Zefiro,” un filo di saliva al lato delle labbra. Afferrò il globo, lo sentì caldo: il tepore irradiò dalle dita lungo il braccio, le trasmise un senso di quiete e sicurezza che non avrebbe mai potuto trovare altrimenti.

Chiuse gli occhi, li riaprì. Inginocchiata al suolo, ansante: Solana si rialzò in piedi; fissò la propria mano che tremava e riportò lo sguardo ai boschi intorno.

Non c’è nessuno. Sono sola.

Vagò gli occhi, il respiro affaticato: sola tra la strada e gli alberi del bosco. Tornò sui suoi passi strascicando i piedi, raggiunse la moto, vi si appoggiò per riprendere fiato un istante, poi afferrò il com-link, un tocco all’attivazione.

“Comando,” cercò la voce dal fondo dei polmoni, “Parla Montego. Emergenza: ho avvistato uno Stantler in forte stato alterato. Chiedo assistenza immediata. Sono al,” attivò la mappatura satellitare sul pad della moto, “Chilometro 48 della Provinciale 3, nel tratto boschivo.” Pausa amara. “Ho avuto un malore.”

Scarica statica.

“Qui Comando: ricevuto ‘Lana, assistenza in arrivo!”

 

***

 

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***

 

“’LANA!”

Lunick Riviera fece inchiodare la moto dopo un ultimo, poderoso sprint sul rettilineo: si fermò brusco a bordo strada, smontò lasciando spegnere in automatico la propulsione, tolse il casco con un gesto furioso.

“’Lana.”

Lei era lì, appoggiata alla Kawasaki, lo sguardo cupo; le fu accanto in una sola falcata, la prese per le braccia.

“Ehi. Stai bene?” La guardò annuire. “Che diavolo è successo?!”

Il ronzio sordo di altre due moto giunse dalla strada: Martino e Ampo rallentarono e si fermarono lì accanto, tolsero i caschi, le stesse espressioni preoccupate sui volti.

Solana non rispose, si limitò ad accennare al bosco. “Ho trovato uno Stantler, lì, a bordo strada. Sembrava…”

“Dov’è ora?”

Deglutì, la voce impastata. “Quando l’ho sfiorato si è ripreso ed è fuggito, ma era fuori di sé.”

Martino smontò dalla moto, prese a ispezionare l’erba e le foglie cadute.

“Lunick…” Il tono di lei si fece tremulo, animato.

“Sono qui.”

“Sembrava mutilato.”

Silenzio.

“Mutilato?”

Solana annuì appena, sentì la mano tremare di nuovo: il capo ischeletrito dello Stantler le era rimasto impresso da qualche parte nella testa e non c’era verso di mandarlo via.

“Come sarebbe?” Ampo scese di sella, l’espressione sconvolta.

“Gli mancava la pelle dalla testa. Da tutta la testa.”

Il silenzio dei suoi colleghi rese solo più spaventoso quello del bosco intorno.

“Ma non è possibile.”

“L’ho visto bene. È stato,” inspirò a fondo, “Orribile.”

“Non è opera della natura. Nessun Mon selvatico farebbe una cosa simile. Questo… questo è assurdo.”

“Ed è fuggito?” Lunick sondò il suo sguardo, lei accennò dritto verso la linea degli alberi. “Stai bene?”

Solana annuì ancora, mesta. “Ho avuto un mancamento. Ora va meglio.”

“’Lana,” Ampo le si avvicinò, scrutandola, “Hai uno sguardo strano.”

“Sto bene.”

“Ragazzi,” Martino li interruppe con un cenno, qualche passo più in là, sul prato, “Io qui non vedo tracce.”

“Era lì,” mormorò lei, “Proprio dove sei ora.”

Il Ranger scalciò le foglie cadute, si chinò di nuovo a spazzare il terreno lì intorno; rialzò lo sguardo con un certo senso di disagio, la mano passata sulla testa rasata. “Mi spiace, ‘Lana, non vedo tracce.”

“È corso via verso gli alberi, troverai i segni degli zoccoli.”

Martino si mosse, continuò a ispezionare il suolo; un minuto dopo rialzò gli occhi verso di loro con la medesima espressione costernata.

Solana sentì su di sé gli sguardi preoccupati di Ampo e Lunick, un senso di fastidio le traversò le fibre. “L’ho visto, l’ho toccato, dannazione! Devono esserci delle tracce!”

“’Lana…”

Lei si scostò dalla moto con un gesto inconsulto, una mano portata al capo per massaggiare la tempia. Ebbe voglia di piangere, represse tutto dietro una smorfia di rabbia e dolore. “Era lì. L’ho visto e l’ho toccato.”

“Mi permetti,” Ampo mostrò i palmi come a dimostrare le sue buone intenzioni, “Di controllarti le pupille?”

Un lungo attimo di nulla, poi la ragazza annuì.

Ampo prese dal kit medico la mini-torcia oculare, le cinse con delicatezza il viso, esplorandole le iridi col fascio di luce candida. “Lievemente dilatate.”

“Sto bene, ho detto.”

Si scostò da lui, prese a camminare lentamente intorno.

“’Lana…”

“Non mi credete?” Si voltò di scatto verso Lunick, irata, tesa. “Pensi che abbia inventato tutto?!”

“Penso che tu non sia in te.”

“C.azzo,” Martino passò una mano sulla testa rasata, vagò d’iridi intorno, “Questa storia non mi piace. Non mi piace affatto.”

“Calma,” Lunick si voltò cupo, un indice ammonitore, “Troveremo una spiegazione.” Tornò a guardare la compagna. “So cosa pensi. E non credo che ci sia,” scandì a denti stretti.

“Che ci sia cosa?”

Un collegamento. Tu pensi che questo c’entri con Timo, con quello che è successo stanotte.”

“Io non lo so cosa pensare. Non lo so. Non ci riesco neanche, a pensare, in questo momento.”

Lunick Riviera ebbe un gesto di stizza. “Sta succedendo qualcosa, è evidente. Dobbiamo capire che cosa.

Diamo un’occhiata nei paraggi: qualcuno può aver visto qualcosa di insolito. Tu,” guardò lei con apprensione, sincera preoccupazione, “Vorrei che tornassi al Comando, a riprenderti. Non sei in te.”

Qualche cenno d’intesa, non aspettò conferme: si diresse alla propria moto, montò in sella con fare imperioso, scuro in volto; la mano di Solana gli si poggiò su un braccio, accorata. Occhi negli occhi, un momento carico.

“Lunick…”

“Ti ascolto.”

“Ho avuto,” brivido, “Paura.”

Silenzio.

“Non te ne faccio una colpa.”

“No, non intendevo… Non era normale paura. Non era normale paura. Ho sentito come un… un panico improvviso, un senso di,” pausa, “Orrore. Non mi era mai capitato prima.”

“Non ti era mai capitato di assistere a una cosa così assurda. Eri da sola. Potevano cedere i nervi a chiunque.”

“Li conosciamo questi boschi! Non celano insidie; chi sa come muoversi, chi conosce i Mon, che cos’ha da temere?! Siamo Ranger, questo è il nostro mondo! Io ho avuto paura, Lunick,” un indice puntato verso la vegetazione intorno, “Per la prima volta in vita mia ho avuto paura di quegli alberi, di ciò che possono nascondere. Ed è stata una sensazione orribile.”

Qualche istante di nulla, poi lui prese un respiro, ebbe l’impulso di sfiorarle il viso: si trattenne. “Non hai avuto paura di quegli alberi, ‘Lana. Hai avuto paura di ciò che non hai compreso. L’ignoto fa paura a tutti. Anche a me.” Pausa. “Ci sarà una spiegazione razionale per quel che hai visto, ne sono certo.”

Annuì appena, lei, lo sguardo denso, profondo come la notte. “C’è un’altra cosa.”

“Parla.”

“Zefiro ha cercato di comunicare con me,” un tocco alla sfera inerte assicurata al cinturone. “Da quando è il mio complementare sarà capitato al massimo un paio di volte, e solo nei momenti di reale necessità.”

“Deve aver percepito la tua paura.”

“È così. Ma questo vuol dire che il pericolo era reale.”

“Forse. O forse tu lo hai reso tale. Pensaci: il tuo legame spirituale è forte, Zefiro sente la tua paura, anche se è irrazionale, e cerca di infonderti sicurezza.”

Vagare d’iridi. Solana assentì, umettò le labbra. “Forse hai ragione.”

“Risolveremo questa cosa”. Digitò due coordinate sul pad della moto. “In sella. Ci dividiamo più avanti, io darò un’occhiata alla frazione di Opalina; voi due proseguite verso le fattorie che stanno più a nord, fate domande, sondate se è tutto in ordine o se hanno qualsiasi cosa da segnalare. Intesi?”

“Sì.”

Un assenso anche dal collega rasato che, tetro, montava a sua volta sulla propria moto.

“Tu torna al Comando,” le rivolse uno sguardo profondo, preoccupato, “Riprendi le forze. Tornerò da te più tardi.”

Solana annuì appena.

Pochi attimi e i tre Ranger ripresero la Provinciale 3, frecce rosse nella penombra della strada.

 

***

 

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***

 

Bottoni della camicia chiusi uno alla volta, il più alto lasciato aperto di proposito; uno sguardo nello specchio, due iridi scure identiche alle sue.

Un riflesso infinito.

Lunick Riviera uscì dall’impasse in cui sentì di essere per un attimo caduto, il ricordo degli specchi in casa di quella donna, Margherita Morán, un’anziana come molte, un’abitazione come molte.

Nessuno ha visto nulla.

Niente fatti strani, niente fuori dall’ordinario: la brava gente sparsa nelle vallate e nei campi intorno a Torre Accadica estranea e perplessa di fronte alle domande, le allusioni, i lunghi silenzi. Lunick si scostò dal lavello, gettò un’occhiata dalla finestra del bagno, la linea lontana degli alberi ormai coperti dalla notte calante.

Uno Stantler mutilato.

I boschi oscuri.

Nessuna traccia sul terreno.

Scacciò il pensiero fosco che gli aveva traversato la mente; lasciò la stanza con un’ultima aggiustata distratta ai jeans e alla camicia bianca, due gocce di profumo e una ravviata ai lunghi capelli neri, ordinati anche senza la fascia rossa della divisa.

È sempre l’uomo la bestia più pericolosa di tutte.

Raccolse la giacca leggera buttata sul divanetto accanto alla porta, se la mise in spalla, prese le chiavi dell’auto dal cassetto. Un qualche pensiero remoto lo tenne inquieto.

Gli specchi.

Uscì di casa con un’ombra sugli occhi e una sul cuore.

 

Svoltò placido nello slargo, il giardino dell’hotel Allegro con la fontanella di marmo e l’arco coperto d’edera: Lunick fermò il pick-up accanto alla siepe, spense il motore, scese dalla cabina.

Lei era lì.

Brigette Azura attendeva in piedi accanto a quello stesso arco, un vestito corto color bordeaux su cui era poggiata una discreta stola bianco osso, il tocco candido d’una borsetta a tracolla e il medesimo bordeaux ripetuto su eleganti scarpe a tacco alto, il culmine di quelle gambe lucide e ambrate che la luce dei lampioncini sembrò far risplendere solo di più.

Alzò di spalle, lei, il sorriso sagace su un viso curato, sobrio nel trucco, i capelli nella stessa leonina foggia di quella mattina: “Che ne pensa?”

Lunick ebbe solo un cenno del capo, inespressivo. “Incantevole.”

Lei ammiccò in risposta. “Vogliamo andare? Muoio di fame.”

Un sospiro, le aprì la portiera del lato passeggero; Brigette squadrò per un lungo momento l’imponente Toyota Tacoma blu elettrico. “Stia tranquillo: non mi aspettavo una limousine. Ma temevo che avesse un’auto rossa, questo sì. Sarebbe stato, come dire,” si issò con l’ausilio della sua mano sul gradino del pianale a svariati centimetri da terra, “Scontato.”

Portiera richiusa. Lunick fece il giro dal proprio lato, tornò a bordo, avviò il motore; sentì gli occhi pungenti, pure sinceri, della donna al suo fianco, lo stesso mezzo sorriso arguto. Non gli riuscì di trovare un’espressione diversa da quella cupa che gli era rimasta cucita addosso per tutto il giorno. “Andiamo al Terrazzo Fiorito, anche perché non ci sono molti posti dove mangiare la sera, qui a Torre Accadica.”

“Lo sospettavo.”

“Ma il Terrazzo merita.”

“Sospettavo anche questo.” Un sorriso, stavolta più delicato.

Lunick avviò il pick-up sulla main street irrorata dalla luce calda dei lampioni, il passeggiare quieto di anziane coppie con la stessa spensierata leggerezza della gioventù, la notte scevra d’inquinamento luminoso e le stelle al di là, i grandi occhi del firmamento.

 

***

 

Atmosfera ovattata, un giardino pensile aperto sui prati e i boschi circostanti, piccoli tavoli illuminati da candele e faretti soffusi, meravigliose composizioni floreali a circondare e decorare la terrazza; un angolo di mondo a sé, ammantato nel profumo della lavanda e del ciclamino. Pochi avventori sparsi per un luogo raccolto e complice: il tintinnio delle posate misto a un chiacchiericcio garbato e al frinire lontano dei grilli, l’elegante sera di Torre Accadica.

“Era proprio questo che intendevo.” Brigette giocherellò con la forchettina da dessert, “In questa cittadina sembra tutto, come dire, perfetto. Tutto pulito, tutto ordinato. Sembra quasi che ognuno abbia il suo ruolo e che lo rispetti senza la minima fatica.”

“In un certo senso è così.”

“È mai stato a Porto Selcepoli?”

Lui prese un sorso di rosso di Romantopoli. “Qualche volta.”

“E che ne pensa?”

Un’increspatura ironica sui tratti forti di Lunick Riviera. “Sinceramente? Che se un terremoto ingoiasse Porto Selcepoli e tutta la sua cintura sarebbe un grande evento.”

Sgranare d’occhi, lei, una risata sorpresa. “Non la facevo così cinico, dico davvero! Suvvia, c’è del buono anche dalle nostre parti, sa?”

“Porto Selcepoli è un agglomerato di cemento, cattiveria, inquinamento e pessima umanità: dove ci sarebbe del buono in tutto questo?”

Ci sono io,” Brigette poggiò il mento su una mano, stessa espressione sorniona.

“Ma lei,” il Ranger ammiccò appena, “Lei adesso è qui.”

Occhi negli occhi, un momento fugace pure intenso. Il passaggio di una cameriera al tavolo più vicino sembrò interrompere il breve intreccio, verdino della divisa e l’acconciatura raccolta: la osservarono prendere un’ordinazione con sorrisi e assensi.

“Vede?” Brigette accennò col capo, “Guardi quella ragazza: sembra proprio che ami il suo lavoro; noti la semplicità con cui parla, senza atteggiarsi, senza una maschera che deve portare. Come se non avesse preoccupazioni. Magari, quando avrà finito il turno, uscirà e avrà un bel ragazzo di campagna che la aspetta fuori per accompagnarla a casa, e anche lui avrà lo stesso sorriso genuino e la stessa quiete interiore.” Pausa. “Spensieratezza, ecco. In questa città sembrate tutti spensierati. Ed è una cosa fantastica, trovo. Qual è il vostro segreto?”

Lunick fece un cenno della mano. “Nessun segreto, le basta guardarsi attorno. Sa cosa penso?”

“Cosa pensa?”

“Che non si può vivere bene, non si può essere liberi, senza porsi dei limiti. Costruire una casa per la propria famiglia è un atto naturale; unire due, tre, dieci, cento case per farne una cittadina è un atto naturale; distruggere miglia quadrate di terre per costruire una metropoli di cemento e acciaio, questo non è naturale. Accumulare soldi, potere, volontà di controllo, sopraffare gli altri per rubare loro lo spazio vitale e le risorse: questo non è naturale.” Un’aggiustata alla camicia, gesto distensivo. “Noi abbiamo i Mon. Questi boschi, le colline, pullulano di Mon selvatici: la maggior parte delle persone di qui ha un complementare Mon. Quante anime in Porto Selcepoli e tante altre città di Hoenn possono dire lo stesso?”

Sospiro. “Percentualmente poche, è chiaro.”

“E lei conosce bene il motivo.”

Altro sospiro, Brigette mimò con due dita il gesto della cartamoneta.

“Qui i Mon non si comprano. La loro devozione si acquisisce nell’unico posto dove essi devono stare: la natura incontaminata; e la si acquisisce con pazienza e affinità, non imponendola con la forza o le privazioni. Sa qual è la principale minaccia contro la quale dobbiamo combattere ogni anno? Il bracconaggio. Cacciatori che vengono da Porto Selcepoli e da altre città per portare via i Mon selvatici o addomesticati, perché strapparli ai loro complementari umani richiede spesso meno sforzo di cacciarli nelle terre selvagge. Ho visto bambini di neanche dieci anni perdere un pezzo della propria anima dopo il furto del loro Mon, e sono cicatrici spirituali che restano per sempre: le sembra giusto?”

“Ne parla come se fossi io a mandare quaggiù i bracconieri.”

