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[Edre] Racconti nel tempo.


Snorlax

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Missione: Salviamo Rayquaza! / Remake: Il desiderio di Max

Avevo otto anni e tanta voglia di scrivere. Il risultato è questo. Pessimo, comprensibilmente, ma almeno qualcosa sweat.gif. Ho anche fatto un remake della storia, che mi piace molto di più, naturalmente laugh.gif


Missione: salviamo Rayquaza!

MAX ha perso una lotta.
La madre di VERA , data la depressione di MAX decide di portarlo al Parco di Solarosa .
MAX è ignaro di cosa gli aspettava!
MAX si diverte!
Gioca, gioca, gioca!
MA…Un vortice si abbatte sul parco!!!!!!Tutti fuggono, tranne MAX, che grida:- chi lo ha fatto è Rayquaza! Ma... BZZZZ!!!!!!! Un fulmine investe MAX, è il Minun di un Pokèmon scout.
Esso dice:- ehi tu! Ragazzino! Torna dalla tua mamma! Quaggiù è pericoloso! Sono Lunik, Rayquaza è caduto in mare, devo tirarlo fuori!
MAX lo smentisce;- eh no! Io resto! Ho già  collaborato con una scout, Solana!
-Ehm…..Scusami…..Hai un Pokemon che usa presa?
-No! Ho solo tanti amici Pokemon!
-MAX! Sei d’accordo a diventare uno scout?
-SI! Con quale Pokemon?
-BOH……………………………………………………………………












JIIIIRAAAAAAAAAAAAAAAAA

LUNiK balbetta:- Jjjjjjiiiiiiiir…R..R..AChi?
-Ciao Jirachi, hai sentito? Vuoi esaudire? JIRACHI DICE SI!!!!!!
MAX con aria di sufficienza:- JIRACHI! Libera Rayquaza!
JIRACHI esaudisce….
ORA MAX è UNO SCOUT E CON JIRACHI AL FIANCO E ANCHE MOLTO FELICE!

Brevissimo remake:

Max è steso sul letto, guardando i granelli di polvere volteggiare sulla tua testa. Una sfuggente lacrima gli attraversa il viso. Dopo poco un'altra. E un'altra ancora. Non riesce a credere di aver perso in questo modo. E' un fallito! Non è nemmeno capace di vincere con il Vigoroth del padre!
Dietro la porta, la madre ascolta il figlio singhiozzare, si sente impotente.
Ad un tratto, il legno viene a mancare sotto le mani della donna.
"Mamma... Mi porti al parco di Solarosa?" chiede Max singhiozzando.
"Oh, amore, certo!" lo abbraccia la donna, ringraziando Arceus o chi per lui per averle ridato suo figlio.

I fili d'erba scorrono sotto le mani del ragazzo, finalmente sorridente. La madre di Max è andata via, il figlio era finalmente calmo. Un pallone sfiora il polpaccio del bambino.
"Ehi, Max?" lo chiama una ragazzina dall'altro lato del parco "Vuoi giocare con noi?"
Il bambino sorride, si incammina lentamente verso la sua compagna di giochi.
Il piccolo sente sul suo viso la brezza settembrina, che lo tocca con le sue dita invisibili.
Ma le dita si irrigidiscono le unghie tenere diventano artigli affilati, la delicata pelle si arruvidisce... Un'improvvisa tromba d'aria si abbatte su Solarosa, sradicando alberi, spazzando via i Pokémon e le persone, fino ad un attimo prima felici.
Nella nube, Max vede una esile figura.
"Ra... Rayquaza!" urla con voce stridula.
Il Pokémon scivola sempre più giù, schiantandosi con un immane fragore sullo specchio d'acqua cristallina del parco.
Max si avvicina, curioso, ma viene bloccato da una voce:
"Via di lì, bambino! E' pericoloso!"
Max si gira: è un Pokémon Ranger.
"Non è vero!" si difende il piccolo "I Pokémon sono miei amici!"
"Torna a casa!" replica il ranger "Lascia lavorare chi i Pokémon li fa amici per mestiere!"
"Diventare amici dei Pokémon non è un mestiere!" urla Max sull'orlo delle lacrime, correndo verso Rayquaza.
"Ehi, fermo!!!" urla il Ranger.
Max è davanti all'acqua. Le folate di vento tentano di trascinarlo via, ma la sua volontà  ha la meglio. I suoi piedi si piantano al suolo, impertinenti.
Poco distante, Max sente la voce del ranger:
"Non ci sono dei maledetti Corphish qui? Mi serve un Pokémon con Presa!"
"Nel laghetto vive un Crawdaunt! Una volta l'ho incontrato!" urla di rimando Max.
"Ancora tu?" urla il Ranger "Vai via! Subito! Vuoi giocare a "Ranger per un giorno", forse? Non è il momento!"
"Ma io ho già  collaborato con Solana, so come fare!" ribatte Max.
"Solana, quell'incosciente di mia sorella!" ringhia il ranger.
"Allora tu sei Lunik! Ti aiuterò!" esclama Max convinto.
"E come, scusa?" esclama stufo Lunik.
"Così!" urla Max a squarciagola.
Il cielo si oscura, lasciando il posto ad una notte improvvisa, inaspettata. I venti si placano, le stelle iniziano a splendere di luce aurea.
"Jirachi!" urla Max al cielo "Esaudisci il mio desiderio!"
Lunik è sconvolto: quel ragazzino ha davvero..?
Una stella si stacca dalla volta celeste, volteggia lievemente intorno alle nuvole chiare, si ferma davanti a Max.
"Quanto volevo rivederti..." sussurra il piccolo.
La luce cosparge tutto, avvolgendo il lago.
Un forte ruggito squarcia la coltre bianca. Rayquaza ascende al cielo, con movenze sinuose e ipnotiche.
"Max..." sussurra Jirachi "Il tuo desiderio è stato esaudito..."
Il bambino non sa cosa dire, ha le lacrime agli occhi.
"Ma io conosco il tuo vero desiderio..." continua Jirachi "Ed esaudirò anche quello..."
La luce si offusca improvvisamente, Max è davanti ad un Pokémon, un piccolo Ralts. Quel Ralts.
Il piccolo Pokémon corre verso Max, sorridente.
"Staremo per sempre insieme!" urla il bambino mettendosi a piangere.
Pochi giorni dopo, Max ricevette il Pokédex.


 

L'esame della vita

Prima media: l'ultima poesia da me scritta, che io ricordi.


 

Ricordi

Ceneri. Ceneri di guerra,

superando il fronte,

distruggendo le barriere,

Poi guardarsi intorno

E rivedere la pace.


Un vecchio giorno

Sta scomparendo

Sto iniziando

L’esame della vita

Ricordi…


Voci. Voci da lontano,

vivendo dentro un sogno,

squadrando l’avversario

e liberando piano

la mia vera voce.


Un grande giorno

Sta continuando

Sto scrivendo

L’esame della vita

Ricordi…


Vento. Vento che ci cambia,

Guardando un nuovo giorno,

Vivendo questa notte,

Tra i banchi, i libri

E quello che ci è stato dato


Un nuovo giorno

Sta apparendo

Sto superando

L’esame della vita

Ricordi…


Riflessioni sull'imminente Unità  d'Italia

Rifessioni sull'Italia unita. Rileggendolo ora mi sono riscoperto piuttosto intollerante ad alcuni aspetti della politica. Adesso mi sento molto più tranquillo di allora sweat.gif




Considerazioni

“Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”
Questa frase mi ha portato a fare una profonda riflessione. L’Italia è unita, dalle Alpi a Sicilia, ma gli italiani sono più divisi che mai. Tra leghisti, pro Borboni, neo-austriaci e neo-africani il razzismo e la discriminazione fanno da padroni.
Il 17 Marzo 2011, però, un grande evento ha unito, anche solo per un giorno, l’intera (o quasi) comunità  italiana. La celebrazione dei 150 anni dell’Unità  d’Italia. Un’occasione per mostrare agli italiani tutti e in particolare ai gruppi estremisti quanto cemento patriottico sia rimasto tra noi e ci abbia unito in tutti questi anni, anche se nell’ombra. L’Italia ha riscoperto, inoltre, l’importanza e il significato simbolico del Presidente dello Stato, spesso poco conosciuta dal popolo.
Chiaramente, non tutto è perfetto, i leghisti e la provincia di Bolzano non hanno partecipato alle celebrazioni. Nel primo caso sono completamente di parte, non nascondo il mio disprezzo per i leghisti e il loro assurdo movimento separatista. Forse questi grandi signori non conoscono la storia, infatti mi sembra strano che non capiscano che l’Italia sia nata dalla loro “Padania”. Trovo che non abbiano rispetto per i loro avi, quei “Padani” morti per fare l’Italia, questa sconosciuta. Dovremmo ribellarci noi del sud, a questo punto, noi che abbiamo visto la ricchezza sfuggirci dalle mani in un plebiscito falsato, certo, ricchezza fondata sull’ignoranza, ma sempre ricchezza. Per la provincia di Bolzano riesco a capire la loro posizione: sono sempre stati nell’Austria, l’Italia li ha “rubati” al loro popolo, ma… Il punto è che la stessa Italia che loro disprezzano dà  loro più soldi di Calabria, Basilicata e Puglia messe insieme. E’ normale che esistano alcuni movimenti separatisti, ma non è normale che questi siano nel governo e rappresentino una grande fetta degli italiani.
Solo le catastrofi e le feste riescono ad unire questa nazione, come per esempio la recente crisi libica: finalmente maggioranza e opposizione hanno smesso di insultarsi a vicenda per affrontare un problema comune (a parte la Lega, naturalmente, che ha paura degli immigrati al nord, mentre noi abbiamo paura delle bombe), anche se adesso l’intero occidente rischia una terza guerra mondiale…
Tornando alla nostra festa della nazione, credo che ci voglia un qualcosa che possa “riunificare l’Italia”, come il ricordo per i grandi del passato che si sono sacrificati per noi perché vivessimo in questo mondo “migliore” o la ricerca di qualcosa in comune tra nord e sud. Rileggendo la storia dell’unificazione ho sentito un qualcosa di profondo dentro me, ho pensato a come sia facile distruggere quello che molte persone hanno cercato di creare per mezzo secolo: Mazzini, Garibaldi, Cavour… Nel secolo a venire abbiamo raggiunto importanti traguardi, superato crisi, sempre uniti sotto il nome di Italia. Perché nel momento più prospero dobbiamo dividerci?
L’Italia è una magnifica nazione, apprezzata in tutto il mondo per il cibo, l’arte, la gente… Io non capisco come molti connazionali la odino. Molti stranieri sognano l’Italia, mentre noi la denigriamo e ne parliamo male. Dovremmo essere fieri di essere italiani, a prescindere dai politici, dalle discriminazioni, dalle convinzioni di molti e dai preconcetti di altrettanti. L’Italia crescerà , la sua reputazione migliorerà  e il sud ritornerà  al suo splendore, ma solo con un cemento nazionale, come ha ricordato Giorgio Napolitano.
Io sono fiero di essere italiano, fierissimo!