“Triadi, cartelli, potentati dell’industria e del commercio: questi sono i veri nemici dei Mon, e dell’uomo stesso. I bracconieri sono solo gente che vende un servizio a chi li paga per svolgerlo. Per questo capirà se mi auguro che Porto Selcepoli sprofondi nell’abisso.”

Brigette si appoggiò ancora di più sulla propria mano, due battiti eleganti delle palpebre. “Voglio che sappia che la trovo tremendamente affascinante quando parla in questo modo.”

Lunick scosse il capo, benevolo, s’appoggiò di più allo schienale della sedia, un movimento che ne evidenziò la buona muscolatura del petto. “Per lei è un gioco, non è vero? Dopotutto a Selcepoli ci vive, questi problemi non la toccano in alcun modo.”

“Sì, forse è così. Ma non significa che io debba restare per forza indifferente. Non sapevo come funzionasse la faccenda del bracconaggio, e non avevo idea che portassero via anche Mon già uniti in comunione con un essere umano.”

“Sono persone spregevoli, e i danni che provocano ogni anno sono sempre peggiori.”

“Ma lei è un Ranger. Lei rappresenta la legge, e lo fa in maniera impeccabile, dicono: ne vorrei di più di difensori della legge come lei, e non parlo solo dell’essere alti, belli e prestanti.” Si mordicchiò le labbra in un ammiccare volutamente caricaturale.

“La legge,” Lunick espirò amareggiato, “La legge tutela più loro che noi, sa? Da quando è entrato in vigore il Decreto Espiatorio alla fine della Crisi, trent’anni fa, il divieto di portare armi ha ridotto l’efficacia di qualsiasi forza dell’ordine in tutto il continente.”

“Ma ha reso più sicuro ogni angolo della Confederazione.”

“Per gli uomini, forse, non per i Mon. Nessuno rischia più di farsi colpire da un proiettile, ma arginare i bracconieri è complicato senza nulla che possa intimorirli. Abbiamo in dotazione solo la Sarissa, e quando impiegata contro esseri umani va tenuta al minimo voltaggio. Se si feriscono durante un inseguimento o uno scontro li dobbiamo sanare a nostro carico prima di arrestarli. Se uno di loro muore, passiamo dei guai che neanche s’immagina, e c’è il congedo permanente se non riesci a dimostrare che la morte è stata accidentale o inevitabile.” Scosse il capo, venature di profonda, silenziosa rabbia. “La legge difende più questi parassiti che noi, il corpo preposto alla loro cattura. Mi creda che certi di loro, per le sofferenze che infliggono a persone e Mon, si meriterebbero molto peggio che qualche anno di carcere.”

Brigette sospirò, un’increspatura delle labbra. “La capisco. Dico davvero. Dev’essere frustrante lavorare così.”

“In questo ambito sì. Ma è il nostro compito: proteggere le persone e i Mon, le une dagli altri e viceversa.” La guardò con sottile intensità. “Lei ne possiede uno?”

“No, mai avuto un complementare. Sono una programmatrice, sempre presa dal lavoro: non ho mai sentito il bisogno di possederne uno.” Lieve senso d’imbarazzo. “E poi… un po’ mi preoccupa questa cosa del vincolo spirituale. Voglio dire… Non ho idea di cosa si provi, qualcuno dice che è anche doloroso. Che è come avere una presenza estranea dentro la mente. Non so, non mi attira l’idea.”

“Non è una presenza estranea, è come… non so spiegarglielo, se non lo prova non può capire.”

“Ci provi,” Brigette sporse leggermente, occhi negli occhi, l’effetto magnetico che Lunick Riviera aveva sui suoi sensi, “Ormai mi ha incuriosita.”

Il Ranger prese un respiro profondo, le mani poggiate sul tavolo. “Quando un essere umano e un Mon si uniscono in comunione è come se… come se la rispettiva coscienza si sdoppiasse. O almeno, non sappiamo cosa provino loro, ma per gli uomini è così. Inizialmente è difficile rendersene conto, ma col passare del tempo, quando il legame cementifica, si sviluppa questa consapevolezza di sé in doppia forma. Si comincia a pensare sapendo di avere una seconda coscienza, un secondo punto di vista sulle cose. Non c’è nessuna presenza estranea nei pensieri, semplicemente essi sono influenzati da… dall’avere una creatura senziente che quegli stessi pensieri li avverte e a volte dà loro forma.”

“Veramente?”

“Il contatto telepatico funziona così. I Mon non hanno voce: comunicano con noi tramite le emozioni, e le loro emozioni sono diverse dalle nostre. Diverse in senso lato, quando le provi sai se appartengono a te o a lui, anche se occorre tempo per sviluppare questa sensibilità. Diventa come un secondo istinto, qualcosa che a volte avverte di un pericolo, o comunica una sensazione che a te sarebbe sfuggita. È come aggiungere alla propria mente un secondo ramo, una seconda fonte razionale.” Pausa. “Non so se sono riuscito a spiegarmi.”

“È stato chiarissimo, ma ha ragione, senza provarlo è difficile capire fino in fondo. E non è doloroso, ne è sicuro?”

“Dipende da molti fattori. La comunione va sviluppata e curata. Nei primi tempi, se non è supportata da meditazione e molto riposo, può provocare cefalee. Poi dipende dal singolo: più forte è la volontà dell’individuo, più in fretta si consolida l’unione, minori sono gli effetti collaterali. E dipende anche dal tipo di Mon. Più complesso è l’esemplare, maggiori sono le energie e gli sforzi mentali richiesti; alcune specie hanno un quoziente intellettivo superiore a quello umano, e unirsi in comunione con un loro esponente può essere fin pericoloso se non si hanno volontà e fermezza sufficienti.”

“Conosce bene i Mon, non è vero?”

“Conoscerli e capirli è il mio lavoro.”

“E mi dica, come si sceglie un complementare? Come si fa a sapere che quel particolare Mon è quello giusto per entrarvi in comunione?”

Lunick alzò di spalle. “Non si sceglie, lo si sente. Non creda che i Mon siano privi di volontà: sono più loro a scegliere noi che viceversa. È una questione di affinità; ogni essere umano ha un’analogia emotiva con un qualche aspetto della natura, ed è facile che possa trovare un complementare che condivida quella sua stessa affinità. Una persona che abbia un forte legame con il mare molto facilmente troverà affinità in un Mon marino. Quale specie e quale singolo esemplare, beh, questo è frutto del caso, del destino. Un giorno semplicemente si incontra il Mon col quale, in un modo o nell’altro, si è destinati a congiungersi, e un legame spontaneo è destinato all’immortalità.”

Brigette sospirò. “Che meraviglia. Detta così, sembra di stare parlando,” sorriso elegante, “Dell’amore.”

“La comunione Mon è a suo modo un atto d’amore.”

“Assolutamente romantico.”

“Con una sostanziale differenza.” Silenzio, consapevolezza profonda, gioco di sguardi nella luce fioca delle candele, nella notte di Torre Accadica. “Le persone vanno e vengono, e i rapporti umani, anche quelli indissolubili, si incrinano e si annullano. I Mon non sono esseri umani. La loro devozione prescinde dal tempo e dalla distanza, non è soggetta a mutamenti, non si altera né si esaurisce. È un legame che solo la morte può spezzare,” un’ombra sugli occhi poi un lucore come di stelle, il pensiero di un collega morto in servizio col proprio complementare, “E a volte neppure questa.”

Brigette ciondolò il capo, sognante. “Se anche gli uomini fossero così...”

“Il mondo come lo conosciamo oggi probabilmente non esisterebbe.”

Per un attimo calò il silenzio, lo splendido panorama dei boschi della Pedemontana, il firmamento, quel terrazzo sul mondo. Frugò il suo volto dai tratti splendidi cercandone gli occhi, sforzandosi di scorgere un qualsiasi minuscolo seme d’emozione che potesse albergarvi. “E parlando di atti d’amore,” scandì giocherellando col risvolto del centrino di velluto, “C’è spazio nella sua vita per un legame diverso dalla comunione Mon?”

Lunick accennò un sorriso, vagò lo sguardo come a evadere, quieto, a cercare un orizzonte che c’era solo nella sua mente. “Non saprei.”

“Beh, mi è capitato di vederla accanto a quella sua collega, il Ranger Montego. Mi è parso ci fosse una certa affinità.”

Lo sguardo di Lunick si fece torbido, quasi severo. “Solana è una collega ed un’ottima Ranger. Nulla di più.”

“Naturalmente. Anche se una donna certe cose le avverte, sa? E riesce a vedere oltre la semplice apparenza. Lo chiami intuito femminile.

“Tra me e Solana c’è un legame affettivo forte: siamo stati nella stessa classe di formazione, siamo diventati Ranger assieme, abbiamo lavorato in coppia per anni. E questo è tutto.” Increspare delle labbra. “Fermo restando che non sono cose che la riguardino.”

Mani aperte, Brigette, un ammiccare innocente. “Assolutamente d’accordo. E mi creda, sono contenta così.

 

***

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***

 

La luce, il sogno, il coraggio.

Solana, seduta sul proprio letto, la schiena poggiata alla testiera, teneva il libro tra le mani.

Sono i temi principali del mito e della leggenda, della meraviglia narrativa che è entrata nella storia del nostro continente e, per estensione, di tutta la Confederazione nella sua interezza territoriale, a dispetto delle distanze, dei mari, della frammentazione delle isole.

L’abat-jour accesa unica fonte di luce nella camera.

Da Kanto a Kalos, fino alle propaggini più lontane delle Isole Arancio, di Alola, di Galar, la saga del Liberatore è il vero collante su cui si è fondata la nuova era della Confederazione: come sarebbe potuta preservarsi l’integrità della nostra terra senza un impulso di questa possanza?

Indosso una t-shirt abbondante, lunga fino alle cosce, nera con il logo del Café Lapras di Summerland.

La grande guerra contro la Loggia dei Plasmatori è stato l’evento culmine di una crisi che aveva origini profonde; il dissesto economico, la sfiducia delle persone nei governi, l’uso improprio della forza: sono stati tutti fattori disgreganti dei quali il Nemico all’Interno ha potuto sfruttare l’effetto debilitante per sferrare un colpo terribile alla democrazia delle genti, alla convivenza tra Uomini e Mon.

Ginocchia raccolte, gambe nude color ambra.

Paradossalmente, nonostante le furiose battaglie e il sangue pagato dai coraggiosi difensori della Confederazione e dai Mon loro alleati, la guerra si risolse nel modo forse meno probabile di tutti: un singolo giovane uomo e il suo modesto complementare affrontarono l’Arconte e la bestia primeva cui il suo spirito era vincolato. Un semplice ragazzo combatté l’Arcinemico e lo vinse, facendo dono al mondo di una lezione che tendiamo ogni giorno a dimenticare.

I capelli ancora raccolti nell’ampia coda, la fascia rossa abbandonata assieme al resto della divisa.

Per quanto buia l’ora e lontana l’alba, per quanto erta la strada e tremenda la sfida, fermezza e volontà assolute sono gli strumenti attraverso i quali qualsiasi impresa può essere portata a compimento. L’ordine e la ragione sono il bene supremo cui gli Uomini e i Mon devono aspirare: il caos e l’anarchia sono la fine dell’equilibrio tra le specie, la sconfitta della vita intesa come noi la conosciamo. Le forze disgreganti che ogni singolo giorno operano celate alla vista dei più sono come l’erosione lenta e metodica dei pilastri del mondo: la pace e la concordia che la democrazia ha faticosamente costruito sulle rovine della Guerra non dureranno a lungo se disuguaglianza, ingiustizia e corruzione non cesseranno di infettare la società umana.

La lezione che tutti dovremmo ricordare è quella dataci dal coraggio del singolo: un eroe disarmato che abbatte la bestia è la prova inconfutabile della volontà ultima celata dentro ogni essere umano, il bisogno ineluttabile di cercare armonia, ordine, equilibrio, di vincere l’entropia che è il volto oscuro del mondo.

Frusciare di frasche, fuori, nel mondo esterno.

Solana tolse lentamente gli occhi dalle righe, ascoltò per un momento il silenzio della propria camera; rimise il segnalibro tra le pagine, posò il saggio sul lenzuolo accanto a sé. Si alzò cautamente in piedi, due passi sul parquet coi quali raggiunse la finestra e guardò di fuori, la notte, il giardino di casa, i cespugli appena oltre lo steccato. Guardò nel buio oltre lo spazio illuminato dai lampioncini dell’ingresso, le forme degli alberi le causarono un brivido.

Non hai mai avuto paura della notte, del buio.

Lo Stantler mutilato rimasto impresso sulle retine.

Non è paura, è…

Si morse le labbra.

Inquietudine.

Si chiese se lo avesse visto davvero. Per quanto sforzasse la mente, quegli attimi orribili, l’avvicinarsi alla creatura, la sua reazione spaventata, la fuga, le parevano lontani e confusi.

Il verso innaturale che le era echeggiato fin nel cuore.

Hai immaginato tutto? Possibile?

Inspirò a fondo.

So di averlo visto. Di averlo sfiorato.

Chiuse gli occhi cercando disperatamente se stessa.

 

***

 

“Grazie, Ella. Tutto ottimo, come sempre.” Lunick rimise il portafogli nella tasca dei jeans, la donna dall’altra parte del banco cassa sorrise cordiale.

“Grazie a lei, fa sempre molto piacere vederla qui. Buona serata ad entrambi!”

“A voi.”

Uscirono a passo quieto nell’ampio spiazzo ghiaioso fuori dal locale, l’atmosfera intensa e composta della notte, i lumi sul sentierino e nel parcheggio delle auto, il profumo delle piante, il frinire degli insetti.

“Non gliel’ho detto prima,” scandì Brigette con una punta di rammarico, “Ma mi dispiace. Per quel che è successo al suo collega, intendo. Sembra assurdo che in un posto del genere,” accenno alla natura intorno, allo stendersi dei prati e dei boschi lontani, “Possano capitare cose così.”

“È dai tempi della Guerra che un Ranger non viene ucciso in servizio. Un incidente può capitare, ma non è il caso di Timo, ne sono certo.”

“Non avete scoperto nulla oggi?”

“Nulla. Sembra che nessuno in quella zona abbia avuto problemi.”

Passeggiarono senza fretta verso l’auto.

“E non potrebbero essere stati dei bracconieri? Magari una vendetta.”

“Tutto può essere. Anche se la scomparsa di quell’anziana donna mi lascia molti dubbi su come sia andata veramente la storia.”

“Non mi occupo di queste cose, ma le garantisco che a Porto Selcepoli succedono spesso. E certi delitti, certe brutture, restano anche irrisolte per sempre.”

“Non qui. Questa faccenda la risolveremo. E non ci andrò leggero coi responsabili.” Lampeggiare di frecce, il grosso Toyota aperto a distanza col comando di sblocco. “Chiunque siano e da ovunque vengano.”

“È mai capitato che dei bracconieri restassero uccisi per causa vostra?”

“Un paio di volte, sì.” Aprì la portiera, si issò nell’abitacolo, Brigette fece lo stesso dal lato passeggero. “Quattro anni fa, durante un inseguimento, uno di loro ha perso il controllo del suo camion, si è rovesciato, è rimasto schiacciato tra le lamiere. Due anni dopo è capitato nell’area di Valico Cedra: un cacciatore di frodo si è dato alla fuga lungo l’argine roccioso del fiume, è scivolato, è caduto di sotto, nel torrente, che l’ha trascinato a valle; l’hanno ripescato morto. Sono gli unici casi che ricordo di incidenti letali con questa gente.”

Avviò il motore e accese i fari; lentamente il pick-up s’avviò fuori dal posteggio e nello spiazzo, poi verso la strada maestra; un cenno di saluto a due avventori che uscivano in quel momento dal locale, diretti alla propria vettura.

“Vi conoscete praticamente tutti in queste zone.”

“Fa parte del lavoro.”

Brigette dedicò uno sguardo alla notte placida che scorreva fuori dal finestrino. Attese momenti interminabili prima di tornare a guardarlo, assorto alla guida, lo sguardo fisso sulla strada solo a tratti rischiarata dall’illuminazione notturna. Allungò una mano fino a poggiarla sulla sua, ferma sulla leva del cambio: contatto inebriante, gli occhi di lui spostati a cercarla nel buio dell’abitacolo, i fari del Tacoma nella via solitaria.

 

***

 

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+++ NOTA - il pezzo contiene (minimi) riferimenti espliciti e lo metto per sicurezza in spoiler. +++

 

Spoiler

 

***

 

Solana, seduta sul letto, nella sua camera, le gambe raccolte a sé, ascoltava la notte.

C’erano rumori, fuori, che non riusciva a identificare.

Conosceva ogni verso, ogni stridio, persino il passo dei Mon selvatici gli era in qualche modo familiare: i boschi della Pedemontana non avevano segreti per un Ranger addestrato.

Ora un fruscio, ora un tocco, un alito di vento: piccoli suoni che, nella loro logica, le apparivano distorti e fuori contesto.

Stai immaginando. Suggestionando.

Non c’era niente, là, nel buio, nulla di fuori dall’ordinario.

Il lieve raschio che ogni tanto le pareva di captare non era il respiro sfatto di un essere vivente.

Il suono d’erba smossa non era causato da passi.