Fiedra

Uno dei tanti libri iniziati e mai finiti. Potrei continuarlo come fanfiction dopo Moon and Stars


Capitolo 1 : Mai piu’ come prima


Rose era seduta sul davanzale. Dalle finestre in ferro della sua stanza scrutava il cielo plumbeo di Zea. Zea, la sua città . La pioggia scendeva fitta bagnando il suolo roccioso. Dall’alto del suo quinto piano riusciva quasi a scorgere le torri della Cattedrale della Dea Pura, vanto della sua città . Proprio quella città  che lei non aveva mai visto in sedici anni di vita. Dietro le tende della stanza padronale, Rose riusciva a scorgere la figura di Madame Juliet intenta a scrivere chissà  cosa. Madame Juliet, o come tutti la conoscevano, Madalie era una donna sulla cinquantina, padrona della villa dove abitava, posizionata su uno dei colli più alti di Zea e circondata da un fitto bosco. La pioggia si stava lentamente fermando. La ragazza era ormai abituata a quel panorama e ne conosceva ogni angolo, segreto o illuminazione, ma, chissà  perché, non se ne stancava mai.
Rose viveva in quella struttura da sempre. Era un “Centro per i giovani talenti”, riservato a tutti i ragazzi dotati di un particolare potere. Rose era, appunto, uno di questi, anche se lei non aveva mai saputo sfruttare il minimo del suo potenziale. Lei era diversa da tutti: sia gli umani; sia i Figli di Kalba, come erano chiamati i “potenti”, i talentuosi in onore della Dea della forza e dell’intelligenza.
Le ultime luci del giorno lasciarono spazio alla notte, mentre la pioggia continuava a martellare le orecchie della ragazza. Accadeva sempre così a Zea, costruita sulla piana dell’isola di Ecluira, umida e imprevedibile.
Con la notte Rose si riscosse dai suoi pensieri, avviandosi al guardaroba. Indossò il suo vestito ufficiale e si diresse verso l’uscita. Non fece però in tempo a fare un passo che la porta si spalancò all’improvviso. Sulla soglia, la sua compagna di stanza: Hana.
Hana era una ragazza un anno più piccola di Rose, ma molto più sicura di sé. Prima di tutto per la sua bellezza: il corpo magro, l’altezza, i capelli biondi e gli occhi blu notte conquistavano tutti i ragazzi del Centro. Rose in un certo senso invidiava la sua coinquilina proprio per quella sua sicurezza. Inutile dire che le due ragazze fossero come cane e gatto, si tolleravano a stento.
Hana squadrò Rose con la solita aria strafottente e la lasciò passare. Nei bui corridoi della villa erano in pochi a orientarsi. Per Rose, invece, quei corridoi erano il suo mondo. Si ricordava ancora di quando, appena arrivata, aveva provato un terribile senso di smarrimento, ma ormai l’abitudine aveva avuto la meglio sulla paura e nemmeno l’arredamento particolarmente austero ormai la riusciva ad intimorire.
Rose scese le scale fino al primo piano, dove era la mensa. Lei era ancora costretta a mangiare con quelli più piccoli: non aveva mai superato il terzo esame ed ora viveva con i ragazzi di dieci, undici anni. Per lei era terribile, ma in qualche modo sapeva che fuori sarebbe stato peggio. Le cene erano sempre imbarazzanti. Rose era una ragazza emarginata, sola.
Prima del secondo piatto, in sala si presentò Madalie.
Alla sua vista tutti si alzarono in piedi con i cuori che battevano all’impazzata. Rose ormai aveva completamente perso la voglia di agitarsi, ormai aveva perso tutte le speranze.
“Presto” iniziò a dire Madalie “Dovrete affrontare il Terzo Esame, dove finalmente potrete usare il vostro potere”.
Dalla folla si levarono grida eccitate.
“L’esame si svolgerà  tra un mese e mezzo, prima di tornare a casa dalle vostre famiglie” continuò la Principale “La prova consiste in una dimostrazione di potere a vostra scelta, una piccola lotta e infine una prova scritta dove spiegherete le tecniche primarie di combattimento. Con questo, preparatevi. Domani inizierete ad allenarvi”. Così come era entrata, Madalie uscì senza ulteriori spiegazioni.
Tutti i ragazzi iniziarono a confabulare tra loro, mentre Rose riprese a mangiare tranquillamente, o quasi. Non riuscì a mettere un solo boccone in bocca che il pianto la assalì. Corse via dalla porta secondaria senza farsi vedere perdendosi infine per i corridoi.
Salita all’ultimo piano, Rose si abbandonò in un pianto disperato. Quell’ala della casa era vuota e tetra, ma era l’unico posto dove Rose potesse piangere in tranquillità . Lei sapeva che se l’avesse fatto in presenza di altre persone sarebbe stata derisa più di quanto lo fosse già  adesso.
La sua vita era un fallimento: senza genitori, abbandonata in un orfanotrofio e poi salvata da Madalie. In un certo senso quest’ultima era stata sia la sua salvazione, sia la sua condanna. Ma le era grata lo stesso.
Tra le lacrime Rose si abbandonò nella morsa del sonno, un sonno profondo che l’avrebbe cambiata. Per sempre.

Nero. Nero profondo. Un dolore in petto, forte, troppo forte per essere reale. Poi, una luce tenue di candele si accende nell’oscurità  rivelando una stanza ottagonale. Sul soffitto un disegno di una battuta di caccia preistorico. Al centro della sala un altare in pietra ricoperto dal muschio. Rose era all’ingresso e non credeva ai suoi occhi. In qualche modo sapeva che fosse in un sogno e non riusciva a svegliarsi. Era troppo forte la pressione su di lei, un qualcosa di arcaico e leggendario. Poi, una voce.
“Rose”, si sentì chiamare “Finalmente sei arrivata, ti aspettavo da troppo tempo...”.
La ragazza era paralizzata, non sapeva cosa fare.
“Tu non sai niente ora, ma imparerai in futuro. Tieni a mente adesso le mie parole, cerca di essere ragionevole e capirmi”
Rose tremava.
“Non essere tesa, io sono quanto di più vicino a te ci sia in questo mondo. Tu sei speciale, lo hai sempre saputo, ma lo hai negato a te stessa. Perché Juliet ti avrebbe portata qui, allora?”
“Dimmi chi sei” esclamò all’improvviso la ragazza, tremante e impaurita.
“Sono chi sono, lo scoprirai presto. Ascoltami adesso.”
“Non... Non mi fido di te” sussurrò Rose al nulla.
“Devi. Un qualcosa di malvagio sta per rivelarsi in questa terra di pace. La guerra di trent’anni fa non è servita a niente, ci siamo sacrificati tutti, per tornare di nuovo a dover lottare. Rose. Tu devi aiutare la nostra terra. Qualcosa si sta per muovere ad Aquiterra e presto sarà  il caos. Aiutaci a rinascere”
“Ma cosa dovrei fare?” rispose la ragazza urlando “Cosa dovrei fare io ? Sono una fallita, la mia vita è un fallimento totale! Perché io? Chiedete a qualcun altro! Io non merito...”
Rose non riuscì a terminare la frase e scoppiò a piangere di nuovo.
“Ehi, Rose” riprese la voce in tono paterno “Nessuno è perfetto. Già  il fatto che ti stia parlando vuol dire che sei speciale. Questa sala in cui ti trovi è invalicabile per ogni normale persona o figlio di Kalba”
“Cosa... Cosa devo fare?” chiese Rose.
“Per ora? Niente” rispose la voce “Devi solo imparare a credere in te stessa, poi tutto verrà  da sé...”
“Ma come...” inizia la ragazza, ma viene interrotta dalla voce.
“Non è più tempo. Ora vai, vai e vivi. Tutto verrà  da sé, tutto...”
La visione iniziò a scomparire. L’altare scoppiò creando un fumo verdognolo, poi fu la volta delle pareti e del soffitto, infine anche il pavimento scomparve e Rose rimase sospesa nel nulla. Il fumo verde attirò a sé le candele, che scomparvero e crearono un enorme vampata del color della speranza. Quella speranza che tanto serviva a Rose.
Nel nulla una figura. Un giovane incappucciato da un grande mantello nero, con le mani e i piedi legati da tralci di vite.
“Hiodea batauria tii”
Parole in antico Fiedrense, la lingua che si parlò a Fiedra secoli e secoli fa. Rose sentì dentro il suo cuore qualcosa di nuovo e distruttivo, il potere le fluiva come un fiume in piena. Sensazione che durò un attimo, giusto in tempo per svegliarsi.

La luce rosa dell’alba illuminò il volto di Rose. La ragazza si svegliò di soprassalto, completamente sudata e scossa. Il sogno della notte prima era ancora vivo nella sua mente. Come un riflesso comandato si precipitò al terzo piano, in biblioteca. Normalmente i ragazzi del suo grado avevano bisogno di un permesso, ma Rose aveva bisogno di sapere. Tutto.
La porta era aperta, stranamente. Rose entrò dentro: non c’era nessuno. “Strano” pensò “La porta non è mai aperta”. La ragazza si consolò pensando che questo avrebbe comunque reso le cose più facili.
Cercò un dizionario di Fiedrense nello scomparto storico, ma non trovò nulla. Decise allora di disobbedire di nuovo alle regole e si diresse verso le sale più importanti e chiuse ai ragazzi di grado inferiore. Cercò dappertutto, finché non arrivò allo scomparto dei “Testi Sacri di Fiedra”. In qualche modo sapeva che il libro che cercava fosse proprio lì. Salì sulla scaletta di legno e raggiunse un punto molto alto dello scaffale.
Scorse tutti i titoli, senza trovarne uno interessante, finchè una rivelazione la lasciò senza fiato.
“Chatus Hiodea deas hiraba coltizia muslodie”
Non aveva la minima idea di cosa significasse quella frase, ma quella parola, “Hiodea”, l’aveva già  sentita nella frase.
Scese dalla scala e si sedette appoggiando il tomo, coperto dalla carta protettiva dei libri più antichi e pregiati, sul tavolo.
La seconda rivelazione fu la scoperta della copertina. Il tomo, nemmeno a dirlo, era di colore verde. Verde proprio come il colore predominante in quel sogno.
Rose aprì la prima pagina e iniziò a sfogliare il libro.
La felicità  iniziale scomparve all’improvviso. Il testo era in Fiedrense e l’unica cosa presente in quelle pagine erano illustrazioni di piante e metodi di botanica.
La ragazza era quasi sul punto di abbandonare quando, dalle ultime pagine, spuntò fuori un foglio invecchiato e macchiato. Rose esultò: era nella sua lingua! Iniziò a leggere avidamente: si rese conto del fatto che fosse una traduzione di trent’anni prima.
 

“Manuale di Heda dea dell’erba: come coltivare”


“Heda è la dea dell’erba, si dice abbia avuto origine da una piantagione di rose rosse. La sua caratteristica è la bontà , unita a pazienza e sensibilità . Heda è raffigurata come una ragazza con un vestito bianco, spesso è associata a dei cani o a dei gatti nelle sue raffigurazioni perché oltre alle piante, i contadini e i puri di cuore protegge gli animali. Spesso è anche raffigurata con ali di farfalla. Heda è venerata in particolare a Portamar, Ancalla, Quar e la piccola città  di Capoa. Heda, come ogni divinità  Fiedrense, è conservata in una sfera ma riverbera la sua anima negli umani...”

Un rumore distraette Rose dalla sua lettura. Dei passi si stavano avvicinando. Poi, una voce minacciosa ma preoccupata.
“C’è nessuno qui?”
Rose all’inizio non riuscì a riconoscere la voce maschile dell’altra persona nella sala.
La ragazza cercò allora di scappare, ma si sentì trascinare via da una forza misteriosa. Rose aveva già  sentito parlare di un ragazzo con questo potere incredibile. Alstair è un misterioso inquilino della casa, un ragazzo dal perenne cappuccio calato sulla fronte. Tutti avevano da sempre un po’ di paura di Alstair, anche Hana, che nei suoi giri di conquista non ha mai adescato il misterioso ragazzo.
“Ah, sei tu...” sussurrò Alstair sollevato dopo aver visto Rose “credevo fosse un ladro...”
“Per evitare i ladri potresti chiudere la porta...” ironizzò la ragazza, per poi pentirsi subito di aver parlato.
“Giusto, potrei risolvere molti problemi” replicò in tono duro e serio Alstair.
Rose arrossì di colpo, credendo di aver fatto una figura terribile.
“Ehi, non ti preoccupare” la calmò Alstair “Mi hai detto la verità , ho effettivamente dimenticato di chiudere la porta... Sai, vengo sempre a leggere al mattino, riesco a rilassarmi... Senza gli sguardi curiosi di tutta la comunità ...”
“Beh, non ti preoccupare, io me ne stavo per andare...”
“Non dici il vero. Lo so. Ma non ti preoccupare, non mi dai fastidio, davvero...”
“Si, ma... Veramente... Non...”
“Non ti preoccupare. Che stavi leggendo?”
Rose cedette. “Un libro in Fiedrense”
“Parli il Fiedrense?”
“Veramente... Veramente no...”
“E... Come facevi a leggere?” chiese incuriosito Alstair. Quella buffa ragazza iniziava a piacergli, sentiva di avere con lei qualcosa in comune. Non per il suo sesto senso, ovvero percepire le emozioni delle altre persone, ma proprio perché la sentiva vicina.
“Ho letto una traduzione all’interno” rispose Rose conducendo il ragazzo alla sua scrivania.
“Fammi vedere...” sussurrò Alstair “Ma quello è un libro importantissimo! Non avresti dovuto prenderlo...”
“Scusami, ma non lo sapevo...”
“Dobbiamo rimetterlo a posto... Subito!”
“No” si oppose Rose “Io ho bisogno di quel libro a tutti i costi, mi serve... Per favore!”
“Non dovresti nemmeno essere qui... Ma già  che ci siamo fammi dare un’occhiata”
Alstair si appassionò al libro più di Rose. Ogni mattina per alcuni giorni si ritrovarono in biblioteca. I due ragazzi divennero amici, avevano tante cose in comune. Entrambi erano ragazzi emarginati da tutti, avevano perso i genitori e Madalie li aveva salvati dal nulla. Rose trovava negli occhi blu ghiaccio di Alstair gli occhi di un nuovo amico, il primo. Alstair, a sua volta, si sentiva finalmente un ragazzo normale, forse poteva finalmente rivelare a qualcuno la sua vera natura. Sentiva di aver trovato la prima persona sincera al mondo oltre Madalie.
 

Capitolo 2 : Riscoprire le origini


Il tavolo del laboratorio era pieno di provette e flaconi ripieni di strani liquidi, sul tavolo vi era un contenitore pieno di una sostanza stranissima trasparente e luminosa; al centro, una sfera bianca.
Un uomo era chino su un cumulo di polvere giallastra. La esaminò a lungo e successivamente la versò nel contenitore. La sfera cambiò colore.
La sua disperata ricerca era iniziata anni prima, raccogliendo le ceneri di guerra di una persona a lui troppo cara. Era dura accettare la sua morte, ma doveva. Doveva assolutamente. E doveva farlo rinascere. Tutto ciò che restava di lui era il ricordo.
Una notte Mares Urdy, uno scienziato di Portamar, nella regione di Arbila, sognò qualcosa di strano. L’unica certezza è che il giorno dopo ne fu completamente sconvolto. Decise di consacrare la sua stessa vita a quel folle sogno e vi si aggrappò con tutta la sua forza. Era il motivo per continuare. Cercò per anni l’oggetto del suo desiderio. Lo trovò solo dopo dodici anni dal sogno nella Valle delle Paludi, ad Aquiterra, dove anni prima si svolse la mitica ultima battaglia. Mares sapeva la verità . Non sarebbe stata l’ultima. L’equilibrio della regione di Fiedra è sempre stato incerto e lo sarebbe stato per sempre, era inevitabile, solo un folle avrebbe pensato il contrario. Eppure, dopo quella grande guerra, tutti lo pensavano. Pace per sempre. Un sogno effimero e bugiardo. L’ultimo desiderio di Ren Urdy, suo fratello, eroe caduto nella battaglia finale. Quelle erano le sue ceneri e Mares sapeva come utilizzarle. Anni dopo, la fine della sua storia.
“Ania!” Gridò all’improvviso l’uomo, eccitato.
Una donna arrivò correndo. I passi incerti rimbombavano sul pavimento.
“Dica, dottore” sussurrò la donna impaurita.
“La mia ricerca è giunta al termine, e con essa anch’io...”
“Dottore, lei non deve assolutamente!”
“Ania, tu và  via, non tornare.”
“Ma io… La prego dottore!”
“Ania, fa come ti dico, per favore… Lasciami solo... E’ finita...”
“Dottore…”
“ Vai! Lascia questo laboratorio, nella cassaforte c’è una lettera e i soldi che ti spettano. La combinazione è 1957. Vai!”

La solitudine stringeva il dottor Urdy, ma sapeva cosa doveva fare. Era quello il suo destino, l’aveva accettato sin da quel giorno sul campo di battaglia. Quelle ceneri erano le Sue. Di un eroe incredibile, del suo maestro. Doveva farlo rivivere. Inserì la sfera luminosa, verde, nel contenitore cilindrico e si stese sul tavolo.
Il liquido bianco inizio a colare lentamente, addormentando l’inerme dottore. Ad un tratto, scattò qualcosa nel meccanismo. Uno scatto impercettibile.
Era il suo destino, e Mares Urdy l’aveva accettato. Era suo fratello e lo doveva far rinascere. Hiodea doveva rivivere di nuovo, la minaccia di una nuova guerra era incombente. Sedici anni. Sedici anni per la nuova guerra. Lentamente, mentre il contenitore si riempiva di un nuovo liquido, una vita si spegneva. Sangue. Sangue per far nascere una creatura nuova. Sangue per far nascere sua figlia dalle ceneri di Ren.
Ania ritornò; ritornò il giorno dopo.
Lo spettacolo che trovò la fece rabbrividire. Nel grande cilindro c’era una nuova vita. C’era quella creatura per cui il suo amato Mares era morto.
Ania tolse corpo senza vita del dottore la cannula che aveva risucchiato tutto il suo sangue.
Era una scelta difficile. Generare un figlio dalle ceneri di un eroe e il sangue di Mares. Non era giusto creare una vita in provetta. Ci voleva una madre. Una madre per crescerla e amarla. Una madre per sempre.
Allora Ania prese la cannula e scelse anch’essa la sua strada.”

La sveglia suonò in anticipo. Di venti minuti. Inutile dire come si arrabbiò Hana nei confronti dell’amica. La verità  era che Rose fosse veramente agitata. Quel giorno si sarebbe svolto il suo turno di guardia. Era una prove dell’esame, Rose l’aveva sempre disputata in compagnia, ma adesso sarebbe stata sola. Doveva andare sulla costa, questa volta, a difendere una casetta dai ladri, naturalmente finti, nel cuore della notte. Il fatto che fosse sola era pessimo, per lei. Di solito la persona che faceva la guardia con lei la proteggeva sempre, questa volta sarebbe stato diverso.
Rose sgattaiolò nel cucinino della sua ala e si cucinò un toast pensando alla giornata che l’aspettava. La mattina innanzitutto sarebbe tornata in biblioteca, ufficialmente. Si aspettava già  le grida di ammirazione e lo stupore di tutti i suoi compagni nel vedere gli alti e austeri scaffali in noce, le decorazioni vistose e l’odore di carta vecchia e deodorante per ambienti, i tomi colorati e ammuffiti. Non sapeva se li avrebbero condotti nel suo piccolo angolo di lettura, dove ogni mattina ormai leggeva con Alstair.
Non si sbagliava. Né sulle grida, né sulla visita.
Appena i ragazzi entrarono impazzirono.
Ma d'altronde chi non lo farebbe? I custodi spiegarono ogni piccolo particolare delle grandi sale principali, ma nemmeno una parola su quelle veramente interessanti. Alla domanda: “Dopo quella porta c’è un bagno?” di una ragazzina, una delle guide rispose con calma di si, ma che non vi si poteva entrare per un guasto. Rose, naturalmente, conosceva la verità .



Un nuovo mondo

Progetto sull'integrazione. Racconto la storia di un ragazzo russo che riesce a diventare...



 

Un nuovo Mondo


Il treno camminava lentamente, sembrava che da un momento all’altro volesse uscir fuori dai binari. Lasciammo la Russia e il nostro piccolo villaggio dopo la morte di mio padre, cercavamo di dimenticare. Io, mia madre e la mia sorellina salutammo la nonna e partimmo per l’Italia. Mia madre sembrava agitata, ma non sapemmo mai perché. La città  scura, nebbiosa ed enorme si stagliò all’improvviso davanti a noi, incutendomi paura. Non avevo mai visto una vera città , solo il mio villaggio di appena mille abitanti.
Arrivammo una sera di Dicembre, poco prima del tramonto. L’aria della città  mi opprimeva, una nebbia giallastra che voleva affogarci. Abituato al freddo, mi sentii cuocere nella mia giacca pesante. Mia madre condusse me e mia sorella da qualche altra parte, io non riuscivo a vedere, volevo gridare, piangere, ma avevo paura di farlo. Mi guardavo intorno e vedevo un sacco di ragazzi della mia stessa età , ma tutti diversi da me, la gente ci guardo come mostri. Sembravano voler scacciarci dalla loro terra. Vidi come in sogno mia madre parlare con qualcuno, all’improvviso la mia sorellina venne allontanata da una donna con un velo nero in testa e qualcuno mi prese per le spalle.
Così, senza capire nulla, mi ritrovai accanto a una signora sui trentacinque anni. Non era mia madre. Lei non c’era più. L’uomo l’aveva portata via. Mi guardai intorno spaesato, confuso. “Calmati” mi disse dolcemente la sconosciuta nella nostra lingua “Ora sei con me, non mi riconosci?”. Qualcosa nei miei ricordi mi suggerì il nome della donna: “Zia Hanna?”.
“Parli già  italiano?” mi chiese, sempre in russo. Le risposi con un cenno negativo della testa. “Capisco, ma non ti preoccupare… Ti insegnerò l’italiano e lo parlerai meglio di me!”. Zia Hanna, donna generosa ma di poche parole, partì dal nostro villaggio vicino Mosca dieci anni prima della mia nascita, lei era giovane e voleva trovare un lavoro, una vita da vivere, ma senza mai perdere le sue tradizioni, come mi disse spesso durante gli anni passati in Italia. Tornò a casa solo poche volte: in Italia aveva trovato l’amore in un uomo di nome Mauro e anche il lavoro. Hanna era un’anestetista all’ospedale del suo paese.
“Dov’è mamma?” le chiesi preoccupato. “Non ti preoccupare” mi rispose con voce calma “Per un po’ starai con me, ti insegnerò l’italiano e vivremo insieme…” dal suo tono di voce triste capii di non poter fare nulla per ritrovarla. Mi sentivo male, salimmo sul treno diretto verso sud e ci sistemammo in una piccolissima cabina, solo noi due. Mangiammo alcuni cibi particolari, il mio primo pranzo all’italiana. Così, cullato dal rumore del veloce treno, ora piacevole, mi addormentai.
Poche ore dopo, arrivammo. La città  dove il treno si fermò era piccola, molto più piccola della prima, ma bella. Chiusa tra i monti, sembrava una culla. Proseguimmo in macchina fino a una cittadina sul mare. Non lo avevo mai visto in vita mia, il mare… Ne rimasi affascinato, quanto poteva esser mai esteso? Rimasi a bocca aperta, mentre zia mi portava verso la nuova casa. Questa era bianca, quadrata e un po’ tozza. Vi era una terrazza in cima e una sul primo piano. Tutto il perimetro della struttura, a due piani, era decorata da fregi sulla finestre e sui balconi.
Arrivati, rividi suo marito Mauro e vidi per la prima volta il figlio nato da poco: il piccolo Christian, di quattro anni. Mia zia mi fece subito vedere la mia nuova camera: era piccola ma bella, con le pareti arancio e un balconcino pieno di piante con colonne di pietra vista mare, un letto a una piazza e mezzo, una grande scrivania d’ebano e un armadio sempre di ebano con le ante in vetro. Ottimo per me. Mia zia mi fece lavare e mi diede vestiti leggeri, da sostituire con i miei pesanti adatti al freddo clima russo. Il clima, appunto. Iniziai ad amare il mare. Salii spesso sulla terrazza ad ammirare il mare. Erano le mie occasioni per pensare.
Nei mesi successivi iniziai ad imparare l’italiano e verso marzo riuscii finalmente a uscire fuori di casa a fare la spesa, a comprare il pane e svolgere diverse commissioni per mia zia. L’italiano mi piacque da subito e iniziai a parlare con zia sempre in questa lingua. La gente del paese sembrava fare a gara per insegnarmi la lingua e in particolare il dialetto calabrese. Nel mese di Maggio conobbi un ragazzo della zona, Luigi, un giovane grassottello e basso con l’aria simpatica con cui feci subito amicizia.
Infine, a Giugno, un signore si presentò a casa mia, dovetti fare un “esame”. A Mosca studiavo in una scuola dove i maestri mi insegnavano a far di conto, mi spiegavano la storia, la geografia e la tecnologia… A me piaceva studiare, ma ai miei compagni no. Loro volevano imparare qualcosa e poi entrare nell’esercito… Io volevo studiare e costruirmi un futuro. Pochi giorni dopo l’esame dovetti fare una prova di nome “invalsi”. Ecco, questa fu davvero una prova dura, ma poco dopo vi fu un colloquio dove finalmente parlai in italiano di tutte quelle cose imparate a scuola. Mi stupisco ancora adesso di quanto fossi candido a quei tempi, ma alla fine da quel che so presi un buon voto. Credo sia per il fatto di aver vissuto il periodo dell’esame con calma, senza preoccuparmi.
Per tutta l’Estate ogni mattina andai a nuotare con Luigi e i suoi amici, che mi accettarono nel loro gruppo. Andammo in giro ogni giorno, mangiammo pizze la sera e ci tuffavamo dagli scogli della spiaggia di Lampezia. Insieme a Luigi e la sua compagnia iniziai a crescere: mi portarono a fare shopping e mi insegnarono come far colpo sulle ragazze, mi portarono dal barbiere riuscii finalmente a capire un po’ la mentalità  dei ragazzi italiani, che tanto si curano dei vestiti e dei capelli. Tutti questi cambiamenti, però, non li vidi subito, finché, a Settembre, il primo giorno di scuola al liceo classico, vidi la mia immagine nello specchio.
Ed eccomi qui, quasi un anno dopo essere arrivato. Sembravo quasi uno di quei ragazzi visti alla stazione il primo giorno… Come mi sembrava lontana quella sera di Dicembre... ”Sono cresciuto” realizzai. E passo dopo passo, giorno dopo giorno, cambiando stile di vita, abitudini, cambiando me stesso, mi sentii a casa. Il mio sogno era di tornare a Mosca e iniziare ad insegnare nella scuola del villaggio, volevo tornare a casa, ma ero nello stesso tempo in un’altra casa. Mi sentivo come diviso tra due mondi. Tornavo il vecchio Lukas solo durante le feste, dove mia zia e io ballavamo, parlavamo in russo e facevamo uscire fuori la nostra vera natura.
Il liceo fu fantastico, pian piano iniziai a parlare italiano tranquillamente, fino a che non superai i miei compagni nei compiti. Non avrei mai pensato di arrivare a quel punto, ma lo feci. Di anno in anno insieme a Luigi e un nuovo amico di nome Alessandro riuscii a sentirmi italiano in tutto e per tutto, ma mancava qualcosa. Mia madre. Mia sorella. La Russia.
Anni dopo, a diciotto anni, con i miei studi, la mia nuova lingua e tutti i miei sogni decisi di andare via e tornare nella città  dalla nebbia giallastra, di nome Bologna, a cercare mia madre e mia sorella.
Arrivato trovai un’atmosfera diversa. Quel giorno la nebbia aveva lasciato in pace la città  delle torri. Cercai mia madre dappertutto, ma non la trovai. Per dieci giorni restai lì, ma nessun volto, nessun nome, niente mi ricordava mia madre e mia sorella. Solo i ricordi in quella stazione. Un ragazzo arrivò, uscendo da un treno, sembrava confuso. Rividi me stesso e capii quale sarebbe stata la mia prossima mossa.
Così, decisi di tornare a casa, nel mio mondo, in Russia. Un mondo che, però, non era più il mio. Alcuni ragazzi erano partiti come me, o per l’esercito o per Mosca, mentre altri, tra cui i miei amici più stretti, erano diventati boscaioli o carpentieri dopo i fallimenti nel campo giovani dell’esercito russo. Parlavano solo di legname, accette, case… Un qualcosa di diverso da me. La scuola era deprimente, i ragazzi non erano svegli come gli italiani, erano come me all’inizio dell’avventura… Mi sentii male: volevo tornare a casa mia… L’Italia. Anche lì non trovai mia madre e mia sorella. Erano come sparite. Decisi, così, deluso, distrutto e amareggiato, di tornare in Italia. Mia zia mi aiutò e mi ospitò per un po’, in attesa di trovare una casa: lei era incinta al nono mese e le serviva la mia vecchia stanza. Per non far sentire in colpa zia Hanna, che avrebbe dovuto cacciarmi di casa e le sarebbe pesato, mi iscrissi all’università  deciso a diventare insegnante di lettere per la scuola secondaria e realizzare così il mio sogno. Per farsi perdonare, mia zia mi pagò gli studi e così riuscii a laurearmi a pieni voti.
Durante i miei studi venne a trovarmi una ragazza. Non la riconobbi subito, ma dalle sue parole capii la sua identità : mia sorella. Aveva studiato in un liceo artistico e si era iscritta alle Belle Arti di Firenze, dove frequentava il primo anno. Mi stupii: ancora non sapeva parlare bene l’italiano, ma era diventata italiana in tutto e per tutto.
“Nostra madre ci ha abbandonato” ringhiò tra i denti “Io non voglio essere più russa”. “Sii realista” le risposi “Nel sangue lo sarai sempre”. “No, Lukas, sbagli” rispose infuriata “Io posso! Io ho cambiato nome, ho cambiato me stessa, sono un’altra donna”. “Potrai cambiare nome quanto vorrai, ma resterai sempre come me, come zia Hanna, come nostra madre”. “Si, forse hai ragione” convenne “Ma io sono fatta così, Lucas, io… le volevo bene e lei ci ha lasciati”. La abbracciai “Ha fatto tutto questo per noi, Irina, lo sai anche tu…”. “Chiamami Marina”. “Ok, Irina!”. “Sei incredibile, professore!”. Mia sorella mi lasciò, così, ai miei studi, con la promessa, un giorno, di rivederci.
Durante gli studi conobbi anche la mia futura moglie, con la quale mi sposai poco dopo la laurea. Eravamo vicini di appartamento nel convitto dell’università  ad Arcavacata. Sempre dopo la laurea ci trasferimmo a Cetraro in una piccola casetta vicino quella di mia zia, proprio sulla grande roccia del paese. Due anni dopo, nacque Elena, nostra figlia, dai capelli biondissimi come i miei e gli occhi caldi di mia moglie. Beata lei, nata da subito in questo fantastico paese.
Negli anni dopo la laurea accumulai punti su punti e riuscii a guadagnare un posto da titolare giusto in tempo per trovare nella mia classe Marika, la figlia di Hanna, colei che mi diede lo sfratto, per così dire. Hanna smise di pagarmi gli studi dopo il secondo anno dopo alcune lamentele da parte mia. Christian, ormai sedicenne, decise di partire per un mese per la Russia, ma come me tornò dopo aver rischiato di essere arruolato accidentalmente nell’esercito. Da quel momento mi prese quasi come esempio e ne fui felice.
Nel mio primo giorno da titolare mi assegnarono una prima media e l’insegnamento della storia e della geografia nelle altre prime. Appena entrai in classe notai gli sguardi stupiti dei ragazzi: un professore di italiano russo non è di certo all’ordine del giorno. La mia prima sfida fu sfidare i pregiudizi dei ragazzi, la seconda farli sentire a loro agio e riuscii in entrambe. La mia vita di insegnante mi diede sempre soddisfazioni.
Non seppi mai che fine fece mia madre. C’è chi sostiene che sia morta, chi che se ne sia andata in America, chi abbia intrapreso una vita diversa. Mia sorella non la perdonò mai, ma riconobbe dopo tanti anni la sua origine russa. Due anni dopo Elisa nacque il nostro secondo figlio, Alexej, in onore di mio padre morto in guerra. La mia vita fu felice, tra alti e bassi. Rimpiansi spesso la mia Russia, ma senza voler tornare. Non so perché. Nella vita vi sono contraddizioni… E questa fu la più grande di sempre.