Fantasie.

Il lievissimo picchiettare sul suolo non erano zoccoli d’ungulato.

 

***

 

Mani a percorrere fianchi come scogliere, un abbraccio nel buio della stanza, l’incrocio di labbra, distendersi tra le lenzuola. Camicia sbottonata sullo splendore di un torso maschile appena irrorato dalla luce esterna dei lampioni, la notte, il silenzio irreale del mondo.

Un vestito bordeaux aperto e lasciato scivolare via come acqua corrente.

Mani su pettorali tonici, mani su seni tondi e proporzionati.

Occhi chiusi, aperti, chiusi ancora.

Capelli color del miele di Castelia sparsi sul cuscino: incontro di due corpi, pelle su pelle, il sudore un velo, i respiri mischiati.

Un bacio rovente, mani su carne accaldata. Intreccio di gambe.

L’amplesso crescente, attimo dopo attimo, sequenza di piacere portata su vette delicate, perenni, sempre più lontane.

 

Solana si alzò di scatto, corse alla finestra, scalza, la mano tremante.

Scostò le tendine e guardò il buio, la campagna, i boschi, ed essi la guardarono di rimando. C’erano occhi che sembravano languire da qualche parte al confine tra realtà e immaginazione, e ne ebbe orrore.

È solo stanchezza.

Scostò i capelli dal viso, l’ansia a crescerle nel petto.

Solo suggestione.

Qualcosa si mosse nella notte disegnando un paio di corna ramificate e il bianco lurido d’un teschio animale.

Solana Montego si scostò dalla finestra e arretrò col cuore che batteva all’impazzata. Incespicò, scivolò a sedere a terra, arretrò malamente sui gomiti, sentì la schiena sbattere contro la porta chiusa della camera.

La cosa stava arrivando, cresceva e saliva fino al piano alto della sua piccola abitazione.

La vide disegnarsi nel riquadro della finestra, sempre più grande e maestosa.

Una figura esile, slanciata, mischiata con la notte stessa, con una corona di braccia aperte: l’essere che la guardava dalla finestra non era di quel mondo o non lo era più.

Il verso, la voce sottile e tagliente che le mugghiava nella testa, poteva appartenere solo a un incubo.

Solana sentì la coscienza vacillare e in quel momento, nell’attimo del trapasso, la sfera che giaceva sul comodino si aprì in un bagliore candido.

Zefiro trovò carne e sostanza nello spazio di un istante, frapponendosi tra lei e la finestra, la grande coda alzata in segno di minaccia, il pelo irto, i denti serrati.

Lasciò andare un soffio di pura rabbia, gli artigli come lunghi coltelli protesi avanti in una sfida mostrata a pieni polmoni.

La notte del mondo di fuori.

 

Due corpi avvinghiati tra le lenzuola, vinti dalla stanchezza, un intreccio di pelle, muscoli, braccia, capelli.

Amare, odiare.

Lunick Riviera aprì lentamente gli occhi, rimase a fissare il buio della stanza e le poche striature di luce sulla parete. La sua mano indugiava ancora sulla schiena nuda di Brigette Azura, morbida come seta.

Che differenza c’è?

 

Il com-link si attivò sulle frequenze della stazione.

Uno squillo, due.

“Comando”.

“Qui Montego. Ho…” Pausa, un respiro profondo, “Sono stata assalita in casa. Richiedo assistenza.”

“Come?! ‘Lana, stai bene?!”

Silenzio.

Gli occhi fissi al nulla.

“Sì”.

 

***

 

 

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***

 

Capitolo 2

 

Colori chiari del mattino, il sole appena sorto.

La moto rossa decelerò e si fermò nello spazio di un metro al bordo della strada, Lunick smontò con un movimento agile; tolse il casco, si fece largo tra la piccola calca di curiosi, gente del vicinato, irruppe sulla veranda, si imbatté in Martino e Ampo.

“Cos’è questa storia?! Che è successo?!” Vide Ampo risistemare il kit medico nella cassetta. “Dov’è ‘Lana?!”

Martino, tetro, accennò dietro di sé: la vide seduta sul divano del piccolo salotto, abbandonata contro lo schienale; accanto a lei Marta, la vicina, una donna di mezza età dal viso rotondo, parlava a bassa voce, confortandola.

“’LANA!” Lunick entrò in casa a passo di carica, la raggiunse in poche falcate, uno sguardo alla sua figura ancora in abiti da casa, scalza, “’Lana.” Gli occhi di lei si alzarono a cercarlo, solo un momento, poi tornarono a fissare in basso, tetri, coperti da un velo di profondo malessere. “Che è successo, che significa questo casino?!”

La vicina fece un gesto accorato delle mani, “C’è stata un’intrusione,” scandì, “Noi non ci siamo accorti di niente, ma qui… qui è venuto qualcuno stanotte, un malintenzionato forse. Cose brutte, Lunick, cose che non dovrebbero capitare.”

“Cosa vuol dire malintenzionato? Chi era?!”

Lei fece per replicare, la mano di Solana le cinse una spalla. “Va bene così, Marta. Me ne occupo io.”

“Cara, cosa vuoi che faccia? Posso aiutarti in qualche modo?”

Un accenno di sorriso. “Se per caso… se per caso ti avanza del latte, è che non ho mangiato niente, e…”

“Te lo preparo, cara.”

Una carezza al viso. “Grazie.”

La guardarono allontanarsi trafelata.

“Allora?” Lunick ebbe un gesto d’impazienza, gli occhi stretti, quasi rabbiosi, “Che diavolo è successo?”

Solana prese un respiro, scosse il capo. “È venuto qualcuno stanotte. O qualcosa. Avrei detto che era di nuovo quello Stantler, ma non,” trattenne un singulto, “Non ne sono così sicura.”

“Lo Stantler è venuto qui?!”

La ragazza scosse il capo, sguardo fisso avanti. “Qualcosa ha guardato dentro la stanza, dalla finestra. La finestra del piano sopra. Ho avuto paura.”

Silenzio tetro.

“Ne sei sicura?”

Lei non rispose. Raccolse le gambe al petto in un gesto protettivo. “Martino ha dato un’occhiata intorno alla casa. Non ha trovato tracce.”

“Questa cosa sta cominciando a stancarmi.”

“Lunick.” Un respiro tremulo. “Non lo so cosa mi succede.”

“Forse la morte di Timo ti ha sconvolta. Un forte stress può indurre attacchi di panico, inquietudine, magari lo Stantler era davvero ferito e hai solo… travisato la gravità della situazione.”

“Forse è così.”

Ancora silenzio, la stanza decorata dai piccoli oggetti che le erano cari.

“Passerà, ‘Lana. Starai di nuovo bene.”

“Zefiro.”

Lui le rivolse un’occhiata interrogativa.

“Zefiro è uscito da solo dalla sfera. Per proteggermi.

Lunick espirò rumoroso, un gesto di stizza. “Ne sei certa?”

“Certa. Si è frapposto tra me e la finestra. A quel punto la cosa se ne è andata.”

Silenzio.

“Mi dispiace che ti sia capitato tutto questo.”

Gli occhi di lei si alzarono nei suoi, profondi, amari. “Ho provato a chiamarti stanotte. Non eri raggiungibile.”

Silenzio. “Ero fuori servizio.”

“Non spegni mai il com-link, anche quando sei fuori servizio.”

Intreccio di sguardi, colpe e ferite mai rimarginate. Inquietudini. Un’ombra sugli occhi. “Avevo le mie ragioni.”

“Quali ragioni?”

“Non è affar tuo, ‘Lana.”

“Già. E non voglio che lo diventi.”

Lunick si scostò con un gesto brusco, stizza, le mani sui fianchi; rimase in silenzio un lungo istante, poi tornò a guardarla, seduta, le gambe nude ambrate, la maglietta insufficiente a coprirla: sentì la rabbia evaporare. “Ehi.” Si chinò accanto a lei. “Scopriremo che cosa sta succedendo. Verremo a capo di questa storia.”

Lei annuì appena in risposta.

Il Ranger si tolse la giacca, gliela depose sulle gambe per coprirla.

“Me la riporterai al Comando appena ti sarai ripresa.” S’allontanò con un ultimo sguardo profondo. “Marti.” Il collega, sulla porta, assentì, due occhi tesi dietro il colore chiaro delle iridi. “Trovato niente? Devono esserci delle tracce!”

“Nulla, Lunick. Piccole orme di Mon selvatici, niente che abbia alcunché di pericoloso.”

Lui assentì, un ultimo sguardo alla compagna rimasta seduta a fissare il vuoto.
“Tornate al Comando quando potete. Abbiamo del lavoro da fare.”

Lo sguardo gli cadde sulla fotografia che Solana teneva sul piccolo mobile accanto all’ingresso. Era uno scatto di loro due, sorridenti, sullo sfondo della ruota panoramica di Summerland.

Era passato parecchio da allora.

Forse troppo.

Si allontanò con un sospiro, diretto alla moto; passò attraverso i curiosi ignorando le loro timide domande.

 

***

 

Borbottio sordo del trattore, vibrare dei vetri e delle giunture d’acciaio, grandi ruote scanalate sulla terra smossa, una canzone dei Solid Square fischiettata nel caos sferragliante: Artemisio Capp girò il grande volante della macchina agricola e fece lentamente inversione.

Prese a percorrere l’ennesimo sentiero rettilineo sul terreno da semina, il carrello posteriore coi rostri in continuo movimento; il sole era già alto, si terse il sudore dalla fronte con un gesto distratto del braccio, il cappello di paglia tolto e rimesso con consumata abilità.

Sete.

Si voltò a cercare dietro il sedile la borraccia buttata nel vano posteriore della cabina, la agguantò dopo un paio di tentativi a vuoto; svitò il tappo, prese un sorso prolungato. Fu con la borraccia nel punto più alto della manovra che il suo occhio cadde avanti, allo stendersi del campo da semina, alle lunghe scie di terra già rassodata: interruppe la bevuta con un increspare di sopracciglia, strizzò gli occhi.

Un singolo punto nero compariva al fondo del percorso, qualcosa che prima non c’era, o forse c’era sempre stato da quando aveva viaggiato dando le spalle al lato sud del campo e non s’era accorto di nulla.

Sporse il capo fuori dalla cabina, un modo perché il parabrezza impolverato non limitasse la visuale.

“Ma guarda te.”

Con l’incedere del trattore iniziò a scorgere i contorni e i dettagli della creatura che sembrava quasi attenderlo qualche decina di metri più avanti, piegata sulle zampe, le orecchie basse e l’aria guardinga: l’Houndour abbaiò furioso, ondeggiò il capo in un moto di rabbia.

Sarà scappato a qualcuno.

Artemisio fece rallentare la macchina, poi la fermò, i grandi rostri posteriori sollevati e lasciati a girare a vuoto; mise in folle il cambio. Si alzò e sporse dalla cabina, due saltelli con cui scese dal mezzo e balzò al suolo, gli stivali affondati nella terra smossa; toccò la tesa del cappello di paglia, i guanti da lavoro gialli, camicia e calzoni larghi.

“Ehi, ehi.” Si chinò, mani sulle gambe, la figura del canide una decina di metri più avanti, ferma, piantata sulle zampe. “Vieni qui, amico.”

Fece il gesto dell’invito, movimenti quieti che erano il linguaggio più comune tra uomini e Mon: l’Houndour si abbassò fin quasi a terra, digrignò i denti, emise un guaito lacerante.

Artemisio increspò le sopracciglia, si grattò la barbaccia nera. “Che hai? Ti sei ferito?”

Provò di nuovo il gesto dell’invito con ancora maggiore lentezza.

Andiamo, vieni, voglio aiutarti.

Un momento immobile, lunghissimo: il Mon scattò. Si lanciò verso di lui in una corsa forsennata, una carica a denti stretti e occhi dilatati, un raspare di unghie sul terreno, i muscoli come fasci di corda sotto la pelle tirata. Il contadino ebbe un moto di panico, arretrò malamente, portò la mano alla cintura.

Gli occhi vacui della bestia che gli correva incontro pulsavano di follia.

Maledizione.

Serrò febbrile le dita sulla sfera del proprio complementare, la sentì pulsare d’energia.

Maledizione!

Il canide Mon gli fu addosso, balzò.

Lui emise gemito di spavento, si coprì il volto con le braccia in un gesto di estrema difesa.

Nulla.

Nessun impatto, nessun affondo. Artemisio tornò ad aprire gli occhi, si voltò: l’Houndour  lo aveva semplicemente scartato e ora correva via, a tutta velocità, attraverso il campo e poi oltre, lungo la linea degli alberi, fino a immergersi nella boscaglia rada e svanire alla vista. Espirò, perplesso, assieme sollevato e preoccupato: tolse il cappello per farsi aria un momento, rimise la sfera alla cintura.

Eppure sembrava addomesticato.

Si issò sulla paratia laterale del trattore, cercò di scorgere in lontananza un qualsiasi segno del canide, invano. Scosse la testa.

Aveva paura.

Ritornò a bordo del mezzo per continuare dove era stato interrotto.

Una paura fottuta.

 

***

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(basta chiederla in urloscatola, dopotutto)

 

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***

 

Un ronzio, porte scorrevoli spalancate: Lunick Riviera entrò negli uffici del comando, scuro in volto, ignorò lo sguardo preoccupato di Ezio.

Brigette Azura spostò gli occhi dal monitor sul quale stava lavorando, la tazzina di ginseng fumante accanto alla tastiera; guardò il Ranger transitare spedito verso gli uffici.

“Déjà-vu.”

Si alzò dalla sedia e gli camminò dietro a passo spedito, lo osservò tuffarsi nella propria stanza: si appoggiò sonoramente allo stipite pochi istanti dopo il suo ingresso, lo obbligò ad alzare lo sguardo dal pad che aveva appena gettato senza cura sulla scrivania.  “Prima che inizi a lavorare o prima che sparisca di nuovo per altre dodici ore,” scandì d’un fiato, i loro occhi incrociati per un momento e sottilmente complici.

“Che le serve?”

“Ho terminato il check del sistema operativo centrale e della rete locale, ho pulito le cache e sistemato i firewall. Non mi ringrazi per la celerità, ho fatto solo il mio dovere. Adesso ho bisogno di visionare il ripetitore e la sua CPU: mi serve un passaggio fino alla centralina, ovunque sia. Ricorda? Glielo avevo già detto ieri.”

Lui la squadrò per un momento, lo stesso vestito smanicato bianco a righe del giorno prima, ai piedi un paio di scarpe di tela verde oliva. Le magnifiche gambe nude. “Lei è fissata con le scarpe verdi.”

“Ma sono certa che abbia apprezzato quelle rosse di ieri sera.”

Lunick si alzò in risposta, la raggiunse sulla soglia; Brigette rimase al suo posto, ferma sulla porta, come non volesse lasciarlo passare. “Che fine ha fatto la sua giacca dell’uniforme, tra l’altro?” commentò percorrendogli con lo sguardo la muscolatura pettorale esaltata dalla tuta nera aderente.

“L’ho usata per coprire una bella donna che sentiva freddo.”

Mezzo sorriso. “Sta cercando di farmi ingelosire?”

Occhi negli occhi, senso d’attrazione reciproca tenuto a freno dal contesto; vicini, corpi e volti, un contatto sensoriale che per un attimo morsicò dentro, punse la coscienza.

Brigette si scostò dalla porta con un altro sorriso consapevole; seguì Lunick Riviera di nuovo nella sala operativa.

“Certo che no,” scandì lui, “Sarei scorretto nei suoi confronti.” Si fermò in mezzo alla sala, accennò verso una delle postazioni di lavoro occupate. “Kellyn!”

“Comandi.” Scattò all’impiedi un ragazzo dai folti capelli castani e spettinati, media altezza e un fisico sobrio pure atletico, la stessa divisa rossa e nera dei Ranger.

“Accompagna la signorina Azura al ripetitore, per favore, quello sulla provinciale 12. E assicurati di fornirle tutta l’assistenza che occorre.”

“Subito.” S’avviò. “Vado a prendere un mezzo, la aspetto fuori.”

Brigette lo ringraziò con un gesto, poi si voltò verso Lunick, uno sguardo sarcastico. “Speravo mi avrebbe accompagnata lei, a dire il vero.”

“Non è il caso,” lui alzò di spalle, una specie di sorriso quieto sui tratti maestosi, “Non vorrei che pensasse che sto cercando di farla ingelosire.”

Brigette ammiccò, i bei capelli una criniera ambrata; gli rimosse delicatamente un granulo di polline rimasto uncinato alla tuta sul petto. “Uno a zero per lei.”

Si congedò con un cenno; tornò alla postazione occupata fino a poco prima, ne prelevò la borsa col portatile e la giacchetta grigio ardesia che si buttò sulle spalle, poi si diresse all’uscita, il ginseng dimenticato accanto al computer.

Scese le scale poi percorse la hall, infine uscì nello spiazzo davanti all’edificio quadrato e ricco di vetrate che era il comando di Torre Accadica; Kellyn la aspettava alla guida di un Daihatsu Terios rosso col logo dei Ranger disegnato sulle portiere. Salì a bordo del piccolo fuoristrada con un movimento elegante, borsa e giacca buttate sui sedili posteriori.