Vincenzo Alagia


 

BiancoRosso

Progetto gialli e thriller. Racconto abbastanza piacevole, eccetto per il velocissimo finale.




La neve scendeva dal cielo nella notte invernale senza fare rumore. Il suolo era ormai completamente bianco. Alice guardava i fiocchi di neve, cercava in quel candore una forma precisa, una sfumatura diversa. Trovò entrambe le cose. E tutto si fece nero.
Il Commissario Diana osserva la valle imbiancata dalla finestra del suo studio, conscio del fatto successo nella notte. Un uomo era morto, ma non uno qualunque. Alberto Milano, imprenditore del paese appena arrivato da Perugia, aveva inaugurato un negozio della sua catena di Fast Food “Milanplus” nella piazzetta del paese. Il giorno dopo era già  morto.
“Commissà , state bene?” Il filo dei pensieri di Diana viene interrotto dal collaboratore, un tale Pascuzzo “Vedete che è arrivato il medico legale, vi sta ad aspettare qua fuori”.
“E si, si, fall’entrare” sussurra il commissario.
“Signò, entrate” esclama Pascuzzo uscendo dallo studio.
“E’ permesso?” chiede il medico appena entra. “Si, potete entrare, sto qui ad aspettarvi” risponde velocemente Diana.
“Ecco, vi racconto subito del morto. E’ stato sparato, lo sapete già ?” “Si, proseguite” “Eh, allora, tiene due colpi alla pancia, uno al petto, in pieno petto, e uno in gola, poi ci sono moltissimi graffi” “Giusto, ci ha camminato con la pancia per terra” “Come siete perspicace, mi complimento! Comunque di altro non c’è niente, vi aggiornerò in seguito” “Vada, dottore, in caso la faccio chiamare. Pascuzzo! Accompagna il dottore all’uscita!”
“Subito, commissà !” esclama il collaboratore.
Il Commissario Diana si reca sul luogo del delitto, dove l’Ispettrice Russo lo aspetta trepidante.
“Aggiornami, Russo” “Eh, si, ho seguito le tracce del sangue sulla neve. Portano in Via Garibaldi, poi ho interrogato l’unica testimone, una ragazza, si chiama Alice” “Aspetta, Russo, dimmi di nuovo dove è iniziata la scia!” “In Via Garibaldi, perché?” “Abbiamo una traccia!” esclama il commissario, così, entra in macchina e raggiunge il vero, almeno per lui, luogo del delitto.
“Commissà , volete qualcosa?” esclama la signorina della pizzeria a taglio. “Si, mi chiami il proprietario” esclama Diana. Il titolare arriva dopo pochi minuti “Mi dica” esclama con voce roca e cupa. “Mi dica dov’era alle ore nove di sera ieri” “E lei che bisogno ha di saperlo?” “Senta, non sono qui ppe coglia’live e mancu ppe coglia’rigano ara scis’i Paola, c’è stato un delitto e lei è un indiziato! Quindi le consiglio di prendere un buon avvocato!” “E perché avrei dovuto ammazzare qualcuno?” “Quel qualcuno le voleva rubare la concorrenza, ha capito di chi parlo?” Diana inizia ad irritarsi, l’uomo è troppo calmo. “Ah, ho capito, Milano… Beh, si, quell’uomo voleva rovinarmi la vita, lo aveva già  detto, ma… Ma io no, non l’ho ucciso, non sono un essere spregevole come lui”
Il commissario è perplesso, Milano sembrava un uomo d’onore, all’antica, invece dalle parole di quell’uomo traspare un’altra immagine dell’imprenditore.
“E sia, resti libero, per ora, ma si tenga a disposizione”

Tornato in commissariato, Diana viene “investito” dal medico legale. “Ancora lei?” esclama. “Si, ancora io, ho trovato delle tracce” “Si spieghi!” “Mi spiego, mi spiego… Ci sono tracce femminili! Un profumo dolciastro vicino alle ferite, di marca Chanel, come quello di mia moglie!” “Come? Vuole dire che le ferite non sono strisciatine al marciapiede?” “Alcune si, ma altre sono sicuramente state provocate da un’arma, un coltello seghettato da cucina, per la precisione, e sono più vecchie delle ferite da arma da fuoco!” “E come se lo spiega?” “Secondo a me, il pover’uomo prima è stato accoltellato e per fargli bruciare ancora di più le ferite gli è stato buttato sopra profumo, poi lui è uscito forse per venire in commissariato ed è stato sparato, infatti i proiettili sono obliqui, come ad essere sparato dall’alto…” “Quindi prima di morire è andato a casa di qualcuno… Ma di chi? Perché lui ha iniziato a strisciare in Via Garibaldi, ma…”.
“Commissario!” esclama la voce dell’ispettrice dal corridoio “Ho trovato nuove tracce di sangue, più che altro gocce… Portano in una strada perpendicolare a Via Garibaldi…” “Sarebbe?” “Vicolo del fabbro” “Chi vive lì?” “Ma guardate, non sono in molti: il fabbro e la famiglia, ma il sangue supera di molto la loro casa, Giovanni Pelaga e famiglia e la signora Rosa che poveraccia ha novant’anni” “Resta quindi Pelaga?” “Non solo, commissario, non solo, è possibile che sia stato sparato nella piazzetta alla fine del vicolo” “E chi ci vive?” “Alcune famiglie, sempliciotti di quartiere, ma la cosa più importante è questa: ci viveva lui, ma da solo… Stava in un appartamento affittato per una settimana, ho già  interrogato la proprietaria, ma quella poveraccia non ci sta con la testa!” “Qui qualcosa puzza, colleghi… Io una mia idea l’ho già  fatta, ma prima di spiegarla a voi devo trovare delle prove”.
Il commissario, insieme ai suoi uomini, si reca a casa della vittima, tutto è normale, immacolato. “Guardate, ispettore” esclama Russo “La finestra che dà  sulla piazzetta è proprio parallela al vicolo del fabbro…” “Lo vedo… E non mi piace”
“Commissà !” esclama Pascuzzo “Guardate!”. Diana si reca nella sala da pranzo, dietro lo stipo è nascosto un coltello da cucina, sulla lama, sangue incrostato. “Abbiamo l’arma del delitto…” sussurra il commissario.
Il giorno dopo, in commissariato si svolge una riunione sul caso Milano. “Abbiamo diverse tracce, ma nessun indiziato… Prima di tutto il sangue, ma ormai non è più una traccia valida perché la neve è sciolta, ma… Ci ha fatto trovare l’arma del delitto… Quello che non mi convince è la facilità  con cui l’abbiamo trovata! Nascosta dietro un mobile… Quel che penso io è che davanti a noi non ci sia un professionista, quindi sono arrivato a una conclusione: l’uomo che ha ucciso Milano è di sicuro un amico o un conoscente perché è entrato in casa normalmente. Ora su due piedi e senza indizi mi viene in testa il nome di Rossetti, il titolare della pizzeria, ma non sono sicuro e non voglio far entrare in carcere un innocente. Interrogate tutti quelli che hanno a che fare con Milano. Ah, Palazzo, hai novità  per quanto riguarda la signorina Alice?”
“Si commissà , ho alcuni nuovi elementi, a partire da una figura che la donna ha visto accanto all’uomo deceduto prima di svenire” “E sarebbe?” “Lei dice una donna perché era una figura snella e con qualcosa di grosso i capelli che brillava” “Capelli che brillavano? Non mi è nuova questa cosa…” “Come, commissà , non vi ricordate? Quando siamo andati alla pizzeria c’era la commessa del negozio che teneva fermagli di vetro in testa che parevano specchi!” “Ma come non ci ho pensato prima!?! La ragazza della pizzeria! Andiamo da Rossetti e con la scusa chiediamo qualcosa a quella là !”
Il commissario raggiunge la pizzeria insieme agli ispettori Russo e Palazzo, questi ultimi iniziano ad interrogare il titolare, mentre Diana raggiunge la ragazza con aria misteriosa. “Bello questo fermaglio” le dice “E’ davvero particolare, chi ve l’ha regalato?”. “Vi piace?” risponde la ragazza “Me l’ha regalata una persona molto importante per me…” “E chi era?” “Come… Come chi era?” “Si, chi era, è morto no?” “Ma voi… Come… Come fate a…” “Senti, so già  tutto, ora spiegami che è successo” “Si certo, commissario… Tanto lo avrei fatto a breve, è un peso che non riuscivo a tenere dentro… La sera in cui Milano è morto io sono andata a casa sua, mi aveva invitata per parlare, oddio, parlare… Tutto tranne parlare… Voleva convincermi a far chiudere la pizzeria e io ci ero cascata come una stupida! La sera in cui è morto io sono andata a casa sua, ma prima di iniziare a… parlare… E’ arrivato un ospite inatteso. Lui mi ha fatta nascondere nello stanzino, ma ho assistito lo stesso alla scena… Era un uomo… Un uomo che aveva perso la sua profumeria in una città  vicina a questa per far aprire un “Milanplus” ed era venuto per regolare i conti… Ho sentito un sacco di urla e poi degli spari. Dopo sono uscita e ho raggiunto Alberto, ma era già  tardi…” “Signora, conosce il nome di quest’uomo, per caso?” “Si… Lì ho comprato tutti i miei profumi... Il nome del negozio era… Era “Giglio”” “Grazie della collaborazione”.
Il caso Milano è finalmente concluso, un’altra grande indagine del commissario Diana e dei suoi uomini!