“Avevi altro da fare piuttosto che portare in giro me, non è vero?”

“Non ti preoccupare,” un sorriso genuino sembrò esaltarne i tratti semplici ma gradevoli, il verde degli occhi.

“Brigette Azura, ma penso saprai già chi sono.”

“La creatrice della Banca Mon,” un sorriso superbo a illuminarlo, “Lo so eccome. So usare benissimo i tuoi programmi, sono fantastici. E intuitivi. Tranne l’interfaccia di Solicitus: cambierei la disposizione dei comandi di input, perché li trovo poco logici.”

“Oh,” Brigette un sorriso delicato, ammiccò, “Lo terrò presente.”

“Kellyn Marchese, Ranger di Primo Livello.”

“Piacere di fare la tua conoscenza.” Una stretta di mano, poi lui tornò a guardare la strada, scese un silenzio di circostanza. Brigette seguì un pensiero, abbassò il finestrino e lasciò il braccio a ciondolare fuori dall’abitacolo mentre il piccolo fuoristrada si avviava all’uscita del piazzale e sulla main street.

 

***

 

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***

 

Lunick scese gli ultimi gradini della scala metallica, si fermò sulla soglia dello stanzone a scomparti, la parete di sinistra costellata di loculi d’acciaio le cui iscrizioni sommarie erano poco più che nomi e numeri.

“Dottore.”

L’uomo nel camice bianco, portato aperto su un fine completo magenta, spostò lo sguardo dal lettino operatorio estraibile, in acciaio anch’esso: gli fece segno che poteva entrare; attese che il Ranger si fosse accostato, notò il suo sguardo che, inevitabile, era andato a posarsi sul corpo pallido, immobile, di Timo Nauscas, per metà coperto da un lenzuolo.

Ebbe un sottile moto di fastidio. “Che nuove?”

Giano Frenesio, medico legale di Torre Accadica, increspò appena i tratti austeri, il volto forte dalla stempiatura marcata e i folti capelli bianchi e disordinati, grandi baffi, pizzetto abbondante, ampie sopracciglia candide. “Ho ultimato l’autopsia.”

“E…?”

“Il mio verdetto non è cambiato. Il suo collega è morto per un arresto cardiaco: non ha ferite, non ha lesioni, non c’è nulla che possa indicare un’azione esterna.”

Lunick scosse il capo, quasi ilare. “Si rende conto che non è possibile?”

“Me ne rendo conto. Ma credo in ciò che affermo.”

“È stato ucciso. So che è andata così. Devono averlo avvelenato in qualche modo, ho pensato all’azione di spore, o di una tossina che può aver ingerito, qualunque cosa che non lasci segni visibili sulla pelle.”

Frenesio scosse il capo, grave, “Il suo sangue è pulito, e così i polmoni. Non ci sono tracce di agenti estranei.”

Li interruppe il rumore di passi sulla scala: la silhouette atletica di Solana Montego si disegnò sulla soglia nelle tinte rosse e nere della divisa Ranger. Il dottore ebbe per lei solo un cenno del capo; la guardarono accostarsi al suono cadenzato dei suoi passi, stivali sul pavimento lucido, quell’ombra sugli occhi che non l’aveva più abbandonata dalla mattina precedente, da quando aveva visto il corpo senza vita di Timo Nauscas abbandonato sul prato, tra gli alberi. Solana riconsegnò al compagno la sua giacca dell’uniforme, un grazie mormorato prima di ritrovare il mordente necessario ad affrontare i fantasmi del nuovo giorno; guardò per un solo momento il collega sdraiato sul tavolo operatorio, per metà coperto dal lenzuolo, gli occhi chiusi. Inspirò, soffocò l’impulso di voltarsi per non guardare, non soffrire: rimase stoicamente al suo posto. Sentì la mano di Lunick posarlesi sulla spalla in una stretta che le trasmise assieme energia e vecchi rimorsi.

“Come dicevo,” proseguì Frenesio, “Se è stato ucciso, la morte è stata provocata in un modo che l’autopsia non ha rilevato.”

Silenzio.

Immagini fugaci, il bosco, la casa, gli alberi.

Gli specchi.

Solana ascoltò per un momento qualsiasi pensiero irrazionale le avesse traversato la mente, un’eco distorta della notte appena trascorsa.

Lo specchio.

“E Sikes?”

Il professore si scostò, camminò in direzione dei loculi d’acciaio disposti sulla parete del locale mortuario, poggiò la mano su uno di essi. “L’autopsia non è completa, ma per quel che ho avuto modo di studiare, è lo stesso discorso: non ci sono segni di avvelenamento, lacerazione, iniezione. La morte è stata causata da un arresto cardiaco.”

“E secondo lei,” Solana alzò uno sguardo profondo in quello dell’uomo, “È possibile che la morte di uno abbia innescato quella dell’altro?”

Giano prese un respiro, la fronte corrugata. “Non sono un fautore della teoria del Filo di Lachesi, e questo m’impedisce di credere in una possibilità così remota senza evidenze scientifiche. Neppure il legame più profondo, se reciso, ha mai portato a una morte istantanea del complementare Mon, men che meno dell’essere umano.”

“Secondo lei sono morti contemporaneamente?”

“O a pochi minuti l’uno dall’altro, ma non di più. Il fatto che giacessero l’uno accanto all’altro avvalora la quasi contemporaneità del decesso.”

“Quel che mi lascia perplesso,” s’intromise Lunick, “È l’assenza di segni sul posto. Se avesse combattuto, se fosse stato attaccato da qualcuno, avremmo trovato delle tracce. Invece non c’era niente; è come se si fosse accasciato sul posto, senza ragione.”

“Questo conferma la mia versione, ragazzo: lo ha stroncato un arresto cardiaco, che può essere stato causato artificialmente, ma non ho ancora idea di come. E senza prove, non abbiamo nulla per portare avanti questa tesi.”

Un lungo momento di silenzio; Solana socchiuse gli occhi, un brivido. “Avremmo dovuto provare a recuperare i loro ultimi ricordi.”

Senso di vuoto, la grande sala dell’obitorio, il freddo psicologico suscitato da un ambiente privo d’ogni emozione. Frenesio scosse il capo. “Rifiuto queste pratiche, Ranger. Sono immorali.”

“Immorali? Un collega, un amico, è stato assassinato: se fosse al mio posto non avrebbe scrupoli di questo tipo.”

Gli occhi di Giano Frenesio vibrarono d’una profonda, contenuta rabbia. “Non avrei mai creduto di sentire una cosa del genere da un Ranger, da un agente che ha giurato di proteggere l’uomo dai Mon e i Mon dall’uomo. Qui non siamo a Selcepoli, Solana, qui abbiamo ancora un credo e una morale cui ispirare il nostro lavoro; e sciacallare nella mente di due esseri viventi, rovistare tra le loro ultime emozioni, paure e pulsioni, è qualcosa di crudele. Prenderò questa idea per quello che spero sia, cioè il prodotto di una notte insonne e del dolore per la perdita di un amico, ma non contare su di me se in futuro dovessero venirti altre illuminazioni del genere.”

Lei ricambiò lo sguardo con una sottile venatura di sfida, sentì il bisogno di esternare fastidio, rabbia, frustrazione, di affermare a pieni polmoni che per scoprire la verità e punire il responsabile era pronta a ogni cosa, come era giusto che fosse: tenne tutto per sé con una smorfia di livore.

“Va bene,” Lunick scosse la testa stranito, “Ho sentito anche troppo. Questa storia sta tirando fuori il peggio di noi. Ci penserò ancora su, e continueremo a fare indagini: prima o poi troveremo qualcosa che ci possa indirizzare sulla strada corretta.”

“Il peggio di noi?” Solana gli rivolse un’occhiata livida. “Anche tu cerchi di farmi passare per un diavolo? Mi merito questo per aver cercato una soluzione a due morti illogiche?!”

“Soluzione? Tu non hai neanche idea di cosa parli.”

Espirare ferita, i denti serrati in una maschera di rabbia. “Non ne ho idea? Studio i Mon da quando ero una bambina. Conosco i Mon mesmerici, conosco i rischi che il loro utilizzo comporta! E sì, lo farei. Lo farei, perché è quello che Timo avrebbe voluto facessimo, che IO vorrei se fossi stesa su quel tavolo con un lenzuolo addosso!”

“I Mon mesmerici assorbono l’essenza spirituale delle creature. Non puoi far rischiare questo a una persona cui hai voluto bene, neppure se è morta. Non puoi dire sul serio.”

“Lo vedi?!” Un indice accusatore puntato contro di lui, “LO VEDI?! È questo il tuo problema! Tu non sai niente di cosa voglia dire voler bene a qualcuno! Non sai niente!”

“Stai straparlando.”

“STO CERCANDO UNA SOLUZIONE!”

“Una soluzione?!” Incupì, la rabbia dentro cui non volle far prendere il sopravvento: ridusse la voce a un tono quieto e assieme spietato. “Tu vorresti far divorare a una bestia mesmerica i ricordi di un morto. Questa non è una soluzione. È un abominio.” 

Lo sguardo ferito di Solana Montego baluginò nel vuoto della stanza. “Non è un morto. È un collega. È un amico. Ma a te che importa? Tu non hai amici, tu non hai niente oltre te stesso: quindi non mi aspetto che tu capisca.”

Girò sui tacchi, amara, le mani aperte come a lasciar cadere qualsiasi risposta potesse giungere: si avviò verso la scala, la salì un gradino alla volta, il passo degli stivaletti sul metallo fino a svanire al piano terra, perdersi lontano.

Frenesio scosse appena il capo, accigliato. “Non la riconosco. Non avrei mai creduto di sentirla parlare così.”

“Neanch’io.”

“Può la morte di un collega averla turbata così profondamente?”

Lunick gettò un’occhiata al volto pallido, ancora contratto, di Timo Nauscas. “No. È cambiata, già da un po’ di tempo a questa parte. Ma non credo di volerne conoscere il motivo.”

Il dottore increspò le labbra. “Forse perché immagini possa riguardarti.”

Il Ranger sentì lo sguardo autoritario dell’uomo fisso su di sé: preferì restare di spalle, a guardare la scala ora deserta sulla quale era scomparsa Solana. “Si sbaglia.” Un respiro lungo a tradire qualche sottile forma d’inquietudine. “Termini l’autopsia sul corpo di Sikes, per favore. Mi informi appena ha tutti i dati.”

Ricevette solo un verso d’assenso.

Lunick fece un cenno di saluto, poi s’avviò verso la medesima scala, sulle retine ancora il volto cadaverico di Timo Nauscas sdraiato sul lettino d’obitorio. Un’idea che aveva messo radici dentro l’anima, un pensiero personale, un concetto che in qualche modo non aveva mai preso forma prima di quel momento e che lo stupì nella sua eloquente semplicità.

Se Solana e Timo avessero avuto una relazione?

 

***

 

NOTA - la Teoria del Filo di Lachesi prevede che sia in certi casi possibile, in presenza di un legame fortissimo tra essere umano e Mon, che la morte di uno causi l'immediata morte anche dell'altro.

Buona parte della comunità scientifica tuttavia considera questa teoria impossibile, anche perché casi reali non sono mai stati documentati.

 

 

 

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***

 

Brigette Azura inspirò l’aria fresca, col finestrino aperto e l’odore delle piante, dei fiori, della natura incontaminata che in Selcepoli era solo miraggio e cinematografia.

Sbuffò con un mezzo sorriso, poggiò il capo contro il sedile, uno sguardo languido verso il giovane Ranger alla guida. “Neanche un po’ di conversazione? Gli uomini silenziosi hanno il loro fascino, ma non esageriamo.”

Kellyn sorrise, il bel verde degli occhi a seguire le curve della strada attraverso i campi e i grandi prati della Pedemontana. “Beh, potrei elencarti i…”

“Niente che riguardi il mio lavoro, per favore. Vedo computer, codici di programmazione e linguaggi binari tutti i santi giorni. Grazie.”

“Come vuoi. Allora di cosa conversiamo?”

“Ma non lo so… Sei un Ranger di Primo Livello, hai detto? Beh, magari prova a spiegarmi che significa, non so quasi niente di voi.”

Kellyn ridacchiò, uno sguardo alla ragazza, la donna, che aveva seduta a fianco e l’innegabile fascino che possedeva, la semplicità dell’abbigliamento, lo splendore delle forme. “I Ranger appartengono a quattro diversi Livelli, in base alla loro esperienza e al loro grado. Il Primo è quello più basso: ci stanno le nuove reclute e tutti quelli con meno di tre anni di servizio. Ci affidano solo missioni di ordinaria amministrazione, mentre impariamo i segreti del mestiere e approfondiamo la conoscenza dei Mon. Per le missioni più impegnative siamo sempre affiancati da Ranger di livello superiore, cui diamo assistenza e da cui impariamo guardandoli agire.”

“Oh, quindi sei una nuova recluta.”

“Hey, sono già al secondo anno di servizio,” un sorriso compiaciuto, “Il prossimo mi alzeranno di classe. Ranger Marchese, Secondo Livello: comandi!”

Brigette ridacchiò, uno scuotere lieve della chioma. “Che tipo. E quanti anni avresti tu?!”

“Io? Diciotto.”

“Diciotto? A Selcepoli neanche puoi guidarla un’auto a diciotto anni.”

“Selcepoli non è un posto in cui vorrei vivere. Per niente al mondo.”

Lei alzò gli occhi al cielo, “Anche tu con questa musica? Selcepoli non è un brutto posto; d’accordo, i bassifondi e tutta la periferia sono pericolosi e degradati, ma fidati che il centro della città è una favola.”

“Questo non cambia che a Selcepoli non vorrei vivere per niente al mondo.”

“Sì, sì, d’accordo. Vai avanti, e parlami dei Ranger di Secondo Livello.”

“Oh, loro sono gli Operativi. Svolgono tutti i tipi di missioni in autonomia, hanno una preparazione adeguata, insomma sono l’ossatura del Corpo.”

“Poi?”

“Più in alto di loro ci sono i Ranger di Terzo Livello, gli Esecutivi. Solo i migliori Operativi passano al Terzo Livello; hanno facoltà di comando sui livelli inferiori, guidano operazioni complesse, gestiscono i comandi provinciali, insomma tutte quelle cose che implicano responsabilità. Sopra di loro ci sono solo i Ranger di Quarto Livello. Loro sono il top; ognuno comanda un presidio regionale, spostandosi periodicamente tra i vari comandi locali. Hanno facoltà di decidere… beh, tutto. Sono i Direttivi che prendono le decisioni, che organizzano mezzi e risorse, che assegnano i reclutamenti, che stabiliscono le promozioni e così via. E io,” si puntò un pollice al petto, “Io un giorno diventerò un Ranger di Quarto Livello.”

“Quanta ambizione. Dev’essere una vita anche stressante decidere sempre tutto, comandare e controllare ogni cosa.”

“Nient’affatto. Noi Ranger lavoriamo per il bene della gente, mica come i politici! Il comando è una responsabilità che prendiamo a nostro rischio e al solo scopo di far vivere meglio gli esseri umani e i Mon…”

“…proteggendoli gli uni dagli altri. Conosco lo slogan.” Brigette sorrise bonaria. “Sei un bravo ragazzo e ammiro la tua sincerità. Però credimi, col passare del tempo ti accorgerai che le cose sono molto meno belle o semplici di quanto gli aforismi possano farle sembrare.”

Lui ammiccò divertito. “Solo una che viene da Selcepoli può dubitare della purezza e della bontà della gente di questi luoghi. Guardati intorno, parla con le persone: capirai che qui è del tutto diverso dalla tua metropoli.”

Un altro sorriso bonario. “Ma io non ne dubito, Kellyn. Mi sono guardata intorno, ho parlato con le persone: e vuoi saperlo? Per me la gente è uguale, che viva nelle ridenti vallate di Fiore o nelle fogne di Porto Selcepoli. Semplicemente fanno la loro vita coi mezzi e le risorse che hanno a disposizione, e penso che ci siano persone dal cuore grande e dallo spirito puro anche nei peggiori sobborghi della metropoli. È solo questione di saper guardare alle cose con occhi più aperti e meno pregiudizi.”

Seguì un breve silenzio nel quale seppe di non averlo convinto.

“Oh, via,” riprese Brigette per spezzare l’impasse, “Parlami di Lunick Riviera. A che Livello appartiene il ragazzone?”

“Eh, Lunick è di Terzo Livello. Ma è bravo davvero: voglio dire, a parte che è spesso, cosa cui io dovrò aspirare prima o poi, ha proprio del talento. È un leader, ti sa ispirare, poi è comprensivo, infatti la gente lo ammira. E non si ferma mai, mai, non si perde d’animo di fronte a niente. Una volta ha affrontato una mandria di Rhyhorn migratori che stavano passando sulle strade intorno al fiume; li ha affrontati, capisci? Assieme a Firaga, il suo complementare. Ha rischiato di farsi calpestare a morte ma li ha respinti, li ha domati e convogliati attraverso i boschi: penso che nessuno in tutta Fiore avrebbe potuto pensare di fare una cosa del genere, e riuscirci. A parte un Guardiano, ovvio.”

Brigette depose uno sguardo sognante fuori dal finestrino.