 

Riflessione pre-esami

Una riflessione sulla fine delle scuole medie.



Solo ora mi sto rendendo conto del fatto che tutto questo sia finito e la nostalgia accompagna, insieme all'ansia, i miei giorni prima dell'esame... Cerco di trovare un senso a tutto questo, fino a due settimane fa sembrava che non finisse mai, invece adesso siamo divisi... Cosa resterà  dentro di me di questi tre anni? Non saprei... Adesso mi torna in mente la confusione iniziale, i primi giorni, le ricerche di geografia in prima, il gruppo di studio che ci ha accompagnato in tre anni con tutti i pomeriggi da pazzi trascorsi insieme, i litigi che sono stati tanti e quasi sempre insensati... Mi sembra tutto bellissimo adesso che è finito, porterò con me un sacco di ricordi fantastici che non cancellerò mai dalla mia mente... Ma... Ma è finito e mancano pochi giorni anche alla fine dell'esame... Poi molto probabilmente ci perderemo... Cerchiamo di essere realisti passato un anno, massimo due non ce ne fregherà  niente della 3B... Troveremo nuovi amici, nuovi prof, nuova gente, cambieremo la nostra vita, le nostre abitudini... Resteremo ancora così come adesso? e' questo che mi distrugge, io ci tengo troppo a questa classe, forse non l'ho mai dimostrato abbastanza, ma ognuno di voi mi ha dato qualcosa, mi ha aiutato a crescere e a cambiare. Forse in meglio, forse in peggio, ma sento di non essere più la stessa persona entrata per la prima volta da quella dannata porta verde. Questo per voi. Grazie di tutto, io, per quel che mi riguarda vi ricorderò per sempre...


 

Votatemi!

Un agguerrito Snorlax97 cerca di farsi votare come rappresentante di classe. Sedici su ventiquattro... Yeah!



"La ricompensa per il dolore è l'esperienza." – Eschilo.
"In un minuto c'è il tempo per decisioni e scelte che il minuto successivo rovescerà ." – Eliot.
 

Scaletta

Perché mi candido?

E’ una cosa che ho sempre desiderato, mi piace poter assistere e prendere parte a un qualcosa che riguardi la classe, in quanto questa è molto importante per me.

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Cosa vorrei fare e cosa potrei offrire alla classe?

Se venissi eletto potrei mettere a disposizione della classe prima di tutto la fiducia e la fedeltà . Non intendo fare questo per interesse personale, mi sembra di scadere in un falso luogo comune ma fondamentalmente sono un altruista. Potrei offrire alla classe la mia parlantina tendenzialmente logorroica ma efficace. Uno dei pregi che, senza falsa modestia, credo di avere è il dono della parola.

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Cos'è la “classe” per me.

Per me la classe non è solo un semplice nome collettivo, ma è un qualcosa di veramente importante. Amo, di questa classe, la strana coesione tra noi creatasi già  dai primi giorni. Spero infatti di poter portare anche nel Consiglio questa unione tra di noi, sento tutti molto vicini, questa è una classe che sento finalmente MIA.

Il mio carattere in relazione con la candidatura.

Sono una persona schietta, sincera con me stesso e con gli altri, non amo la falsità  e le ingiustizie; proprio per questo vorrei mettere a disposizione di tutti voi questo mio “difetto”, cioè quello di parlare sempre senza ipocrisia, proprio per questo anche a rischio di entrare in scontro con le idee dei professori, se mi venisse chiesto dalla classe.

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Conclusione...

Se venissi eletto potrei mettere a disposizione della classe questo: parola, fedeltà  e schiettezza che, secondo me, sono cose molto importanti per un buon dialogo sincero e preciso tra professori e alunni.



 

La Shoah in Calabria

Tesi del sottoscritto sullle conseguenze umane della seconda guerra mondiale nella mia regione.



 

Shoah


27 Gennaio 1945. I russi entrano in Auschwitz scoprendo con orrore le barbarie commesse dal Regime Nazista. Quella data fatidica sarà  in seguito l’emblema della Shoah.
Noi oggi non vogliamo ricordare solo questo avvenimento, il nostro compito è di raccontare un qualcosa che ci appartenga: la persecuzione nei confronti dei calabresi. Sono stati molti i nostri conterranei deportati, torturati nei campi di concentramento o sterminio.
Per conoscere meglio questo avvenimento, ripercorreremo la storia della persecuzione calabrese, affinché la Shoah diventi non solo un ricordo di persone lontane da noi, ma anche di nostri conterranei, di persone simili a noi per cultura e provenienza.

Il suo nome è Ferdinando Parrello, nato a Rosarno, il 16 Marzo 1920, da una famiglia di contadini povera, analfabeta, proveniente da Polistena. Sua madre e suo padre si trasferirono attratti dalla possibilità  di ottenere un lavoro nella grande opera della bonifica delle paludi a Rosarno, ad opera di un marchese latifondista, Ferdinando Nunziante. Dopo l’avvento del nazismo Parrello si trasferì a Rio Marina, in provincia di Livorno, dove trascorse un breve periodo, per poi tornare a Rosarno a causa dell’avvento del fascismo. Poco dopo morì Maria Rosaria, sorella del giovane, a soli quindici mesi. E’ un periodo nero per la famiglia Parrello che, nella vana ricerca di un lavoro, rientra a Polistena. Ferdinando soffriva. Non riusciva a sottostare alle norme del fascismo. Seguì diverse volte il padre a Rio Marina, dove maturò le sue convinzioni antifasciste, avallate anche dal dolore per la morte dell’altra sorella, Teresa. Ferdinando fu chiamato alle armi nel 1943, ma disertò e si dedicò all’antifascismo clandestino. L’8 febbraio 1943 venne dichiarato disperso in guerra. In realtà , egli salì sui monti al fine di promuovere la guerra antifascista delle piccole bande partigiane. Ferdinando fu catturato a Rio Marina dai fascisti e, deportato a Mathausen, venne marchiato col numero 90080. Si ammalò a causa del lavoro alla cava di granito della Dest, gestita dai nazisti. Ridotto a larva umana, morì a Mathausen il 14 maggio del 1945.

La storia di Ferdinando è solo uno degli esempi dei 150 calabresi morti a causa della deportazione nazista. Oltre a questi 150 ve ne sono molti altri, che hanno avuto la fortuna di tornare a casa e, dunque, poter testimoniare, Tramandando di generazione in generazione la loro storia.

In tutto si pensa che i calabresi deportati si aggirino intorno ai 500 e oltre. Non è possibile stabilire un numero ben preciso, non è possibile cercare in qualche modo di quantificare con un numero le sofferenze di un uomo. Torturati, bruciati nei forni crematori, vessati.
Una realtà  che appare lontana dai nostri pensieri, dalle nostre concezioni. Eppure non bisogna andare troppo lontano per riscoprire la crudezza di quei momenti.

Tarsia, il fiume Crati scorre lento. 92 baracche sono allineate sotto la luce del sole del mattino. E’ il 20 Giugno 1940, ci troviamo a Ferramonti, il più grande campo d’internamento in Italia, aperto da poche ore. La stazione di Mongrassano è gremita di gente: sono i primi deportati. Per la maggior parte sono ebrei.
Ferramonti non era un campo di concentramento, né di sterminio. Lì la gente non era torturata o schernita, ma la vita era dura lo stesso.
I prigionieri erano sottoposti a tre appelli giornalieri, la censura sulle lettere inviate ai propri cari era d’obbligo. Alla fine del 1940 il numero degli internati salì improvvisamente, anche a causa dell’arrivo dei “bengasioti”, ebrei provenienti dalla Libia.
A Ferramonti la gente era ancora umana: riusciva ancora a provare compassione, svolgeva semplici lavori quali lo studio, l’artigianato. Alcuni riuscivano persino ad organizzare una forma di commercio in nero con i contadini della zona. Vi era anche una scuola, a Ferramonti, fondata nell’autunno del 1940 da un profugo cecoslovacco.
Fino al 1943, il numero degli internati aumentò, raggiungendo picchi di 2000 persone.
Nonostante la caduta del fascismo, gli internati, ai quali si erano aggiunti anche antifascisti italiani, non riuscirono a ritornare uomini liberi.
Il 27 agosto 1943, la guerra arrivò fino al campo di Ferramonti dove gli alleati, pensando che il campo fosse una base nemica, sganciarono le bombe e devastarono una baracca, causando morti e feriti.
La liberazione di Ferramonti avvenne in modo imprevisto: ormai la maggior parte degli internati si era nascosta sui colli adiacenti al campo. Gli alleati trovarono solo poche persone.

Dopo la liberazione, Ferramonti non cessò il suo compito, ma lo mutò. Divenne, infatti, rifugio di coloro che, in attesa di tempi migliori, decisero di restare. Una parte degli internati si trasferì a Cosenza, in attesa della fine della guerra; altri decisero di partecipare attivamente al conflitto.
Gli internati del campo, nonostante questo fosse posto in zona malsana, non hanno un pessimo ricordo di Ferramonti, coscienti anche del fatto di essere stati fortunati a non essere internati in campi ben più duri. Ferramonti è un pezzo di memoria della nostra Calabria.

Il ritorno alla memoria di Ferramonti è legato indissolubilmente alla fondazione, nel 1988, della “Fondazione Ferramonti”. A distanza di decenni, la fama di questo campo di internamento ha varcato la soglia della Calabria, diventando celebre anche a livello nazionale.
Ferramonti è un simbolo calabrese, ma allo stesso tempo internazionale, del ricordo di ciò che è stato.



 

Prova uno: racconto horror - Il Nobile

Recentemente, in parallelo allo studio delle tipologie di romanzo, ho deciso di intraprendere un "cammino letterario" al pari passo con il mio programma di antologia. Questo racconto è legato alla unità  sull'horror e il giallo. Presto pubblicherò un racconto d'ambiente, seguito da un poemetto in versi grottesco.