Oh, sì, confermo che è spesso.

“Prima o poi lo promuoveranno al Quarto Livello, per ora non lo fanno perché è ancora giovane. Ma è inevitabile, ha troppo talento. Poi il suo Mon è micidiale, un Tephrameles Incendiarius, lo ha incontrato nelle regioni selvagge a est, alla base della Cordigliera: si sono trovati, come capita un po’ a tutti, erano destinati a unirsi in comunione. E Lunick lo ha curato anche sotto l’aspetto della combattività: i Teframeli possono essere molto feroci se scatenati.”

“Non sono un’esperta, conosco giusto i Pidgey.”

Pigeonis comunis.”

“O i Rattata.”

Rattus iperactivus.”

“Ma li sai tutti?”

“Tutti!” Kellyn sospirò estasiato. “Un giorno voglio diventare come Lunick.”

“Buona fortuna, allora.”

Qualche lungo istante di silenzio, la strada attraverso i campi e gli alberi, il cielo terso del mattino. Brigette vagò lo sguardo, giocherellò con le labbra. “E cosa mi dici,” negli occhi una goccia di sottile malevolenza, “Di Solana Montego?”

Kellyn trattenne una smorfia più adeguata a un interlocutore maschile. “Eeeeh, non è che c’è molto da dire. Intendo… è Solana. Non servono parole, basta guardarla.”

“Fammi indovinare: stai ragionando con le gonadi.”

“Ah, andiamo. Lo so che in quanto donna non puoi cogliere appieno, ma credimi, non esiste un corpo femminile sul quale,” la sua mano si staccò dal volante per stringersi nel vuoto, conferire tutta la forza possibile all’assioma, “Sul quale la divisa Ranger stia così perfetta. E lo dice tutta la parte maschile del Comando ma anche buona parte di quella femminile. Forse non avrai notato il modo in cui porta le calze: anziché tirarle su fino agli shorts, le lascia più giù di mezza spanna, e ti garantisco che quei pochi centimetri di pelle, inseriti nel contesto, sono la cosa più dannatamente sexy di tutta Fiore.”

Lei batté appena le palpebre. “Sento gli ormoni galoppare.”

“Solana è Solana. Fa questo effetto a tutti.”

“Oh, immagino.” Sospiro. “E a parte pochi centimetri di pelle e un fisico da indossatrice, cosa avrebbe di speciale questa donna?”

“È pur sempre un Ranger di Terzo Livello.”

“Ma dai? Pensavo che fosse Lunick Riviera il più alto in grado.”

“Lo è, ma solo perché è stato investito del comando dal Capitano Spencer prima che partisse per Caduta degli Angeli. Comunque fidati, Solana è un Ranger eccezionale. È un’esperta di Mon, un’ottima atleta. Sa fare il suo lavoro, e per le ragazze che vogliono prendere la divisa è un modello tanto quanto Lunick lo è per noialtri.”

“Sì, ho avuto anch’io questa impressione quando li ho visti al Comando.” Pausa. “Stanno insieme, non è vero?”

“Chi, Lunick e Solana?” Kellyn scosse il capo, una specie di sorriso che volle essere allegro ma non riuscì a celare una punta d’amarezza. “Credimi, sono fatti l’uno per l’altra. Sono come, non so, una chiave e la sua serratura: combaciano perfettamente; il problema è che… che non si trovano. Che non riescono a mettere da parte le proprie ambizioni, i propri desideri. Almeno, io la vedo così.”

“Sei informato sulla storia, ah?”

“Bah, solo un cieco non si accorgerebbe di quanta intesa abbiano e di come siano fatti per essere una coppia. Le loro vicende non sono un segreto al Comando.”

“Interessante,” sorrisetto malizioso. “Comunque hai ragione: mi hanno dato l’idea di essere una coppia di quelle predestinate.”

“Sono un ragazzo e una ragazza speculari. Stesso talento, stesse attitudini, stessi gusti. E poi hanno condiviso buona parte della vita: è come dici tu, sono dei predestinati.”

“Ma non sono mai stati assieme?”

“In realtà sì, forse solo per un breve periodo, o così dicono i colleghi della loro classe di leva.”

“E perché non ha funzionato?”

Kellyn sospirò. “Perché Lunick è così. Non puoi pensare di essere il più importante dei suoi pensieri. La sua professione, i Mon: lui vive per queste cose, sono tutta la sua esistenza. Una donna non riuscirebbe mai a valere per Lunick più della sua passione per l’uniforme dei Ranger.”

Il sorriso di Brigette Azura si allargò ulteriormente. “Lo stai ammirando. Ammirando all’inverosimile.”

“Oh, sì, non posso negarlo. Venera l’uniforme, rende onore al corpo dei Ranger.” Pausa. “Ed è l’unico che si sia mai bombato Solana Montego. Già solo per questo merita ogni rispetto.”

 

***

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***

 

 

“Dove vai?”

Lunick montò in sella senza neppure guardarla: infilò il casco e lo allacciò con pochi, nervosi gesti. “Una chiamata. Un agricoltore ha segnalato un Houndour in stato confusionale su ai Campi Calandrei.”

Solana, la schiena poggiata al muro dello studio medico, le braccia conserte, osservava di sottecchi, scura in volto. Desiderò dire qualcos’altro, aggiungere un semplice commento che sottolineasse il suo scorno, il fastidio, l’inquietudine; guardò Lunick Riviera avviare la moto e partire, allontanarsi senza alcun cenno di saluto verso la propria destinazione.

Socchiuse gli occhi, stanca e assieme amareggiata. Si scostò dal muro e si avviò, turbata, verso il comando dei Ranger che faceva bella mostra di sé neanche una cinquantina di metri più avanti.

 

Binocolo puntato verso la strada, svariati metri più in basso: la silhouette rossa della Kawasaki sfilò a buona velocità lungo il rettilineo, immergendosi tra i primi alberi e le ampie macchie di arbusti, sparendo gradualmente alla vista.

Binocolo abbassato: sul volto ampio e forte dell’osservatore prese forma una smorfia di soddisfazione. Si voltò, senza fretta, il resto dei compagni in attesa accanto alle camionette e alle moto in sosta ordinata nel sottobosco. “Andato,” scandì con tono beffardo, “Partito”. Ripose il binocolo alla cintura, giunse le mani sulle labbra rimaste contratte in un sorriso che non riusciva più a trattenere. “È ora.”

“Amon,” la voce dell’uomo nelle vesti lunghe, fermo a qualche metro, suonò calma: “Abbiamo un accordo.”

Un grugnito, lui, seppellì la soddisfazione dietro la mezza maschera di legno che gli copriva la metà superiore del volto, gli occhi strizzati nelle feritoie. “Certo, certo.”

Guardò la figura slanciata dell’officiante, avvolto nella lunga tunica verde oliva, stagliato con fiera silhouette nonostante l’età avanzata; lo osservò affondare una mano nell’abito, riportarla alla luce reggendo tra due dita una sanguisuga meccanica. Amon si accostò a passi larghi, la figura muscolare sovrastò il pure  alto interlocutore: fece per prendergli la periferica dalla mano, lui la trattenne. “La tua evasione,” voce elegante ridotta a un sussurro, “È costata parecchi crediti e molta diplomazia. Fa’ quello che preferisci con questa cittadina, ma portami quello che sai. Overlord conta su di te.”

Il massiccio cacciatore annuì con lo stesso, crudele sorriso di poco prima. Raccolse il parassita meccanico, lo contemplò per un momento, poi lo ripose in una delle scarselle al cinturone. “Manda i miei saluti a Overlord.” Rise. Una risata storta, bassa, quasi infantile, il sapore della libertà echeggiato da ogni foglia e ogni ramo che aveva intorno, ogni respiro d’aria boschiva. Tornò sui suoi passi con il fuoco negli occhi, un cenno feroce al resto della banda. “In sella, caproni! È ora di sporcare un po’ le belle casette di Torre Accadica!”

I suoi uomini, un’accozzaglia di bracconieri, conciatori ed ex trafficanti di Mon, risposero con urla sguaiate ed euforiche, irrorate dall’alcol e i fumi di erbe eccitanti. Montò in arcione al Chopper nero dal manubrio alto, la carrozzeria ancora sfregiata dove la caduta sull’asfalto era stata la fine della sua fuga al termine dell’ultima, fatale battuta di caccia nella Valle di Konobi.

L’uomo in vesti verde oliva guardò la disordinata torma partire tra gas di scarico e sbuffi di terra alzata intorno, moto e camionette assieme: un’occhiata al raffinato orologio al polso, le lancette sull’undici e il due.

Qualche giorno ancora, poi tutto questo non avrà più importanza.

Increspò le folte sopracciglia sotto il copricapo oblungo, verde anch’esso.

La storia avrà un altro finale.

Brivido.

Uno migliore.

 

***

 

Il piccolo fuoristrada Daihatsu si fermò al bordo della carreggiata, due ruote sullo sterrato del minuscolo spiazzo: una rete a maglie perimetrale circondava una casupola senza finestre sormontata dall’antenna del ripetitore. Intorno la vegetazione rada da macchia boschiva e il frinire degli insetti, i fiori, il paesaggio quieto.

“Ci siamo.” Kellyn spense il motore e smontò, guardò Brigette fare lo stesso, poi recuperare dal sedile posteriore la borsa col portatile.

“Non penso sarà una cosa lunga,” scandì lei, “Devo ricalibrare il segnale e aggiornare il processore. Avendo già modificato quello del comando, l’adattamento sarà molto più semplice qui.”

“Se ti serve una mano…”

“Ti ringrazio.”

Il giovane Ranger sorrise appena; si accostò alla porta di rete d’acciaio che interrompeva la recinzione, armeggiò con le chiavi del mazzo di servizio accanto al lucchetto e la catena che chiudevano l’accesso. “Dopo ti dovrò mica portare anche al ripetitore sulla Sud?”

“Temo di sì.”

“Beh, non so quanto ci metterai qui, ma…” Non finì la frase. Appena la chiave sfiorò il lucchetto questo cadde inerte al suolo, la catena penzolante nel vuoto. “Ma pensa te.” Kellyn si chinò a recuperarlo, lo scoprì ancora chiuso e intonso: l’occhio gli cadde sulla catena tranciata di netto. Guardò preoccupato avanti a sé, il nulla di quello spiazzo sterrato tra gli alberi, dietro di sé la strada, l’auto ferma.

“Tutto a posto?”

Lui non rispose. Aprì la porta con una spinta decisa, entrò nell’area cintata osservando la casupola senza finestre. “Qualcuno è entrato qui.”

“Ah?” Brigette, distratta, tornò a posare gli occhi su di lui, le palpebre sbattute un paio di volte in sequenza.

Kellyn avanzò, perplesso, si avvicinò alla porta chiusa della casetta già cercando la chiave corretta nel mazzo: ebbe l’impressione di non averne alcun bisogno. Poggiò una mano, spinse leggermente.

I due guardarono la porta aprirsi un grado alla volta, la luce penetrare con molta fatica nell’interno completamente buio; la mano del Ranger tastò contro la parete cercando l’interruttore.

“Ma che c’è?” Commentò la donna accigliata, giacca in spalla e borsa del computer in mano.

“Credo che qualcuno…”

Pigiò l’interruttore: un paio di neon baluginarono e poi s’accesero di un bianco candido.

Kellyn Marchese trasalì leggermente, lo sguardo sollevato verso l’alto, così Brigette.

“Che è successo qui dentro?!”

Due paia di occhi straniti, quattro iridi a vagare intorno senza precisa meta.

 

***

 

Se beccate chi sono i due personaggi (Amon il cacciatore e l'uomo intunicato) vincete a scelta una buccia di baccabana o un murales di Misty che gioca a beach volley. :yeah:

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***

 

Trillo leggero del telefono: Tessandra Malone sollevò l’apparecchio con un gesto consueto.

“Comando dei Ranger buongiorno.”

“Comando?” La voce dall’altro capo del telefono suonò quella d’un anziano.

“Sì?”

“Ascolti… Poco fa ho sentito del fracasso, allora sono andato alla finestra. Ebbene, ho visto passare delle persone poco raccomandabili.”

Perplessa. “In che senso poco raccomandabili?”

“Erano vestiti strani, mi capisce? Sembravano dei bracconieri. Brutta gente.”

“Capisco. Invieremo degli Operativi sul posto. Sa dirmi quanti erano?”

“Beh, io non li ho contati, ma…”, la voce dell’uomo sembrò farsi più insicura, “Ma saranno stati una quindicina, forse di più.”

Tess sbatté le palpebre un paio di volte, si arricciò i lunghi capelli scuri con la penna rimastale in mano. “Ne è sicuro?”

“Sì, sì, sicuro.”

“Ed erano su un veicolo?”

“Molti. Motociclette, camion, fuoristrada… Le dico, erano tanti.”

La ragazza umettò le labbra in un gesto ancora più stranito. “Beh, provvederemo subito a mandare qualcuno, non si preoccupi. Mi sa dire che direzione hanno preso, anche approssimativa?”

“Oh, ma è facile, si sono diretti verso la città.”

Silenzio. “Intende,” un respiro che sentì anomalo, “Intende qui? Voglio dire, Torre Accadica?”

“Sì, certo!”

“Ma lei da dove sta chiamando, scusi?”

“Sono Pickett, abito all’ingresso sud, ha presente?”

Occhi rimasti fissi sulla scrivania e il blocco note degli appunti. “Sì, ho presente.”

“Quelli sembravano andare in città, signorina, io non lo so cosa ci vadano a fare ma a me non piace questa cosa!”

Tess alzò lo sguardo verso Ezio, intento a compilare il desk a parete con le nuove posizioni di Mon di grossa taglia sul territorio boschivo; lui ricambiò con un’occhiata interrogativa.

Qualche istante di vuoto. “Va bene,” scandì lei, “Adesso valuteremo la situazione e interverremo. Grazie per la sua segnalazione. Le chiedo solo di restare in casa ed essere prudente. Nasconda il suo Mon, se ne possiede uno”.

“Senz’altro. Grazie.”

“Faccia attenzione.”

Richiuse la telefonata con un gesto nervoso.

“Ma chi era?” Ezio interruppe per un momento il lavoro, l’espressione incuriosita.

“Pickett, quello che abita al 2 della main street. Dice… dice che ha visto dei bracconieri. Tanti. E,” pausa involontaria, “E prendevano la main. Verso la città.”

Sbattere di palpebre. “Che? Ma era sobrio?”

“E preoccupato anche.”

Ezio ripose la stilo digitale, s’aggiustò la fascia rossa sulla fronte con un gesto nervoso. “Avverti subito la polizia e il prefetto. Io non so quanti siamo qui al comando ma vedo di raccogliere quanta più gente possibile.”

“D’accordo.” Tess raccolse il telefono, fece per digitare il codice d’attivazione della linea diretta con la stazione: s’interruppe sentendo l’apparecchio squillarle nella mano. Rispose. “Comando dei Ranger, buongiorno.”

“Sì, buongiorno, sono Melissa Casher, di Torre Accadica. Volevo segnalare che ho appena visto delle persone sospette, forse dei bracconieri. Viaggiavano su diverse auto e moto lungo la main street! Io non so chi siano, ma…”

“Siamo stati allertati, signora, ci stiamo muovendo. Rimanga in casa e nasconda qualsiasi Mon in possesso suo o dei suoi familiari.”

“Certo.”

“Grazie.”

Richiuse il contatto, nervosa. “Un’altra segnalazione.”

“Dai, allerta i ragazzi della stazione di polizia. Vediamo di andare a controllare cosa…”

Il suono del telefono lo interruppe. Tess Malone guardò inebetita l’apparecchio che lampeggiava d’azzurro.

“Pronto?”

“Il Comando dei Ranger? Sono Clara, la panettiera. Io… io ho appena visto passare della brutta gente, forse dei bracconieri! Ma erano sulla strada qui, capisce?! Erano tanti e io non vorrei che…!”

“Sì, signora Clara, siamo stati allertati, stiamo provvedendo, lei deve restare nel negozio, meglio ancora se riesce a chiudere tutto e mettersi al sicuro. Protegga il suo Mon, non lo faccia uscire dalla sfera, anzi la nasconda per sicurezza, noi…”

Il trillo improvviso degli altri telefoni indicò che anche la seconda linea aveva preso vita. Ezio e la compagna si scambiarono un’occhiata vacua. “Devo… devo andare, signora, ricordi il mio avvertimento.” Richiuse la telefonata, rimase a fissare l’apparecchio che continuava a suonare.

“Non rispondere, Tess. Avverti la stazione. Subito!”

“Sì.”

Non ebbe il tempo di afferrare di nuovo il telefono: l’intera sala del comando divenne improvvisamente silenziosa, gli schermi dei pc si rabbuiarono.

“Ma che diavolo…”

Si guardarono intorno, spaesati, graduale consapevolezza di essere appena rimasti senza corrente elettrica. Ezio tentò invano di accendere le luci, poi si spostò verso l’ufficio di servizio alla ricerca del quadro; Tess lo sentì armeggiare e imprecare sommessamente, si torse le mani in un gesto nervoso. “Non può essere solo sfortuna, non può essere.”