Buio, un’oscurità  soffocante. Le mani strette nella morsa dell’acciaio, freddo e opaco, ormai annerito dal tempo. Respiravo morte e polvere. L’aria non aveva più senso ormai, nella mia mente confusa. La vita non aveva più senso!
Nel mio inferno, nella mia prigione, non vi era alcun rumore a parte lo zampettare di qualche ratto. Un rivolo di sangue cade sulla mia spalla, probabilmente dall’enorme ferita slabbrata sulla guancia che mi avevano impresso il giorno precedente. Per un nulla. Quella era, però, la mia prigione, il luogo dove sarei morto nel peggiore dei modi, abbandonato a me stesso.
Non un alito di vento, non un lamento dalle bocche dei miei vicini. Si, volevo morire, porre la parola fine a quella sofferenza immane.
Passò un ora, forse due, o forse anche un giorno intero, ormai il tempo non aveva più senso per me.
Non riuscivo a parlare, a muovermi, a capire niente, c’era solo la mia sofferenza interna che mi portava a dubitare persino di essere esistito.
Forse qualcuno era entrato nella mia cella, forse mi avevano frustato, ma non ne ero certo. Sapevo solo di essere in fin di vita. Solo.
Mi addormentai, ma quando i miei occhi tornarono a fissare il mondo una tiepida luce rosata mi accecò.
Vidi la mia cella, e fu l’orrore. Decine di corpi ammassati, alcuni già  scheletri, altri in via di decomposizione mi circondavano. Accanto a me un cadavere, ormai decomposto, sembrava fissarmi con scherno. Sarei diventato anch’io così, ma non trovavo il coraggio di piangere.
Accanto a me un tozzo di pane ammuffito e quasi completamente mangiato dai topi, vicino a questo una bottiglia d’acqua quasi vuota, giusto per farmi vivere giusto il tempo di divertirsi a frustarmi altre volte.
Perché?
Non sapevo esistesse tutta questa crudeltà , questa voglia di uccidere, questo altro mondo estraneo a noi figli dei nobili.
L’odio per i nostri padri era sfociato in una terribile guerra civile, senza via d’uscita. Solo la nostra morte pensai con un ghigno.
Era quello che volevo, era quello che mi faceva sentire felice. Felice di andarmene via da tutta la corruzione che affliggeva il nostro mondo e ci rendeva malvagi.
Contro mio padre, contro la mia stessa natura. Io volevo essere libero come chi mi aveva, a ragione, catturato; stufo dei lussi e degli agi che io stesso disprezzavo, ma allo stesso tempo accettavo… E vivevo pensai con amarezza.
Ero forse io ad essere in torto? Dovevo forse morire per espiare i miei peccati?
Gli stessi schiavi che il mio casato aveva sottomesso adesso volevano sopprimermi.
Gli stessi popolani sui quali il mio casato si era arricchito adesso volevano le mie ricchezze.
Ed ero felice, perché sarei morto da martire… Almeno credevo…
Le mie fragili certezze si erano spezzate come un bambino fa con un fragile rametto.
Ero in torto.
I miei carcerieri arrivarono a mezzogiorno, quando la luce del sole era al massimo del suo splendore. Non sentii le loro voci, le loro imprecazioni, le loro risate nel vedermi a terra colpito dalle fruste.
Ma non riuscivo a morire, sebbene ci provassi ormai ogni attimo della mia esistenza, ridotta a un cumulo di macerie.
Nei giorni seguenti mi portarono spesso nella sala delle torture, dove mi marchiarono a fuoco il petto, ma ormai il dolore non era più la mia priorità . Mi stavo abituando a quella vita, sebbene fosse un incubo.
Mi ricordai del primo giorno di prigionia, quando mi catturarono, ferito e stremato, sul campo di battaglia. Mi portarono in prigione e vidi l’orrore e l’odio. L’ odio verso di me. Mi guardai allo specchio l’ultima volta, poi diventai un prigioniero di guerra.
Nel cammino verso la cella mi vergognai come non mai, mentre tutti mi squadravano e gioivano alla vista del figlio del conte nudo, senza capelli, con il volto sfregiato. Una rabbia incontenibile sferzava come vento impetuoso nel mio cuore spezzato. Dopo, le lacrime, che non avevo mai visto. Nel sentire calcare la mia guancia da quell’effimera goccia, capii di non potere nulla. Ero un uomo morto, un fantasma condannato a restare su quella terra.
Gioivano, mentre io soffrivo, ma quello non era ancora niente.
Il peggio doveva ancora arrivare.
Mi assicurarono al suolo con delle possenti catene d’acciaio, mi lasciarono al buio, a marcire dove sono ora.
Dove starò per sempre.
Dove morirò, colpevole.



Errore

E così, aprendo gli occhi alla vita
Scopri che non ti resta più nulla.
Nulla da dire
Nulla da fare
Nulla in cui credere
Nulla che possa farti tornare indietro.

Perché siamo semplici uomini, fermi nei nostri sbagli.
Convinti di esser divini, sicuri di poter tutto.
Siamo come un effimero raggio di sole
In un giorno di nebbia.
Un errore.
E continuiamo ad annullarci, cristallizzati in un attimo.
Un attimo troppo effimero, fuggente.
Un attimo beffardo.
Un errore.
Cosa ci resta per credere di poter andare avanti?
Come possiamo pensare di vivere, ancora?
La pace è un sogno, bugiardo, un’illusione...
Un errore.


Racconto d'ambiente: Sennen Cove

Continua la mia esplorazione dei generi letterari per il giornalino del mio istituto, in questo caso abbiamo il racconto Sennen Cove, dove prevalgono descrizioni e lunghe pause riflessive, tipiche dei romanzi d'ambiente, in cui la focalizzazione della scena dev'essere per il lettore e per il narratore onniscente


Le piccole onde si infrangevano oziosamente sul bagnasciuga di Sennen Cove, la piccola località  di mare della Cornovaglia in cui vivevo da bambino. Sennen Cove era un sobborgo del paesino campestre di Sennen, ed era, a quei tempi, un’accozzaglia di cottage che davano sul freddo e pescoso Mar del Nord. Riguardando adesso il mio paese natio, mi sembra di non riconoscerlo. Sono sorti molti lidi, ed i turisti affollano la zona. Rimpiango un po’ quella quiete celestiale che mi prendeva il cuore, ma ormai la rassegnazione e la certezza di aver infranto i miei ricordi di quel luogo hanno preso il sopravvento su di me… Tutto ciò che conosciamo è destinato a finire, prima o poi, anche ciò che ci è più caro, e Sennen Cove non lo era più. Eppure... Eppure spesso si affollano nella mia mente immagini della mia infanzia, che a lungo ho desiderato di emarginare in un angolo remoto del mio cervello.

Ricordo del sole del tramonto, che illuminava i viali della Cornovaglia, tinteggiando con una tavolozza color seppia tutto l’ambiente circostante. Il mare sembrava intriso di sangue, gli alberi erano tornati ad essere gialli, come quando arriva l’autunno, che spazza via le foglie e, con esso, l’estate e i suoi caldi ed emozionanti giorni. La mia abitazione era un cottage bianco, con il tetto scuro e cupo, esattamente davanti al mare, dal quale era divisa solo da una stretta stradina ormai erosa dal tempo e dalle onde, che d’inverno arrivavano alla porta di casa. Certo, non si può dire che il clima di quella stretta baia fosse dei migliori. Con il tempo, le frequenti e martellanti piogge e il beffardo vento, il tetto in paglia cedette e fummo costretti a sostituirlo con uno più resistente. Il portone d’ingresso era una grande porta rossa, sebbene le mareggiate l’avessero ormai stinta per metà ; inoltre era veramente bassa, come il soffitto, d’altra parte, e anche i mobili, le travi, le finestre... Mio padre faticava ad entrarvi, ma, nonostante tutto, amava quel piccolo rifugio, perché era il suo. Comprò quella casa negli anni Cinquanta, esattamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, per ritirarsi in un luogo tranquillo, lontano dal caos della rinascita londinese. La mia cameretta era al primo piano: il soffitto era mansardato e sfregiato da enormi travi tinteggiate di bianco; il letto era molto alto e faticavo a salirvi sopra; mi sembrava così imponente e terribile… I miei genitori avevano servato a loro la camera più grande. Occupava la parte frontale della casa, ed il tutto era coronato da due grandi abbaini che davano sull’ampio mare. Nelle giornate in cui il cielo era limpido, mi illudevo di poter intravedere le coste irlandesi, ma probabilmente erano solo gli isolotti di Hugh Town. Il mio ricordo più nitido, però, riguarda il salotto, ricoperto da una carta da parati giallognola a motivo floreale. E poi... C’era il grande finestrone a bovindo. Era da questo che, ogni sera, amavo osservare il magnifico panorama circostante, adocchiando ogni singolo movimento, come il gabbiano che volteggiava leggiadro sulla spiaggia, oppure i piccoli movimenti dell’acqua, che facevano presumere la presenza di un pesce a filo d’acqua. Aspettavo l’arrivo della piccola barchetta bianca di mio nonno, sulla quale pescava le aringhe. Ecco, se dovessi abbinare alla mia infanzia un momento particolare, sceglierei proprio quell’attimo in cui, all’orizzonte, scorgevo quel puntino deforme, che per me valeva così tanto. Ed era proprio su quella barca che mio nonno scelse di porre fine alla propria esistenza. Le sue ceneri presero il largo una mattina di novembre, sotto quel cielo plumbeo che può solo preannunciare tristezza. Sulla sua barca colma di fiori gialli e violetti, l’urna in porcellana prese il largo, spazzando via una delle mie poche certezze.
Proprio in quell’estate, ricordo di aver incontrato una bambina, una bambina bionda, con due lunghe trecce scompigliate simili al fieno appena tagliato. Amavo trascorrere con lei i miei pomeriggi in spiaggia, con lei potevo parlare di tutto, mi sentivo bene. Adesso riconosco quel sentimento nell’amore, ma a soli sei anni, era solo una profonda amicizia, pronta a spezzarsi ad un primo alito di vento. Le mie estati infantili trascorsero così, nell’incertezza di poter crescere ancora. Adesso, riguardando il mio vecchio cottage, in macerie, circondato da altre abitazioni, è come se tornassi anni indietro nel tempo, ed è come se qualcuno mi torcesse l’anima, strizzandola, nella disperata ricerca di un cedimento emotivo. La piccola porta è ormai ceduta, lasciando il posto ad una grande apertura deforme. Sui muri, alcuni ragazzi avevano recentemente coronato il loro sogno d’amore, con frasi melense quanto inutili. La piccola scala a chiocciola era ormai scomparsa, lasciando il posto ad una voragine. Le mie dita sfiorano i muri rugosi, fino a bloccarsi in prossimità  di una porta. E’ come tornare indietro nel tempo, sebbene oramai la casa sia completamente distrutta. Guardo fuori dalla finestra, ed è come se la piccola barca bianca sia appena ritornata da un lungo viaggio.




E con questo è tutto, per ora. Naturalmente potrei pubblicarvi qualcosa di nuovo, in seguito, ma per ora è tutto cute.gif

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Il bello è che non si è obbligati a leggere tutto XD Io personalmente consiglio Fiedra, Un nuovo mondo e Biancorosso come racconti. Personalmente trovo bello anche il saggio sulla Shoah, ma è un po' pesante da leggere per alcuni.

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Sono rimasta così, vedendo il primo racconto: O_O"

Ecco il mio, avevo solo otto anni, non giudicate...

Vera è triste, ha perso manaphy.

Piange da ore, non la sopporto.

Si, l'avevo rubato io manaphy!

- MANAPHHHHYYY!- urla come un'ossessa.

Alla fine glielo do.

Fine.

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Faccia dopo aver aperto lo spoiler: O___O""""""ù

Avevo voglia di scrivere u.u

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Sono rimasta così, vedendo il primo racconto: O_O"

Ecco il mio, avevo solo otto anni, non giudicate...

Vera è triste, ha perso manaphy.

Piange da ore, non la sopporto.

Si, l'avevo rubato io manaphy!

- MANAPHHHHYYY!- urla come un'ossessa.

Alla fine glielo do.

Fine.

Faccia dopo aver aperto lo spoiler: O___O""""""ù

Avevo voglia di scrivere u.u

LOL piccoli scrittori crescono...

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Sono rimasta così, vedendo il primo racconto: O_O"

Ecco il mio, avevo solo otto anni, non giudicate...

Vera è triste, ha perso manaphy.

Piange da ore, non la sopporto.

Si, l'avevo rubato io manaphy!

- MANAPHHHHYYY!- urla come un'ossessa.

Alla fine glielo do.

Fine.

Faccia dopo aver aperto lo spoiler: O___O""""""ù

Avevo voglia di scrivere u.u

Ma LOL

Comunque, ripensando a quello che scrivevo a 8 anni....brrr....

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Wow che persona profonda che sei! :)

Sbalorditivo il cambiamento del primo racconto con il remake! :D

Sono rimasta così, vedendo il primo racconto: O_O"

Ecco il mio, avevo solo otto anni, non giudicate...

Vera è triste, ha perso manaphy.

Piange da ore, non la sopporto.

Si, l'avevo rubato io manaphy!

- MANAPHHHHYYY!- urla come un'ossessa.

Alla fine glielo do.

Fine.