La porta dell’archivio si aprì, Laura Velia, Ranger di Primo Livello, si guardò attorno con aria perplessa e una pila di fascicoli tra le braccia. “È andata via la luce di là.”

“Niente, niente!” Ezio ricomparve in sala, infastidito, un gesto di stizza, “È saltato il generale, penso che tutto l’edificio sia senza corrente. Devo andare a riattivarlo nell’interrato.”

Tessandra lasciò la propria postazione, raggiunse il desk su cui era deposto il telefono satellitare, lo attivò con una pressione del tasto d’accensione. “Ci penseremo dopo, Ezio. Scendiamo al piano sotto, controlliamo chi c’è disponibile per intervenire.”

“Va bene.”

“Laura,” la giovanissima Ranger spostò lo sguardo sulla compagna di rango superiore, spaesata, “È un’emergenza. Sorveglia il presidio fino al ritorno degli Operativi, non prendere iniziative personali, non lasciare l’edificio. Questa è la missione che ti affido.”

Lei annuì, inebetita; guardò i due Operativi lasciare la sala a passo rapido, aprire manualmente le porte a scorrimento elettriche, poi avviarsi alle scale. Rimase a fissare il nulla per diversi istanti, le mani ancora impegnate a reggere i fascicoli.

 

Io so, so che lo avresti voluto.

Seduta sul cemento lungo la fiancata della rimessa del Comando, lo sguardo perso ai giardini e le aiuole intorno al parcheggio, al volo delle farfalle.

Anche se c’era il rischio di perdere quella scintilla, quell’essenza che chiamiamo anima.

Il sole caldo e la brezza primaverile, le auto rosse dei Ranger posteggiate con ordine, le stradine sgombre e le casette di Torre Accadica disseminate intorno in un paesaggio arioso e limpido.

Che poi neanche siamo sicuri che esista, l’anima. Forse dopo la morte non c’è nulla, né per noi né per i Mon. Siamo talmente abituati a dare per scontato che lo spirito sopravviva al corpo, da non considerare mai l’alternativa. Ci sono Mon mesmerici che si nutrono dei ricordi, dei sogni e delle pulsioni degli esseri viventi: ma l’anima, ammesso che esista, l’anima è un’altra cosa. Scoprire la verità, punire il colpevole: queste sono le cose che adesso contano.

E io l’avrei fatto, Timo, l’avrei fatto per renderti giustizia.

Solana Montego assecondò per un solo momento quella miscela di rabbia e dolore che sentiva crescere dentro, acuita dal silenzio del mondo, l’impulso di agire, fare, qualsiasi cosa ma farla, dare un senso alla propria passività.

Agire. Cercare, dove? Trovare un significato, una ragione, un nesso logico.

Strinse il pugno guantato e riaprì la mano, osservando i segni che le dita avevano lasciato sul palmo di pelle nera.

Gli specchi.

Un brivido.

Per un attimo, senza ragione, le si disegnò dietro le retine il proprio volto, la sua immagina riflessa: Solana.

Perché gli specchi?

Un rumore, forte, la fece emergere dal flusso dei pensieri. Si riscosse, s’alzò in piedi; camminò pigramente lungo la parete dell’edificio secondario, il suono un rombo crescente e sempre più acuto.

Che succede?

Pochi passi ancora, poi si fermò a ridosso dell’angolo: quattro fuoristrada e diverse motociclette voltarono dalla main street e si fermarono sgommando nel piazzale del Comando; portiere aperte, ne scesero una ventina di uomini.

Osservò stranita, un senso di pericolo che le gridava dentro faticando a farsi udire.

Chi è quella gente?

Gilet tattici, cinturoni, cartucciere, berretti larghi o bandane.

Un brivido.

Armi.

Bracconieri?

Il pensiero, illogico, la traversò come una folgore, le elargì una scarica d’adrenalina. Guardò attonita, come non li vedesse veramente, i nuovi venuti affrettarsi verso le doppie porte d’ingresso, poi entrare in massa.

Maledizione.

Solana si acquattò dietro l’angolo, continuò a osservare da quella decina di metri che dividevano la rimessa dal grande cubo ricco di vetrate che era il Comando dei Ranger.

Che diavolo sta succedendo?

 

***

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***

 

“Ma che è stato? Non ho più corrente al terminale!” Simon Polvera, folti capelli biondicci, si alzò dal desk principale della hall, un’occhiata nervosa ai due colleghi che scendevano a passo di corsa la doppia rampa di scale dal primo piano.

“È saltato tutto,” scandì Ezio trafelato; irruppe nella grande hall seguito da Tess, si fermò a ridosso del bancone d’accoglienza. “Abbiamo ricevuto una segnalazione di possibili bracconieri in viaggio qui vicino, forse addirittura in città. Dobbiamo intervenire.”

“Che? In città? Ma sei serio?”

“Sono serio! Chi abbiamo qui adesso?!”

“Ma sono tutti in giro, con questo casino che è successo a Timo sono tutti…”

“Chi abbiamo qui adesso?!”

Sospiro nervoso. “Ho Ampo in laboratorio. E due Reclute in magazzino, stavano ordinando le scorte di medicinali arrivate stamani.”

“Tutto qui?!”

“C’è anche Solana. L’ho vista fuori, prima, ma non mi ha comunicato di essere in partenza… Sarà ancora qui intorno.”

“Accidenti.” Una mano sui capelli scuri, nervoso. “Siamo troppo pochi.”

“Gli altri sono in giro, stanno facendo ricerche, lo sai che da ieri è un casino qui!”

“Faremo da soli,” Tessandra maledisse il satellitare che continuava a non trovare il segnale, “Com’è che non funziona?!”

“Non è possibile, un guasto alla rete elettrica non influenza la resa del satellitare.” Pausa. “A meno che…” Sentirono un brivido collettivo.

“Fammi fare un’altra prova.” Tess scostò Simon, si sedette alla postazione dietro il banco, premette furiosamente l’accensione, invano. “Perché non è subentrato il generatore d’emergenza?!”

“Tutto questo non è normale.”

La ragazza tolse dalla cintura la sfera, vi impresse un appello mentale d’aiuto: zampe e chitina baluginarono per un momento dando forma alla materia organica, assemblando nello spazio di un paio di secondi la figura del Galvantula. Stridere sordo di zampe e giunture, un metro e mezzo di aracnide dalla peluria color zafferano si assestò ai piedi del banco, la forma piena dell’addome dagli elaborati disegni viola, arti massicci, barbigli ricoperti di peli gialli anch’essi: sei occhi dalle mille sfaccettature entro i quali Tess Malone vide il proprio riflesso.

“Forza, Glavia: dobbiamo rifare come al rifugio montano. Avanti.” Si chinò a terra, strappò da sotto al banco il coperchio del pannello, poi adagiò una mano sulla testa del grande ragno e poggiò l’altra sui componenti elettrici scoperti.

“Lascia perdere!” Ezio prese le chiavi di uno dei Daihatsu parcheggiati all’esterno, “Passeremo dalla centrale ad avvisare gli agenti di persona!”

“Dobbiamo avvertire tutti del pericolo. Farò un solo tentativo.”

Verso spazientito del compagno, Simon a sua volta ciondolò nervoso. Tess sorrise alla volta del proprio complementare, poi chiuse gli occhi. “Voglio luce.”

Silenzio.

Il Galvantula ebbe un fremito delle forme, la peluria gialla di cui era ricoperto vibrò e si alzò come lanugine, due tenaglie chitinose si drizzarono sul retro dell’addome.

Nel silenzio, un crepitio viscerale. Piccole scariche di un bianco-azzurro traversarono il corpo della creatura, elettricità statica accumulata.

Luce.”

La scarica a bassa intensità attraversò il corpo di Tessandra, la irrigidì per un lunghissimo istante, fluì attraverso le membra e i gangli del suo sistema nervoso.

Non abbiamo paura della folgore, non temiamo il dolore.

Sentì il bisogno di gridare mentre la corrente assaliva il suo organismo, la voce non uscì dai polmoni contratti, i muscoli del volto le si bloccarono in una maschera di determinata sofferenza. Irradiò per un momento del colore blu del fulmine, gli occhi spiritati e dilatati.

Siamo una cosa sola.

Il quadro comandi del desk ebbe un crepitio e si rianimò. Lampade, monitor, prese esterne e router tornarono alla vita con un ronzio secco; l’energia elettrica residua si ritrasse com’era apparsa, defluì nello spazio di un istante, si disperse sul pavimento con un ultimo sibilo. Tess, ansante, si rialzò in piedi, barcollò.

“Ehi,” Ezio la sostenne, “Ehi! Tutto bene?!”

“Sì…”

Respiri fitti, occhi vitrei, il volto imperlato di sudore. La portò a sedere sulla poltroncina del banco.

“Sto bene…”

“Io non ce la farei mai, mai,” Simon una mano passata sul volto, “A fare queste cose coi Mon elettrici. Cazzo, fare da conduttore umano no, è una roba troppo pericolosa.”

“Solo allenamento,” la voce di lei fu accompagnata da un sorriso stanco, “Solo quello…”

“Avanti,” Ezio batté sulla tastiera del terminale, “Abbiamo un minuto, forse due di corrente. Diramiamo l’allerta e poi…” Sbalzi dello schermo, video presente-assente. Elaborò il codice sul sistema principale, digitò l’incipit per presenza massiccia di cacciatori di frodo, poi lo inviò sui comunicatori personali e i database remoti. La barra del caricamento si riempì una volta, poi una seconda.

“Andiamo…”

Tess mormorò un ossequio grato al proprio complementare: lo richiamò alla forma energetica facendolo scomparire nella sfera.

“Andiamo…”

“È partito o no?!”

“Quasi.”

Tamburellare nervoso delle dita sul legno, il lampeggiare sempre più insistente dello schermo.

“Avanti, avanti, resisti ancora qualche secondo, solo qualche secondo…”

“Forza, forza!”

“Ci siamo…”

L’ultimo quarto della barra.

“Avanti…”

La doppia porta a vetri dell’ingresso si aprì di scatto sotto l’impulso di un jammer.

Tre paia di occhi si alzarono all’unisono sulle figure che varcarono la soglia, armi in pugno, i volti segnati da bestiale soddisfazione e recondito desiderio di vendetta.

“Cosa…”

Increduli, attoniti: davanti a loro una quindicina di uomini armati, alcuni dei quali furono certi di riconoscere da un passato neanche troppo lontano.

La barretta del caricamento all’ultimo decimo del percorso.

Avanti.

Un crepitio secco: il monitor si spense definitivamente.

 

Solana sporse ancora una volta da oltre l’angolo della rimessa, fissò l’ingresso parzialmente fuori vista del Comando entro cui erano svaniti gli assalitori.

Erano armati.

Inquietudine profonda.

Fa’ che siano solo dei lancia-dardi.

La mente a correre sui sentieri più impervi, cercare una spiegazione razionale per qualcosa che razionale non era. Tolse dalla cintura il suo comm-link, cercò per la seconda volta di attivarlo: il minuscolo monitor evidenziò una laconica assenza di segnale.

Ma che sta succedendo?

 

“FERMI!” Cinque, sei, otto uomini con i fucili tesi, passi cauti nella grande hall, occhiate alle scale e alle porte del locale. “LE MANI IN VISTA.” Diversi di loro si separarono dal gruppo cominciando a esplorare i locali adiacenti.

Tre Ranger increduli esibirono lentamente i palmi, occhi negli occhi con la piccola torma di estranei, un misto di sfida e rabbia, di paura, di dubbio. Il volto di Ezio si colorò di una punta di costernazione quando lo sguardo si posò sulla figura massiccia nel mezzo dell’assembramento, vestita d'una tuta tattica grigia e gialla. “Amon Quint.” Smorfia di rabbia. “Tu… tu dovresti essere a marcire in galera!”

Il cacciatore sorrise. Sul volto squadrato, coperto dalla mezza maschera di legno, apparvero venature di sincera soddisfazione, di rivincita troppo a lungo attesa; abbassò il fucile, camminò loro incontro, andò a poggiare le mani sul bancone.

“Sì. SÌ! Dovrei essere in quell’inferno di Porta Sombra. Così avevano deciso i giudici.” Schianto: manata violenta sul banco. “CORROTTI! Giudici corrotti. Pagati dai Ranger e dalla Polizia per darmi il massimo della pena. PORCI! Condannare ME, un onesto lavoratore, al carcere duro: questa società è uno schifo!”

“Tu deliri. Come… come hai fatto a…”

La grande mano di Amon Quint gli afferrò il bavero, lo trascinò a sé sopra la curva del bancone. “Questi non sono affari tuoi, Ranger. Sai di cosa dovresti occuparti, invece?” Fronte contro fronte, stretta furibonda. “Di come cavartela col minor numero possibile di danni. Perché non ho scordato chi mi ha mandato a Porta Sombra, chi mi ha rovinato la vita per due anni in quel buco infernale.”

Ezio fece per replicare, le parole gli morirono in gola quando dalla doppia porta del retro emersero tre cacciatori con i due ragazzi del Primo Livello, Oliver e Tobia, le mani alzate e le armi puntate alla schiena, i loro sguardi attoniti verso i colleghi. “Altri due, Amon. Stavano nel silo posteriore.”

“Bene. Più siamo più ci divertiamo a questa festa.” Lasciò Ezio con un gesto sprezzante. “Di solito detesto essere attorniato da giubbe-rosse, ma oggi,” inspirò platealmente, “Oggi invece è l’unica cosa che voglio.”

Percepì il fremito tra i compagni, gli sgherri che erano stati assemblati per la spedizione punitiva.

“Siamo qui per regolare un po’ di conti in sospeso, Ranger. Con voi tutti.”

“Sei pazzo. Peggiorerai solo le cose! Quando ti arresteranno di nuovo ti aumenteranno ancora la pena!”

“Oh, no, non questa volta, ragazzo. No.” Un sorriso orribile, la testa inclinata sul collo taurino. “Non tornerò a Porta Sombra, mai più. Ora sono libero. Ho un mucchio di nuovi amici, e,” sollevò il fucile che reggeva nella mano, “Giocattoli di lusso. Sai cos’è questa, giubba-rossa?”

Lo sguardo di Ezio tradì una sottile paura di conoscere la risposta.

Esatto. Una sputafuoco. Uno di quei gingilli che sparano proiettili solidi; ne hai mai vista una in vita tua?”

“Come… come fai ad averla?”

“Amicizie giuste.” Rise di gusto. “Vuoi vederla in azione?”

“No…”

Altra risata grassa. “Andiamo, spazzatura, neanche ti avessi proposto di baciare un Grimer. Su, è solo una dimostrazione…” Tolse rumorosamente la sicura, esibì il fucile corto con una smorfia crudele, “Proiettili calibro 8, alta penetrazione: impiombano agevolmente un Mon di grossa taglia anche da decine di metri. Ma in realtà puoi usarli su qualunque cosa: trovo che diano il meglio di sé quando li usi contro i *censura* in divisa.”

Un singolo momento di paura, profondo, infinito. Amon Quint stese il braccio e l’arma, la puntò dritto a lato.

SPARO.

Simon Polvera si ritrovò sbattuto contro la parete, gli occhi sbarrati, increduli: un ampio foro rosso aperto sul petto.

“Simon!”

Scivolò a sedere a terra, una strisciata di sangue vivo sul muro, le iridi vitree; Tessandra si alzò bruscamente dalla sedia, gli si buttò accanto, inorridita, “Simon!”, le mani sulle sue spalle come a scuoterlo, sorreggerlo: lui reclinò lentamente il capo, le palpebre rimaste aperte sul nulla.

Spiriti onnipotenti.

Gli occhi tremuli dei quattro Ranger, l’orrore, il frastuono dello sparo ancora nelle orecchie, la vista del collega a terra.

“Simon…”

Tess, le mani ora premute sulla bocca, incapace di distogliere lo sguardo dal volto di lui rimasto raggelato, tirato, incredulo a sua volta.

“Sei…” Ezio s’impose di alzare lo sguardo in quello del bracconiere, lo scoprì ilare, divertito, soddisfatto, scatenato, “Sei un verme…!”

Amon scoppiò a ridere, furibondo; rimise la sicura all’arma, la buttò in spalla. Afferrò nuovamente Ezio per il bavero. “E questo è solo l’inizio!” Lo scaraventò a lato, travolse una lampada, lo guardò cadere sul pavimento. Poggiò uno stivale sulla faccia del giovane Ranger. “Vi farò pentire di aver indossato quella giubba rossa.” Lo lasciò, quindi si voltò, rabbioso, “Prendetevi cura di questi tre,” i suoi uomini già pronti a eseguire gli ordini, “Ma non andateci troppo pesante. Io,” si voltò verso la figura inginocchiata di Tess e sorrise, “Farò due chiacchiere con la bambolina vestita di rosso.”

 

***

 

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Nuova parte!

(lo so, lo so, è passato un mese, ma ero al mare e non potevo aggiornare causa palme, noci di cocco e wingull starnazzanti. In compenso, dopo questa, ho già pronta una novel mooolto succosa, tutta marina, tutta da seguire. Oh yes!)

 

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***

 

Solana si mosse a ridosso dell’edificio del Comando, si accostò alla prima finestra utile che dava sul piano terra.

Era uno sparo. Il suono di un’arma da fuoco, non una lancia-dardi.

Represse un brivido.

Sporse leggermente per osservare, dovette ritrarsi quasi subito scorgendo la figura di uno dei bracconieri, all’interno, voltato verso la medesima finestra.

Maledizione.

Sentì il respiro affannarsi, lo calmò con un breve istante di concentrazione. Lentamente Solana tornò a sporgere dal vetro dell’ampio finestrone, quel poco che bastò a gettare un’occhiata fugace.

Sono tutti lì dentro. Hanno preso in ostaggio Ezio e gli altri.

Espirò sconfortata.

Non puoi affrontarli. Sono troppi, sono armati.

Pensieri affollati, rabbiosi, sovrapposti.

Ma perché sono qui, che cosa fanno, che pensano di ottenere?

Si fece coraggio, sporse una terza volta: il bracconiere di poco prima guardava altrove, distratto da un piccolo parapiglia, le diede il tempo di scandagliare con maggior cura il grande atrio, vagò lo sguardo, febbrile, cercò di trovare qualsiasi segno che potesse aiutarla a prendere una decisione.

Dei Antichi.

Sentì di stare tremando, gli occhi sgranati, fissi sul sangue che macchiava la parete di fondo.

Ditemi che non è vero.

Il corpo seduto a terra, seminascosto dietro il bancone della reception.

Simon.

Si ritrasse, schiena contro la parete esterna dell’edificio. Tremava. Di rabbia, di paura. Sguardo sbarrato avanti, i denti stretti in un moto di orrore e viscerale, profondo odio.

Resta razionale.

Un collega ferito, forse ucciso. Una torma di avanzi di galera a occupare il Comando, Ranger in ostaggio. Un giorno di sole che diventava senza motivo un incubo.

Resta razionale.

Toccò la sfera appesa alla cintura, sentì il contatto mentale con Zefiro intensificarsi e diventare vibrante.

Devi affrontare la situazione usando la testa.

Annuì a se stessa, agitata, riconoscendo il pensiero combattivo del suo Mon.

Non era mai successa una cosa del genere. Neanche avresti mai immaginato potesse accadere.

Si riscosse, tetra, cercò di fare presa sulla razionalità nel turbine delle emozioni. Tolse dal fodero la sarissa e la dispiegò con un tocco, regolò il voltaggio sulla massima carica.

Loro hanno armi da fuoco e lancia-dardi, tu solo la modesta verga elettrificata.

Un respiro di fuoco.

Ho anche Zefiro.

 

“Vieni qui, cara.”

La grossa mano di Amon Quint si chiuse sui capelli neri di Tess raccolti a coda, le strappò un grido di dolore, la sollevò bruscamente in piedi, la voltò verso di sé: occhi negli occhi, quelli umidi, vitrei di lei, quelli feroci dell’uomo incavati nella mezza maschera di legno. “Fatti un po’ vedere.” La scaraventò di faccia sul bancone della reception, le inchiodò la testa sulla superficie con un’energica pressione della mano: gli sgherri intorno a lui ridacchiarono, vociarono crudeli. “Da questa prospettiva,” Amon le batté gentilmente sulle natiche, “Le cose diventano più interessanti ancora.”

Un verso di rabbia e sconforto, Tess cercò di lenire la stretta di quella mano rimasta serrata ai suoi capelli, invano. “Lasciami…” La voce le tremò, un misto di paura e sottile orrore, “Se mi tocchi, se mi…”

Risata grassa, crudele. “Cos’hai capito, tesoro?” La mano libera del cacciatore andò alla sua cintura, si chiuse intorno alla sfera che vi era assicurata. Tess realizzò con un istante di ritardo. “NO!” Si rianimò di colpo, si agitò, cercò di scalciare, invano; Amon le strappò l’artefatto, rise, lanciò la sfera nelle mani di un compagno che la infilò, elegante, in un minuscolo refrigeratore.

“NO, NO, NO!” Cercò di voltarsi, di raggiungere con lo sguardo il proprio complementare, “RIDATEMELO, RIDATEMELO!” Ignorò il dolore della stretta, mosse una mano dietro di sé per cercare di arrivare alla sua faccia, cavargli gli occhi, invasata, divorata dal panico.

“Silenzio, bestia!” Amon voltò la ragazza di peso, un solo istante iridi nelle iridi, poi le vibrò uno schiaffo pauroso, l’eco sonora nel silenzio della grande hall, la guardò cadere seduta a terra, la schiena poggiata contro il banco.

“Tessy!” Ezio ebbe l’impulso di scattare in sua difesa, mani forti lo trattennero e immobilizzarono.

“Requisite tutti i complementari,” il bracconiere indicò con un gesto i Ranger presenti, “Adesso è roba nostra.”

Adrenalina improvvisa, panico, una breve colluttazione nella quale tre divise rosse vennero sommerse dalla furia degli aggressori, le sfere sottratte tra gli insulti, le percosse, le urla di scherno. Vennero immagazzinate nel medesimo refrigeratore portatile.

“Sei,” la voce fioca, sottile, di Tessandra Malone lo raggiunse dal basso, dal pavimento, “Un verme.” Gli occhi sgranati fissi avanti, ambo le mani premute al lato del volto che, rosso, pulsava di dolore.

Amon la prese per il bavero e la sollevò senza fatica all’impiedi; sorrise. “Sei una di quelle toste, tu, ah?” La afferrò nuovamente per i capelli, un grido femmineo, la trascinò con sé per qualche passo; le alzò la testa a guardare la scala che portava al piano superiore. “Dimmi un po’: c’è rimasto qualcuno di sopra?”

Tess ebbe l’impulso di ribellarsi, di combattere, di colpirlo con tutta la forza, piuttosto sfidare la morte.

Laura.

Il pensiero le si impose nella testa per un breve, intenso momento; Tessandra sentì la propria mente calcolare nello spazio di un secondo le poche variabili che la situazione imponeva.

Lui non sa che Laura è di sopra.

“Non,” mormorò, gli occhi che andavano inumidendosi per il dolore e lo sconforto, “Non c’è nessuno…”

“Attenta.” Uno strattone che la fece gemere, tentare invano di allentare la stretta ai capelli. “Se adesso salgo e trovo qualcuno, chiunque sia, te l’ammazzo sotto gli occhi.”

Laura si sarà nascosta, forse nell’archivio. Deve aver compreso il pericolo. Deve.

“Allora?”

Se la riveli, perdi l’unica risorsa rimasta. Se non la riveli, ma lui la trova, la condanni a morte.

“ALLORA?!”

Tess si morse le labbra, il dubbio feroce, sanguinoso, a spaccarle il cuore in due.

Solana.

La variabile non calcolata, improvvisa, l’elemento nuovo e inaspettato.

Solana è ancora qui intorno.

“C’è,” scandì a mezza voce, “C’è una neofita… solo una neofita,” deglutì, il dolore lancinante ai capelli, “Non è una minaccia per te, non può fare nulla per ostacolarti…!”

Amon sorrise, freddo. “Questo lo decido io, Ranger.” Ammiccò verso i compagni. “Io e la gallinella qui andiamo a prendere questa novizia, voi tenete gli occhi aperti.” Uno strattone col quale la obbligò a guardarlo, ne incontrò lo sguardo spaventato, umido. “Vogliamo andare?!”

“Non farle del male, ti prego. È una solo una ragazzina, non… non può crearti alcun problema!”

Non ci fu risposta, solo lo strattone violento con cui la obbligò a incamminarsi con sé verso le scale, i passi pesanti dei suoi anfibi e quelli leggeri, incespicanti, degli stivali rossi di Tessandra Malone, Ranger di Torre Accadica.

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Vietato sbrodolare di adrenalina.

 

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***

 

Sacri spiriti.

Solana si ritrasse dalla finestra, inorridita, un senso di rabbia e dolore mescolati assieme: miscela incendiaria.

Lasciò il suo punto d’osservazione e si avviò a passo spedito lungo la parete, il cuore a batterle feroce nel petto, un senso d’adrenalina che non ricordò d’aver mai provato.

Al diavolo le regole. Al diavolo i protocolli.

Scartò oltre l’angolo dell’edificio, puntò diritta verso la porta di servizio sul retro del Comando, la raggiunse, cercò di aprirla col tesserino magnetico, invano, non c’è corrente: ricorse alla omni-chiave di sicurezza.

Hanno ucciso un Ranger, forse ne uccideranno altri: questa non è una situazione convenzionale.

Forzò la serratura con la chiave multifunzione, quindi s’immerse nella piccola stanza che fungeva da ordinato ripostiglio e stoccaggio di attrezzature.

Questo è un incubo.

Tolse dalla cintura la sfera, vi impresse il proprio richiamo mentale più acuto: un candore subitaneo, poi ossa e sangue presero in un istante la forma felina, feroce, di Zefiro. Gli occhi dello Zangoose baluginarono per un momento nella stanza, così la sua smorfia di rabbia animale, l’adrenalina già in circolo, esaltata dai pensieri di rabbia e vendetta della propria complementare umana.

“Zefiro.” Lei gli impose le mani sul volto, un contatto che trascese la mera emozione. “Aiutami a restare razionale. Combatti con me.” Il soffio leggero della creatura, il respiro. “Come una cosa sola.”

 

La figura ampia, muscolare, di Amon Quint si fermò esattamente davanti alle doppie porte scorrevoli di vetro, chiuse, degli uffici al piano superiore.

“TOC TOC!” Sferrò un calcio allo stipite che fece vibrare l’intera struttura. “Vieni fuori, neofita, qui abbiamo una festa! Ho portato tanti amici, tanto alcol, e questo posto è perfetto per una sagra!”

Attese, in silenzio, che l’eco delle sue parole si spegnesse, lo sguardo a percorrere lo stanzone deserto dall’altra parte del vetro. Sorrise.

“Niente, eh?”

Bussò energico, due o tre colpi sul cristallo che parvero mazzate.

“VIENI FUORI, RAGAZZINA! ADESSO!”

Silenzio.

Accennò verso la giovane Ranger al suo fianco. “Chiamala. Falla uscire ora, o giuro quanto è vero il mondo che la vado a cercare e la sgozzo.”

Brivido. Tessandra si fece forza, s’appoggiò al vetro, prese un respiro che sembrò bruciarle nei polmoni. “Laura.”

Stretta crudele, i capelli martoriati: lui serrò i denti in una smorfia di collera. “Così non può sentirti, cretina. Più forte!”

“LAURA!” Silenzio, il suo respiro affannato. “Laura, sono Tess! La missione è conclusa, Laura, vieni fuori, non… non è più necessario nascondersi o monitorare la situazione. Esci, per favore!”

Silenzio. Uffici deserti oltre la vetrata.

Il suono freddo di una lama estratta la fece rabbrividire: un coltello di trenta centimetri comparve nella mano callosa del bracconiere. “Vado a prenderla io.”

“NO!” Tess aprì le braccia come a frapporsi tra lui e la doppia porta, “Per favore, per favore… Ancora solo un momento, solo uno!” Respiri frenetici. “Laura!” Continuò a fissare gli uffici sperando di vederla comparire, “Laura, esci subito! È un ordine!”

Amon scosse il capo. “Ma no, lascia che si nasconda. Sarà più divertente.”

“LAURA!”

Il bracconiere la scostò con uno spintone, piantò la lama tra le due estremità della porta vetrata, fece forza per separarle, sbloccando il meccanismo. Tess gli si abbrancò a un braccio. “Per favore, per favore! Non farle del male!”

Lui la spinse con nuovo vigore, la fece cadere a terra. “Te la sgozzo davanti agli occhi.”

Un istante. Pensiero creato ad arte, improvvisato, un punto debole, una distrazione, qualcosa che lo sguardo di Tess Malone seppe cogliere nonostante il panico, la paura. Alzò un piede, caricò il colpo: calciò con tutta la forza che trovò sulla caviglia del bracconiere: Amon emise un verso di rabbia e stupore, barcollò per un attimo, rimase in equilibrio nonostante il dolore improvviso, guardò la giovane Ranger cercare di allontanarsi arretrando sui gomiti, lottando per rialzarsi.

“CAGNA!” Le fu addosso in un istante, evitò il suo scalciare disperato, la inchiodò a terra. Le serrò il collo in una mano, occhi negli occhi coi suoi sbarrati, impauriti, alzò il coltellaccio.

È la fine.

Venti centimetri di lama diretti al ventre, l’orrore della morte violenta.

La fine.

Suono leggero di scorrimento, le due porte a vetri si aprirono lentamente. Amon, rimasto a metà del gesto, si fermò. Voltò appena il capo: davanti a sé vide la figura incredula, spaurita, di una ragazzina di diciotto anni, il corpo magro in tuta e calzoncini rossoneri della divisa Ranger, il volto dai grandi occhi verdi e tremuli, i capelli castani raccolti sopra la testa in due distinti chignon. Laura Velia guardava lui, la collega a terra, il coltello alzato: guardava senza capire, senza riuscire a comprendere il senso di un atto di violenza gratuito, selvaggio, privo di ogni ragione. Laura Velia se ne stava lì, immobile, tremante, i palmi delle mani mostrati come fosse un gesto di resa.

Logica della violenza.

Amon sorrise, folle, dietro la mezza maschera. “Benvenuta alla festa, tesoro.”

 

***

 

Kellyn mosse qualche passo nella casupola, le luci al neon accese a illuminare un ambiente che non riconosceva più.

“Assurdo.”

Le pareti imbrattate con vernice nera, vergate di scritte e simboli, un turbinio di caratteri distorti, grotteschi, tracciati da una o più mani visionarie persino sul soffitto della stanza.

Tra le molte, una singola parola ripetuta fino alla nausea.

ARRIVANO.

“Ma che significa?!” Mani aperte e incredule. “Chi… chi perderebbe tempo per fare una cosa del genere, qui dentro, a che scopo?” Il giovane Ranger guardò Brigette con due occhi stralunati, scosse il capo come a chiedere un qualsiasi lume: la donna rimase atona a fissare lo scempio.

“Non vi è mai capitato da queste parti una cosa del genere?”

“Ma ti pare?” Kellyn fece un giro su se stesso, gli occhi colmi di scritte grondanti e simboli del tutto estranei, “No, non ho mai sentito di un atto di vandalismo così… così…” Non trovò le parole; si fermò quando s’accorse che sul viso di Brigette era disegnata una qualche forma di sottile consapevolezza. “Che c’è?”

Lei vagò lo sguardo altrove, indugiò sui caratteri, il nero cupo, l’ossessione con la quale erano stati tracciati.

“Cosa c’è?!” insisté Kellyn, il tono tradiva una certa preoccupazione.

“Ora, io non voglio fare allarmismo, ma,” un respiro cauto, “Qualche volta a Selcepoli l’ho sentito di fatti del genere. Luoghi imbrattati, coperti di simboli, la scritta Arrivano…”

“Lo sapevo!” Gesto rabbioso. “Solo qualche scarto della società cittadina poteva aver fatto una cosa così illogica e perversa!”

“Ah, non ricominciare con la critica alla gente di città, per favore…!”

“Ti garantisco che a Torre Accadica NESSUNO si sognerebbe di vandalizzare una casupola del ripetitore, e certamente non in questo modo.”

“Non mi hai fatto finire.” Pausa fredda. Il suono della natura, fuori, sembrò di colpo assente, quasi passato su frequenze più basse. “Chi fa queste cose non sono dei vandali. In genere sono degli invasati. Non so come dirti…”

“Invasati? Invasati di che?”

Brigette mosse una mano, vaga, cercò le parole migliori. “Non lo so, a volte dei visionari, a volte solo degli emulatori di visionari, si parla di… piccole sette, organizzazioni segrete, cose del genere.”

“Sì, ma, ma…” Kellyn sbatté più volte le palpebre, incredulo, “Io non capisco, tutto questo è assurdo.”

“Non è assurdo, voglio dire: è assurdo perché voi vivete in queste ridenti vallate dove certe cose non succedono, ma questo non vuol dire che non possano capitare altrove.” Lo guardò scuotere ancora il capo, vagare per la stanzetta come in trance.

“Assurdo.”

“Senti.” Brigette si spostò verso il terminale e la consolle di servizio, poggiò la borsa. “A parte verniciare tutto non mi pare abbiano spaccato il computer; fammi fare il mio lavoro, tu puoi intanto avvertire il Comando o chi per loro e spiegare l’accaduto. Poi valuteremo il da farsi. D’accordo?”

Il ragazzo annuì, l’espressione ancora stralunata. “D’accordo.”

“È tutto okay. Aggiorno i software e ce ne andiamo.”

Le scritte, intorno, come un caleidoscopio da incubo.

ARRIVANO.

Tolse dalla borsa il portatile, accese la consolle, iniziò a connettere i cavi: il monitor baluginò per un momento, poi si fece nero, infine lasciò comparire la schermata del logo Azura.

“Funziona.”

 

***

 

 

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***

 

Amon Quint gettò un’occhiata ai cinque ostaggi in divisa rossa e nera seduti contro la parete di fondo degli uffici; i loro sguardi vacui e bassi lo riempirono di soddisfazione.