Faccia dopo aver aperto lo spoiler: O___O""""""ù

Avevo voglia di scrivere u.u

E' la storia più bella, profonda e piena di sentimenti che io abbia mai letto! C'è dolore, rabbia, gelosia e il tutto racchiuso in un bambino di 8 anni ^^:crazy: x_x :)
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Quella storia è seconda soltanto a un libro di cucina : tanti sentimenti espressi con una parola : cibo .

Vero u.u

Wow che persona profonda che sei! :)

Sbalorditivo il cambiamento del primo racconto con il remake! :angry:

Ci credo! Sono passati quasi sette anni ^^

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Non mi sembra molto horror, impeccabile narrazione e ottima grammatica, ma non fa paura... credo sia più un racconto drammatico

Si, più che horror vero e proprio è noir o splatter, ma a me, personalmente fanno più paura questi racconti che gli horror di altro tipo...

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Sì dipende... ma splatter sarebbe una roba tipo Saw (spero non consideriate spoiler la citazione, sennò la edito) semmai noir

Si, diciamo. La presenza nel testo di teschi, ossa in decomposizione ecc... rende la narrazione splatter, ovvero descritta con un crudo realismo, senza ricorrere a similitudini o metafore per descrivere una scena horror.

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Errore

E così, aprendo gli occhi alla vita

Scopri che non ti resta più nulla.

Nulla da dire

Nulla da fare

Nulla in cui credere

Nulla che possa farti tornare indietro.

Perché siamo semplici uomini, fermi nei nostri sbagli.

Convinti di esser divini, sicuri di poter tutto.

Siamo come un effimero raggio di sole

In un giorno di nebbia.

Un errore.

E continuiamo ad annullarci, cristallizzati in un attimo.

Un attimo troppo effimero, fuggente.

Un attimo beffardo.

Un errore.

Cosa ci resta per credere di poter andare avanti?

Come possiamo pensare di vivere, ancora?

La pace è un sogno, bugiardo, un’illusione...

Un errore.

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"Errore" è una poesia magnifica. Breve, ma assolutamente non banale; il concetto che riporti mi è piaciuto particolarmente in quanto fa pensare, fa riflettere. Anche se non condivido appieno il senso della poesia, ripeto, mi è piaciuta davvero tanto.

C:

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"Errore" è una poesia magnifica. Breve, ma assolutamente non banale; il concetto che riporti mi è piaciuto particolarmente in quanto fa pensare, fa riflettere. Anche se non condivido appieno il senso della poesia, ripeto, mi è piaciuta davvero tanto.

C:

Quoto

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by secsi @Combo 

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Riflessione n°2

Ho avuto per la prima volta paura di aprire gli occhi. Una paura dolorosa, come un pugnale in petto. Non riesco, non posso guardare questo viso sfregiato dalle lacrime... Non sono io, questo essere. Non posso essere io.

Relegato in una vita circondata da specchi, sto morendo dentro. È terribile. Terribile. Non sapere più chi sei, vivere nel corpo sbagliato, condannato a restare per sempre un qualcosa che, in realtà , non sei.

Perché... Perché non basta essere belli dentro. Non è sufficiente. È comodo da dire, quasi un'anestesia al proprio pensiero, ma non è così. Sarebbe poco coerente dire il contrario, un inutile buonismo, che non giova, che non rincuora. Solo chi vive con questo turbamento sa guardare oltre. Solo chi vive, sa. Ma io ancora non sono certo di saperlo.

Non so niente. Non sono niente.

Polvere di un attimo, di quella polvere stopposa e inutile, lontana dai vortici dei granelli luminosi e leggiadri, caduta a terra da già  troppo tempo. Polvere di terra bagnata, attaccata morbosamente all'altro, perché l'altro è sempre migliore. Polvere da sparo, pronta a scoppiare, pronta a finire la propria inutile esistenza facendo solo del male.

Non voglio aprire i miei occhi, ho paura.

La paura di aprirli e vedere cosa sia diventato, o cosa sia sempre stato. Ai miei occhi, però, adesso tutto appare spento, senza senso, come queste mani incapaci di tenere la propria vita. Come queste orecchie che hanno ascoltato troppo, che sono state insultate troppe volte, stanche. Come questa bocca, che ha toccato troppo dolore, ma mai l'ebbrezza di un bacio. Come queste gambe, che non hanno mai corso abbastanza. Come questi occhi, che non aprirò.

È stupendo lasciarsi ingannare dalla propria mente, ed è ancora più interessante vedere quanto, in realtà , siamo condizionabili. Quanto poco riusciamo ad essere noi stessi, sebbene lo vogliamo con tutto il cuore.

E quando lo siamo, è sempre per un attimo, perché arriverà  ancora dolore, troppo. E torneremo a fingere, lasciando alle spalle il nostro "io", ormai abituato ad essere un "lui", mutato e perso nell'attesa di un qualcosa di meglio, che non arriverà .

Non riesco ad accettarmi ancora, forse devo andare ancora avanti nel tempo, o forse dovrei smettere di dire questo orrendo "forse", e prendere la mia vita nelle mani. Quanti consigli che saprei trovare da solo ho ricevuto, ma sono consigli scomodi, che noi non accetteremmo mai. Che rapporto strano, quello con la nostra coscienza. Sappiamo sempre tutto, ma non sappiamo nulla.

Crediamo sempre, ma non ci imponiamo mai, e come le correnti in piena di un fiume restiamo ad attendere la cascata che ci travolgerà . Che ci ucciderà . Che ci farà  provare la strana sensazione di vivere.

E sì. Nessuno è perfetto. Siamo i primi a criticare e i primi a criticarci, e dove sta la coerenza in tutto ciò?

Io sono guasto. E non voglio guardarmi.

Questi occhi stanno vedendo troppo. Sono stanchi. Sanno. Oh, sì, sanno... Sanno che anche questo piccolo pensiero personale sarà  presto traslato in scherno, ma cosa si può fare, allora?

C'è chi ha la forza.

Ma non penso di essere io. Io sono quello che ha lasciato troppe volte. Io sono quello che preferirebbe scomparire che vedere soffrire le persone a cui tiene, ma sapendo incoerentemente che queste persone scomparirebbero senza di te. Io sono quello che ha schiuso gli occhi, ed è stato assalito dall'orrore.

C'è chi ha la speranza.

Ma cosa ho da sperare? Io sono quello che piuttosto che prendere in mano il destino, scrive. Io sono quello che coglie sempre ogni singolo istante felice nella certezza che ad esso seguiranno momenti più scuri.

C'è chi ha il coraggio.

Ma per averlo, serve un appiglio. E dov'è? Non vedo nessun appiglio attorno. Non trovo altro che un vuoto di un nero assordante, una lastra di ghiaccio, un mare in tempesta di nuvole e stelle.

C'è chi sogna.

Sognare è sempre lecito, è sempre giusto. E io sogno, oh, sì, sogno sempre. Sogno di poter essere chi voglio, sogno di poter, un giorno, aprire gli occhi e poter guardare il mio viso senza provare rimorsi.

Ma per fare questo, devo sognare.

E si sogna a occhi chiusi.

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Uppo con il secondo racconto che avevo preparato per il contest. Incompleto (e così resterà ), ma comunque con un suo senso.

 

TEMPSA

 

Ho sempre amato particolarmente la storia. Spesso arrivo a paragonarla a un padre severo e attento, che ci veglia con cura e attenzione. Un padre da rispettare, ricordare, da cui prendere esempio, per non commettere i suoi stessi errori e trarre le positività .

La diversificazione stessa delle storie territoriali è quanto di più affascinante possa mai interessare la mia mente. Viviamo in luoghi che spesso celano incredibili segreti e racconti ormai perduti nell’indifferenza delle generazioni del ventesimo secolo. Solo i vecchi, e oserei aggiungere i pochi storici dotati della misteriosa dote della modestia, conoscono queste realtà .

La mia terra è stata da sempre abbandonata a sé stessa dai suoi abitanti, che semplicemente sono disinteressati a tutto ciò che non riguardi l’attualità , troppo impegnati a sparlare nelle piazze, abbuffarsi nei ristoranti, dormire sui propri divani. Nessuno sa perché noi siamo lì, in quel pezzo di mondo sperduto nella campagna del meridione italiano. Nessuno ha mai provato a porsi il problema di riscoprire le proprie tradizioni e origini.

Solo la scuola, alle volte, pare offrire questa bizzarra opportunità  tramite ricerche e progetti, spesso apostrofate dai ragazzi come “seccature”, “ore perse”. E intanto, il tempo passa, le generazioni cambiano, i tempi da ricordare svaniscono nelle nubi delle eterne indifferenze.

Eppure le nostre valli conservano ancora segreti di immane importanza.

Io li avrei scoperti, a costo della mia stessa credibilità .

A costo della vita.

 

Camminavo lentamente sull’argine del fiume Savuto, con la sola luna ad illuminare i miei passi. Eppure vedevo tutto. Conoscevo quei luoghi passo dopo passo, albero dopo albero. Posavo i piedi con sicurezza, cosciente di anni e anni di studio.

“Questa è la notte perfetta” pensai, con il cuore in gola.

L’emozione di veder finalmente le mie ricerche fruttare era ormai scomparsa nel terrore di ciò che avrei incontrato una volta compiuto l’incantesimo necessario.

Arrivai alla chiesetta di Sant’Angelo in pochi minuti, che nella mia mente parvero pochi attimi.

“Il terrore e il piacere fanno scorrere il tempo più velocemente” dissi tra i denti, entrando nella piccola costruzione.

La Chiesa di Sant’Angelo non era altro che una semplice cappella in pietra consumata dal tempo. Le pareti ammuffite dall’umidità  del fiume che vi scorreva accanto sembravano poter crollare senza darne nemmeno preavviso. Mi avvicinai all’altare in legno, malandato e penzolante, con sopra di esso un quadro della Madonna quasi completamente scrostato. Presi i lumini quasi completamente consumati e ne scavai il contenuto in cera con un coltello, per poi riversare il materiale appiccicoso in un solo contenitore.

Con un accendino quasi completamente consumato, accesi il lume, rischiarando i contorni della cappella. Con quella lampada di fortuna mi addentrai nella vegetazione, fino al Ponte Romano.

Il Ponte Romano, anche detto Ponte di Annibale, era un ponte la cui leggenda narrava fosse stato costruito dalle popolazioni del luogo per il passaggio del grande condottiero, ma in realtà  il ponte, ancora completamente intatto, risaliva ad epoche ben più distanti, quando ancora la Grecia aveva appena conquistato le coste tirreniche dell’allora non civilizzata Calabria.

Temesa, Tempsa per i romani, era nata allora, sulla costa settentrionale del fiume Savuto, e i suoi casali si estendevano fino all’entroterra. Ecco, dunque, la fine di Temesa. Ecco, dunque, quel ponte, così misteriosamente intatto e mai scalfito dal passare del tempo.

L’acqua del fiume, impetuosa, mi colpì duramente. I forti flutti mi spingevano verso valle, ma provai con tutte le mie forze a resistere.

Mi inginocchiai su una roccia, esattamente davanti al ponte, tenendo forte in mano la lanterna improvvisata. Sentii come il cuore fermarsi un istante per il terrore dell’azione che stavo per compiere, ma allo stesso tempo sentii una forza interiore mai provata pervadere tutto il mio corpo. Posai la lanterna su una roccia più grande ed emersa dall’acqua davanti a me, a cui mi aggrappai per evitare che le correnti mi trascinassero via.

Le gambe sembravano ormai private della loro vitalità , vicine all’ipotermia. Facendomi forza, presi da una tasca interna del mio giubbotto una piccola fiala di profumo, e la versai sulla mano sinistra, che passai sulla fiammella della lanterna.

Improvvisamente, la mano prese fuoco. Trattenendo le urla di dolore, puntai il dito indice sinistro, completamente in fiamme, verso il ponte, urlando a squarciagola due parole latine.

Tempsa, appārē.

Sentii un forte boato provenire dalla terra, mentre le fiamme sulla mia mano si concentrarono solo sulla punta del dito indice, lasciando il resto della mano ustionato dalle fiamme. Un attimo, e quella sfera di fuoco liberò tutta la sua vitalità  e potenza.

Un’impressionante vampata raggiunse il ponte, propagandosi in cerchio per tutta la grandezza dell’arco

Un vortice infuocato si disperse nella valle, illuminando a giorno quel pezzo di mondo. Restai accecato da quella luce, e come attratto da una forza arcana, iniziai a camminare verso quello che un tempo era il ponte, e ora era semplicemente un vuoto candido. Sembrava di essere tra le nuvole, nel nulla eterno. In lontananza, la melodia dell’universo che mi cullava in quel viaggio.

Durò un attimo, e mi ritrovai nel buio più profondo.

Colto dal panico, cercai di urlare, senza riuscirvi. Tastai attorno a me per capire dove fossi, ma non riuscivo ad identificare cosa fosse il materiale inconsistente che mi circondava. Provai ad alzarmi, ma non ci riuscii. Non riuscivo a sentire e controllare più il mio corpo.