“Clint,” accennò verso uno dei suoi sgherri, “Prendi una decina di ragazzi e date un’occhiata in tutti gli edifici del Comando: la rimessa, il deposito, il parcheggio. Non voglio Ranger *censura* nascosti nei paraggi. Perché sono sicuro,” si voltò verso i cinque giovani, “Che ci sia ancora qualche sbirro dei boschi in zona. Non è così?”

Non ottenne risposta.

Qualche cenno d’intesa e parte dei suoi lasciarono lo stanzone varcando le porte a vetri e scomparendo uno dopo l’altro verso la scala. Amon iniziò a passeggiare in cerchio per un minuto buono, poi si fermò, rovistò nella scarsella alla ricerca di filtro e tabacco: si arrotolò una sigaretta artigianale. “Vietato fumare qui dentro,” tamburellò sulla piastra d’alluminio appesa alla parete con la grafica del divieto, “Non fate come me, mi raccomando.” L’accese con uno zippo a forma di teschio, poi si avvicinò agli ostaggi con passo solenne, si chinò di fronte a loro. “Uno tra voi che ne capisce di computer?”

Ricevette gli sguardi livorosi e assieme tremuli dei cinque giovani: non ci fu risposta.

“Perché con voi devo sempre ricorrere alle maniere forti?”

Un solo respiro: la sua mano scattò al collo di Tobias, lo afferrò, lo sbatté violentemente contro la parete nel sussulto generale dei suoi colleghi, il ragazzo emise un verso soffocato, gli occhi sgranati dietro la stretta ferrea del cacciatore. Amon caricò il destro, un braccio dalla muscolatura possente si tese preparando il pugno, un diretto potenzialmente da coma.

“Io,” Ezio alzò una mano, vivido, “Io sono un programmatore.”

“Bene,” la smorfia folle del bracconiere tradì gusto viscerale per la supremazia, la violenza gratuita; lasciò Tobias sbattendogli la nuca contro la parete. “Allora alzati, programmatore, mostrami dov’è il server principale.”

“Sì.” Ezio s’alzò in piedi, accennò verso il lato opposto della stanza. “Sta dove c’è l’archivio.”

“Prego,” un beffardo gesto di precederlo. Il Ranger gettò un’occhiata amara verso i compagni, poi s’incamminò mestamente attraverso gli uffici, il criminale un passo dietro di sé. Raggiunsero la doppia porta dell’archivio, la varcarono, procedettero attraverso un breve corridoio dalle pareti azzurre e poi nell’ampio locale irto di scaffalature sulle quali erano ospitati centinaia di dossier cartacei ed elettronici; Ezio passò oltre, raggiunse la parete di fondo e la porta di ferro, piccola, che chiudeva il passaggio. Tolse di tasca il tesserino magnetico con estrema cautela, lo passò nel lettore: non accadde nulla.

“Non c’è corrente,” scandì Amon, “Abbiamo isolato tutta l’area con un jammer e un disturbatore di frequenza.”

Ecco perché neanche il satellitare funzionava.

“Se non fate partire il generatore d’emergenza, non possiamo aprire questa porta.”

“Come sei limitato.” Scostò il Ranger con una spinta indelicata, poi tolse dalla tracolla il fucile, rimosse la sicura, lo puntò contro la serratura elettronica: lo sparo risuonò come un tuono nella stanza, scardinò il blocco, sparse schegge di metallo intorno. La porta s’aprì con una fumata bianca.

“Visto? Non serve il generatore d’emergenza.” Afferrò nuovamente Ezio e lo sospinse nella stanza, entrò subito dopo di lui: l’ambiente, piccolo e mantenuto a bassa temperatura, senza finestre, ospitava solo il pannello del server principale e una minuscola scrivania, vuota.

“Dov’è la presa esterna?”

“Per fare cosa?”

“Non farmi incazzare, sacco di stracci. Voglio la presa esterna.”

“La presa esterna per fare cosa?!” Ezio gesticolò rabbioso, “Ne ha molte, cosa devi farci?!”

L’uomo aprì una delle scarselle appese alla cintura, prese tra due dita il parassita meccanico, lo esibì con un gesto beffardo e il fumo della sigaretta tra le labbra. “Inserire questo.”

Ezio stralunò gli occhi, “Tu vuoi… copiare la memoria del server?”

“Muoviti, mostrami dove si inserisce.”

Il Ranger sospirò, cupo; trovò evidente che Amon Quint non capisse nulla di elettronica, e per un attimo lo sfiorò l’idea d’indicargli una presa errata: desistette quando realizzò che, se se ne fosse accorto, avrebbe potuto farne le spese uno qualsiasi dei suoi colleghi se non lui stesso.

“Qua,” aprì il pannello protettivo di plastica trasparente, gli indicò una delle uscite; guardò la grande mano guantata dell’uomo immergere il parassita meccanico nell’incavo, piccole luci rosse illuminarono la forma insettoide del marchingegno e riverberarono sul volto squadrato, forte, del bracconiere, sul suo sorriso beffardo. “Funziona,” commentò soddisfatto.

“Cosa te ne fai di copiare la memoria del nostro server?!”

“Io niente. Ma le persone per cui lavoro ci tenevano molto ad avere questi dati.”

Mani aperte in un gesto di frustrazione, “E loro cosa…?” Ezio tacque. Un sottile moto di consapevolezza lo attraversò, gli provocò un brivido gelido.

Il database della Banca Mon. Le mappature Viridant. I codici univoci di tutti gli esemplari di Mon mai catalogati e i rispettivi genotipi.

Sbatté le palpebre più volte per realizzare l’importanza del furto che stava concretizzandosi sotto i suoi occhi.

Avranno accesso ai dati di milioni di esemplari, le loro aree geografiche, ogni singolo record che i Ranger e i ricercatori di tutto il continente hanno accumulato in vent’anni di lavoro.

Poggiò la schiena contro il muro in un moto di sconforto, scosse il capo, cercò di immaginare una soluzione a quell’incubo che stavano vivendo, tutti loro, e in cui erano sprofondati senza ragione, in un giorno di sole uguale a mille altri in Torre Accadica.

Non ci riuscì.

 

***

 

Lunick Riviera rallentò fino a fermare la moto al bordo della strada, intorno a sé i campi in buona parte ancora non seminati, bordati da macchie di arbusti ed erba alta; scorse il trattore fermo a pochi metri, la coppia di uomini intenta a discutere lì accanto. Scese di sella, salutò con un cenno.

“Che è successo?”

Artemisio Capp si toccò la tesa del cappello di paglia, poi fece un cenno delle mani. “Un Houndour, in palese stato confusionale. Era addomesticato, ne sono sicuro; ho cercato di attirarlo col gesto dell’invito, ma lui mi ha quasi attaccato. Poi è fuggito via.”

“Dove?”

“E chi lo sa. Verso gli alberi, credo. Non è più tornato.”

Lunick poggiò le mani sui fianchi, uno sguardo intorno, alla distesa dei campi arati, l’erba gialla più lontana, poi il bosco, il cielo azzurro quasi terso. Il silenzio quieto della campagna. “È scomparsa una donna, sulla Provinciale 14. Aveva un complementare Houndour, scomparso anch’esso: credo possa essere lui.”

“Sì, ho sentito di quella donna. Che strana storia.”

“Già.”

“Non so se v’aiuta,” l’altro contadino ammiccò con un inspirare sordo, “Ma io stanotte ho visto una cosa strana.”

Silenzio. Leggero brivido istintivo. “La ascolto.”

“Tornavo dalla sala comune, stavo in macchina. Passavo il tratto della Provinciale 4 quello che sale in mezzo al boschetto, sotto alla collina, dove crescono i castagni.”

“Ho presente.”

“Io ti dico, Ranger, c’erano delle luci. Delle luci.”

Vagare d’occhi. “Luci?”

“Sì, nel bosco. Come se qualcosa brillasse di bianco, vedevo il riverbero in basso, passando dalla strada. Qualcosa di bianco tra gli alberi, lontano.”

“Non ci vive nessuno lì.”

“Ma si capisce. Infatti mi dicevo: Rafà, o stasera il rosso t’ha fatto uno scherzo, o laggiù ci sta qualcuno.”

“Qualcuno?”

“O qualcosa. Io non lo so, ma era come un lume. Una luce strana, mai vista una cosa del genere, un candore sgradevole. E stava laggiù, tra gli alberi, si vedeva appena, era buio.”

“E non si è fermato a controllare?”

Respiro denso, una qualche ombra sullo sguardo. “Sarò sincero, ragazzo. Lì per lì pensavo: sarà qualcuno che fa una passeggiata di notte. Mi volevo fermare, ma,” pausa, un brivido, “Quella… quella strada la faccio tutte le sere. Passa nel bosco, per un tratto, e non ci sono molti lampioni. Però mai, mai m’ha messo inquietudine in quarant’anni che ci guido; ieri sera, invece…” Scosse il capo, come ipnotizzato. “Non me la son sentita. Non me la son sentita. Ho tirato dritto, fino a casa.”

Lunick annuì, vagamente a disagio. “La capisco.”

“È tutto strano,” rincarò Artemisio, “Da giorni. Succedono cose strane.”

“Ce ne siamo accorti, sì.” Espirò. “Tenete gli occhi aperti, segnalate al Comando o alla Polizia qualsiasi altra cosa anomala. Verremo a capo di questa faccenda.” Accennò verso l’asfalto. “Vado a dare un’occhiata a quel tratto di strada, sotto la collina.”

“E quel Houndour?”

“Lo cercheremo. Avvisatemi se dovesse ricomparire.”

I due contadini annuirono; Lunick Riviera si congedò con un cenno, tornò verso la moto. Cercò di non ammettere con se stesso che era inquieto, che troppe cose sfuggivano alla sua personale logica. Tornò in sella e avviò la propulsione della Kawasaki, riprendendo la strada.

 

***

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***

 

“Guarda.” Valdsen indicò il retro dell’edificio del Comando: una piccola porta chiusa, forse solo un magazzino. Il compagno fece cenno di seguirlo; raggiunsero l’uscio, occhiate intorno alla radiosa giornata, agli alberi in fiore, al cielo terso. Girò la maniglia, constatò che la porta non era chiusa.

“Occhi aperti.”

Entrarono guardinghi, i fucili puntati intorno: una stanza in penombra, attrezzi da lavoro e da pulizia disposti con ordine sulle pareti. Qualcosa, forse istinto, li fece restare in posizione invece di tornare all’esterno.

“Ragazzi.”

Sobbalzarono: puntarono le armi, febbrili, verso il punto al fondo della stanza dove qualcuno nell’ombra sembrava attenderli. “ESCI FUORI!”

Lenta, quieta, Solana Montego si staccò dalla parete contro la quale era rimasta celata fino a quel momento, le mani in mostra, la sarissa serrata nella destra. “Calma.”

Leggero sorriso avido sui volti dei due bracconieri, un indugiare istintivo sul suo corpo in qualche modo esaltato dai chiaroscuri, dalla divisa aderente. “Getta il bastoncino, ragazza.”

Solana scosse il capo, un respiro intenso per placare l’adrenalina. “Non lo farò. Gettate voi le vostre armi: adesso.”

Le canne delle sputafuoco si alzarono di più, desiderio di sparare, di macchiare di rosso il nero della divisa Ranger. “Vuoi farti bucare, bellezza? Vuoi scoprire cosa si prova?!”

“Per favore,” lo sguardo grave, intenso, “Sa che sono in pericolo di vita, e agirà di conseguenza: per favore, non fatelo scatenare, o finisce male perché io non lo fermerò.”

Silenzio. I due uomini elaborarono la minaccia con un istante di ritardo.

Dal nulla, un ringhio sommesso.

Dilatare istintivo d’occhi.

Paura e adrenalina.

Lo Zangoose calò dal soffitto travolgendo entrambi i bracconieri, si avventò sul secondo afferrandolo e scagliandosi con esso contro la parete, potenza animale, un grido umano soffocato dall’infrangersi di suppellettili e oggetti. Valdsen si rialzò febbrile, cercò a tentoni il fucile caduto, lo sollevò in un movimento convulso: il calcio di Solana lo raggiunse in pieno stomaco, lo scaraventò di nuovo a terra, l’arma un passo più in là. “Maledizione!” Lottò per voltarsi, fece per afferrarla ancora, la Ranger fu più veloce di lui, calciò via il fucile caduto. Si avvinghiarono in una lotta furibonda, a terra, un annaspare senza ordine né metodo, nel tentativo di sopraffarsi usando solo l’elementare forza fisica.

È più forte di me.

Solana emise un verso soffocato nel tentativo di respingere l’assalitore, invano. Si trovò a terra, premuta al suolo, le mani di lui a brancicarle la divisa, i lunghi capelli. Scalciò, gli affondò un ginocchio tra le costole: inutile.

Occhi da pazzo, Valdsen le mise una mano al collo, con l’altra sguainò il coltello dalla cintura. La mano di lei gli bloccò il polso, solo un istante, prima di cominciare a recedere sotto la forza dell’uomo, il tremito dei muscoli tesi allo spasmo.

Non posso reggerlo!

Iridi vivide, accanite, cruenta lotta per la sopravvivenza.

Gli occhi di Valdsen guizzarono per un istante in alto: venne afferrato di peso e scaraventato indietro, schiena al muro. Lui osservò inebetito per un istante la figura mostruosa dello Zangoose bianco e rosso, le zanne snudate in una smorfia di collera cieca.

“Zefiro, no…!”

Due artigli smodati si immersero nel ventre dell’uomo, lo inchiodarono alla parete in un moto violento, grido disumano di dolore e due occhi pazzi di paura, il braccio muscolare della bestia si alzò sollevandolo e scorticando il muro in uno stridio atroce di calcinacci. Le urla, di dolore, di terrore, riempirono il magazzino di una cacofonia di suoni da incubo, lo scalciare disperato del bracconiere: l’altra mano del Mon prese solo un breve slancio prima di calare verso il collo esposto.

Suono orribile di carne lacerata.

Il tonfo di un corpo ora libero sul pavimento.

Silenzio.

Solana, ansante, guardò con occhi sbarrati i due cadaveri sfatti sul pavimento, il sangue che andava raccogliendosi loro intorno.

Spiriti dei cieli.

Si rialzò da terra, dolorante, il respiro rauco. Zefiro, quieto, inclinò il capo in una vaga espressione di perplessità.

Sono morti.

I corpi a terra. Il sangue.

Aggiustò la divisa, un gesto per scacciare il senso di freddo che la stava assalendo, il formicolio alle dita.

Li ha uccisi. È addestrato a non infliggere danni letali, ma ti ha vista in pericolo di vita, non ha esitato a farli a pezzi per proteggerti.

Brivido.

O forse… Forse ha sentito il tuo odio, la tua volontà di distruggerli.

“Andiamo.” Solana si massaggiò una spalla dolente, senso ovattato di caos, di confusione, la testa un turbine di emozioni, di pulsioni. Zefiro tornò sulle quattro zampe, allungò il muso come a cercare la sua mano in un moto d’affetto.

Li ha uccisi. Brutalmente assassinati. Perché TU lo hai voluto. Perché non gli hai imposto di fermarsi.

Respiro affannato, senso d’angoscia.

Si diresse alla porta, al mondo esterno, alla luce del pomeriggio che era fuga dalla penombra di quella stanza da incubo.

 

Una decina di occhi nella grande sala si alzarono a vuoto, vagarono, come rapiti, raggelati. L’urlo si estinse, lontano, come non fosse mai esistito.

Silenzio.

Amon Quint rientrò in quel momento, Ezio davanti a sé: lo spedì a sedere con gli altri.

“Hai sentito?!” lo apostrofò uno dei suoi, occhi stralunati.

“Dannazione, sì. Qualcuno dei nostri dev’essersi imbattuto in un Mon da combattimento. E non è finita bene.” Scrutò i suoi per un breve momento. “Non fatevi impressionare, idioti! Le nostre armi sono più forti di qualsiasi Mon!” Sollevò il fucile in un gesto imperioso. “Gli altri ragazzi lo abbatteranno.” Si mosse, camminò a passo pesante accanto alla parete lungo la quale sedevano gli ostaggi. “Chi c’è là fuori, ah? Chi è il vostro coraggioso collega?” Si fermò innanzi a Laura Velia, la guardò abbassare gli occhi impaurita, attonita. “Tu lo sai, ragazzina?”

Lei fece segno di no con la testa.

“E tu, programmatore?”

Ezio fece segno di no, teso. “Può essere uno qualsiasi dei nostri che è rientrato dalla missione.”

Il mezzo volto del bracconiere fu traversato da un sorriso crudele. “Io vi conosco, sbirri dei boschi, avete un solo eroe qui, ed è Lunick Riviera. Dopotutto,” ammiccò dietro la mezza maschera di legno, “Sono venuto apposta per lui.” S’appoggiò il fucile su una spalla. “Ma l’ho visto partire e non credo che sia già tornato. Vogliamo scommettere che si tratta di miss Montego?”

I suoi uomini ammiccarono a metà tra sollievo e adrenalina.

“La andiamo a prendere?” scandì Clint con una smorfia furiosa.

“Perché mai. Molto meglio che sia la ragazza a venire da noi.”

“Tu.” Fece segno a Tessandra di alzarsi in piedi. “Togliti la divisa, tesoro.”

 

***

 

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