“Sono in trappola?” mi chiesi tra me e me, ansimando.

Annusai l’aria attorno a me, cercando di identificare qualche odore particolare, ma senza trovare niente. Ero come privato di tutti i miei sensi, cullato in un limbo orrendo tra la morte e la salvezza.

Mi lasciai cullare nel nulla, cercando di non pensare più a nulla.

Fu allora che sentii qualcosa. Un rumore improvviso, poi un vibrare dell’aria e qualcosa che sbatteva.

“Benvenuto, spero che il viaggio fino a questo luogo ti sia stato gradito”.

Una voce gracchiante e cupa mi aggredì le orecchie. Cercai di parlare senza riuscirci.

“So che ti è impossibile proferir parola, mio giovane” continuò la voce “E sono sicuro che ti piacerà  ancor di più non riuscire a guardare il tuo interlocutore”

Passi, un gorgoglio d’acqua, un sospiro soddisfatto, un tonfo scomposto.

“Davanti a te è seduto niente di meno che il distruttore di questo luogo” rise la voce compiaciuta “Ma per essere arrivato qui saprai già  chi io sia.

Tentai di muovermi, ma non riuscii a sentire nulla.
“Com’è bello non provare più sensazioni, mio caro, mi ricorda quasi il giorno della mia morte” continuò la voce “Quando quel maledetto di Ulisse mi lasciò qui a marcire ed essere lapidato come un cane!”

Un fruscio, una caduta, il rumore di qualcosa di rotto.

Sapevo chi fosse quell’uomo. Era colui che avrei dovuto fermare definitivamente, la causa di tutto il male della mia valle. Alibante, il demone di Temesa.

La storia di Alibante era stata la chiave che mi portò all’identificazione dell’elemento fantastico tra i frammenti di storia, durante le mie ricerche. Narra Pausania che nei tempi dopo la Guerra di Troia, Ulisse vagabondò a lungo insieme ai compagni nelle città  dell’Italia meridionale, tra cui la stessa Temesa. Un uomo, lì, un suo compagno di viaggio, di nome Polite, violentò una giovane del luogo. Dopo lo spiacevole fatto, Ulisse fu costretto a lasciare la città  e Polite, che venne successivamente lapidato dalla popolazione. Il giovane, adirato, tornò sotto forma di demone col nome di Alibante, e torturò per secoli la popolazione, fin quando un pugile di Locri lo sconfisse e lo gettò in mare.

Il mare, però, non uccide chi è già  morto, e Alibante tornò nel medioevo, vendicando la propria sconfitta con il fuoco,e relegando Temesa a un vano ricordo, per poi schiavizzare le giovani vergini del paese e condurle nel sottosuolo, un limbo raggiungibile solo tramite un incantesimo: bruciare il proprio palmo della mano davanti all’ultimo residuo di Temesa, un ponte nelle campagne rinforzato dai romani all’epoca di Annibale.

“Sarai un gradito ospite mortale” sogghignò Alibante “E un gradito corpo per ospitare la mia anima”

Dopo quelle parole, tornò il silenzio, e vi restai per un tempo indefinito. Non riuscivo a capire più niente, ero scoraggiato, confuso, terrorizzato. Rimpiansi tutte le mie speranze e ricerche, sperai di morire prima di diventare solo un mezzo di un demone arcaico.

“Porterò la morte alla mia gente per la sola curiosità â€.

 

Fu dopo anni, o anche pochi attimi, che sentii di nuovo il mio corpo, e il dolore lancinante alla mano. Un odore pungente di spezie invase le mie narici, seguito dal sapore di sangue in bocca. Mi leccai le labbra, intrise di un liquido acido e salato, ma la sola gioia di tornare ad avere sensi aveva scavalcato ogni ribrezzo. Aprii gli occhi, lentamente, e mi misi seduto.

La prima cosa che vidi fu una grossa fasciatura alla mano, usata per curare l’ustione. Una pasta dura e giallastra era spalmata sul mio corpo nella sua interezza. Tutto intorno, solo roccia e una piccola apertura in ferro su un lato della stanza, ma stranamente riuscivo a respirare senza problemi.

Un cigolio, e la porta si aprì.

L’unica candela presente nella sala illuminava i contorni in modo scarso, ma riuscii a vedere nella figura, completamente coperta da un velo pallido, il corpo di una ragazzina ancora giovane.

Con passo ovattato, la figura si accostò a me, sussurrando un timido “mi segua”.

Deglutii in preda al panico. Mi alzai , coprendo il torso nudo con un panno, e seguii la ragazza.

“Faccia piano, venga” continuò, conducendomi tra strettissimi corridoi.

“Alibante vuole...”

“Zitto!” mi redarguì lei con vocina spaventata “Non parli, mi segua”

Camminai per diversi minuti con quella strana ragazzina. In qualche modo, ero sollevato dalla presenza di altri esseri viventi in quel luogo remoto. Non mi posi nemmeno il problema di capire chi fosse, perché fosse lì e se mi stesse conducendo alla morte. Era un qualcosa di vivo.

La ragazzina si fermò davanti ad una porta in ferro, e si girò verso di me guardandomi da sotto il velo.

“Appena uscirà , dovrà  scappare, più veloce che può”

“E lei...”

“Io sono”.

Quella strana risposta mi inquietò particolarmente, ma seguii il consiglio, e mi accostai alla porta.

Un colpo, e fui fuori. La luce mi accecò, ma continuai a correre. Dietro di me ruggiti, clamore, urla. Continuai a correre, senza più badare a nessun dolore, oltrepassando muretti, sterpaglie, rovi. Corsi fino a sera, quando, stremato, caddi.

Sentii il mio corpo cedere all’improvviso, e mi accasciai mestamente a terra, chiudendo gli occhi. Fu una notte stranamente calma, cullato dal verso delle cicale e lo scorrere di torrenti.

Mi svegliai in mattina avanzata, ritrovandomi con sorpresa accostato a un giaciglio di erbe e fiori. Mi alzai di scatto, preoccupato da quel cambiamento, e mi guardai attorno, ansimando. Presi un bastoncino per difendermi da eventuali attacchi, e iniziai a camminare verso la boscaglia dove mi ero addormentato.

Uno scricchiolio, una pietra rotolata a terra, e mi girai improvvisamente. Dietro il mio giaciglio, vi era un enorme sperone roccioso e frastagliato, coronato da numerose piantine di edera e fichi d’india. Nascosto nella macchia mediterranea, un essere mai visto prima. Una gigante testa di rapace mi guardava da dietro un rovo. Enormi ali spuntavano dalla schiena, mentre il corpo snello di un felino era ritto dalla sorpresa.

Mi avvicinai lentamente, spaventato ma incuriosito. Gli occhi dell’animale sembravano stupiti e innocenti, quasi fosse imbarazzato.

“Sei stato tu?” chiesi, indicando il giaciglio.

La chimera non rispose.

“Grazie” sorrisi, avvicinandomi ancora “Ti sono riconoscente”.

L’animale si mosse, avvicinandosi.

“Sei davvero bello” sussurrai ammirato.

Di tutta risposta, la chimera si accostò a me, strusciando la parte piumata sul mio petto. Era maestosa, ma non eccessivamente grande.

“Puoi aiutarmi?” chiesi, accarezzandole il collo.

L’animale si piegò a terra, invitandomi con uno sguardo intenso a salire sulla sua groppa. Il pelo caldo mi diede subito una sensazione di conforto; mi sistemai meglio, e aspettai la partenza.

L’animale si rialzò cautamente, per poi librarsi in volo con un battito d’ali. Guardai il panorama sottostante stupito: ero nella mia valle, ma non era la stessa.

Il cielo era solcato da enormi esseri volanti, mentre la terra venata da stradicciole in pietra di fiume. Lo sguardo poteva estendersi fino alla costa, dove non vi erano le i cupi stabilimenti balneari, ma stupende foreste di macchia mediterranea incontaminate, e così ancora avanti, fino ai paesini, arroccati sui colli come secoli e secoli prima.

Il grifone volò lungo il corso del fiume, sorvolando il ponte che mi aveva condotto in quel luogo, e che ora era semplice strada per carovanieri, e ancora altri paesi, fino ad arrivare ad una spianata su un colle.

Il paesaggio attorno era sempre quello di foreste e valli, ma quel luogo aveva qualcosa di speciale. Ricalcai nella mente i contorni del mio paese, che combaciavano perfettamente con quelle alture, fino a notare, alla mia sinistra, una chiesa isolata.

“Questo è il mio paese prima del terremoto del seicento” pensai, esterrefatto.

“Eronne, ce l’hai fatta!” esclamò una voce poco distante.

Mi voltai, trovando davanti a me un giovane dai capelli biondi, vestito con un’armatura leggera sui toni del celeste. Dietro di lui, uno stupendo drago azzurro, le cui squame assumevano le colorazioni dell’arcobaleno alla luce del sole.

Il giovane abbracciò il grifone, per poi voltarsi verso di me: “Piacere, sono Evaristo, un Cavaliere Aereo”.

Ricambiai con un sorriso stentato.

“Ti prego di seguirmi, ho avuto il compito di accoglierti dall’Accademia dei Draghi di Temesa”.

Stranito, seguii il giovane, a mia volta seguito dal dragone e dal grifone.

“Ti chiederai cosa ci faccia io qui” esclamò Evaristo, con fare amichevole “E la risposta è abbastanza lunga, ma potrà  chiarirti molte cose, fratello”

Annuii, tremante.

“Questa è Temesa, la terra perduta” iniziò a spiegare “Alibante ci relegò in questo luogo nel medioevo come punizione per la sua sconfitta. Questo luogo è molto particolare, in quanto è semplicemente una proiezione spaziale tra la terra reale e il mondo dell’Ade, una sorta di Limbo creato dai demoni, in cui noi siamo l’unica zona abitata da viventi”

“Ma come...”

“Alibante probabilmente non ti ha spiegato tutto, durante il tuo soggiorno lì, in quanto il suo obiettivo è quello di possedere il tuo corpo per tornare in forze, la verità  è che quel maledetto è stato sconfitto diverse volte, ma cerca tuttora il modo di destabilizzare le nostre forze. Vedi quel paese? Forse non lo riconoscerai, ma era il tuo paese nel seicento, quando Alibante si risvegliò a causa di un nuovo corpo e scatenò una cruenta guerra, che nel tuo mondo venne percepita come un devastante terremoto.

 

Il 27.3.1638  furono distrutti circa cento paesi da un devastante terremoto con epicentro Rogliano (CS), nel cuore della Valle del Savuto.  Furono uccisi da 10, 000 a 30, 000 calabresi. Uno tsunami devastò la costa della pianura di Santa Eufemia nel centro della Calabria.

 

Alibante è coinvolto anche in due terremoti successivi, nel 1791 e nel 1890, sismi che devastarono la vostra terra, trasportandone i residui nella nostra. Qui cresciamo sulle vostre disgrazie, la nostra vittoria è la vostra sconfitta, la nostra sconfitta sarebbe la vostra fine. Disgrazie come quella del Disastro di Monognah, la più grande tragedia mineraria al mondo, sono anche state causa di quel bast*rdo. Quella volta, nel portale, riuscirono ad entrare due giovani provenienti dal paese di Falerna, sulla costa, uno dei quali riuscì a scappare incolume, mentre l’altro venne posseduto dal demone Alibante. I due giovani emigrarono, iniziarono a lavorare nelle miniere. Il ragazzo non posseduto era allora all’oscuro di quale astrusa presenza fosse contenuta nel corpo del suo migliore amico. A Monongah, dunque, il demone fece esplodere la fabbrica per uccidere quel giovane”

“Perché proprio quel ragazzo?” chiesi, posseduto da un terribile presentimento

“Si narra che Alibante possa essere sconfitto definitivamente solo da una persona ogni centodieci anni”.

Sentii il sangue gelarsi.

“Quando è avvenuta la tragedia?”

“Millenovecentosette, ovvero centodieci anni fa”

“Sono io?” chiesi, con voce atona.
“Sì”.

La risposta lapidaria mi colpì come un macigno in pieno petto. Scalciai un sasso sul selciato, guardandolo rotolare, per poi rialzare la testa. Guardai il cielo, sconsolato. Il mio mondo era lì sopra, da qualche parte. L’avrei raggiunto di nuovo, un giorno.

Una fugace lacrima mi solcò il volto, e ne gustai il tracciato sulla guancia. In qualche modo sapevo che la mia presenza lì fosse un segno del destino. Avevo il compito di aiutare quel mondo a porre finalmente fine alle sue terribili agonie e guerre, ma anche di salvare la mia terra dai disastri naturali, sempre stati poco clementi con noi.

Ero lì, dovevo continuare ad esserci.

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