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[Vangel] Rosso Sangue, Blu Abisso [prologo]


Vangel

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Ciao a tutti coloro che passeranno di qui.

Questo è il prologo che avevo scritto tempo addietro per una prova di FF a tema Pokémon. Se interessa, cercherò di postarne altri pezzi.

 

Premessa importante: non si tratta di una vera FF, è più una rielaborazione del soggetto e del tema, in chiave adulta, thriller, a tratti horror.

Proprio per "sbambinizzare" l'immaginario, ho apportato le seguenti modifiche:

- i Pokémon sono chiamati Mon;

- ogni persona può avere un singolo Mon;

- il Mon non viene "catturato", ma entra in comunione spirituale col suo partner umano, legandovisi per sempre;

- ho creato qualche commistione col mondo "reale" per rendere tutto più vicino al lettore.

 

Taggo @Momota e @evilespeon in riferimento all'altro topic.

 

Link al topic per gli eventuali commenti.

 

 

 

Grazie!

 

***

 

Prologo

 

 

 

“Comando dei Ranger… sono… forse è solo una sciocchezza, ma credo che… che il mio Houndour non si senta bene. Si comporta in modo strano. È uscito fuori di casa e non risponde ai richiami, ho provato a seguirlo, ma… l’ho perso nella boscaglia. È buio, non… non trovo una torcia. Sono preoccupata.

Se poteste mandare qualcuno… È giovane, non ha molta esperienza, e poi… poi era tutta la sera che sembrava inquieto, aveva una salivazione molto forte. Non aveva mai fatto così prima. Se poteste mandare qualcuno… Ho paura, non me la sento di… di lasciarlo fuori da solo tutta la notte, ci sono gli acquitrini, potrebbe perdersi… per favore… Abito al 24° chilometro della Provinciale 14. Margherita Morán. Grazie.

Grazie”.

 

***

 

 

La moto si fermò a bordo strada con un ronzio basso.

Timo spense la propulsione elettrica, smontò di sella; intorno il buio, la notte e i suoi rumori, il faro della Kawasaki rimasto acceso a illuminare il nulla avanti a sé.

Batté un paio di volte le palpebre, lo sguardo a vagare intorno senza nessun preciso riferimento da cogliere, eccetto il lieve stormire degli alberi e le stelle sul mantello cobalto del cielo.

Tolse il casco.

Si chinò sul quadro comandi della moto, per un attimo scorse il proprio riflesso sullo schermo spento: la giacca rossa corta sulla tuta aderente nera, divisa Ranger d’ordinanza su un fisico atletico, i tratti forti. Sfiorò il touchscreen, lo guardò riprendere vita e irradiarsi di luce bianca, la navigazione satellitare, le coordinate, la freccia blu della sua posizione correttamente segnata a pulsare nel centro dello schermo.

Possibile?

Tornò a guardare il paesaggio intorno: l’ampio prato, il limitare degli alberi, la strada.

Buio.

Troppo buio.

Più di tutto, la casa: non c’era.

Provinciale 14, chilometro 24.

L’abitazione di Margherita Morán doveva trovarsi lì e non c’era. Non c’erano i due lampioncini a forma di lanterna, il lastricato che portava all’ingresso. Non c’era la casa.

Esitò, indeciso se credere a ciò che stava guardando.

Riconosceva il posto, il prato, la curva della strada poco più avanti: non c’era la casa.

Assurdo.

Tolse dalla cintura la torcia a led, l’accese, la fece scorrere da un lato e dall’altro della carreggiata.

Non c’è nessuna casa qui.

Sentì un brivido illogico attraversargli la schiena. Si mosse, stoico, abbandonò la Kawasaki e spese qualche passo sull’erba del bordo strada, la torcia lasciata correre intorno.

La notte.

Non c’è niente. Impossibile.

Fece per voltarsi, urtò con lo stivale qualcosa di metallico che stava sul terreno: puntò la torcia a terra, fascio bianco a illuminare l’ostacolo.

Poggiò lo stivale su una cassetta della posta, divelta, le cinque lettere di Morán stampate su entrambi i lati della struttura. Increspò le sopracciglia. Si inginocchiò, qualcosa che il suo occhio allenato aveva colto: illuminò il paletto di sostegno della cassetta, distrutto dai morsi; fece scorrere la mano guantata tra le porzioni mancanti di legno, intuì un’ampiezza ridotta del cavo orale, sicuramente un Mon di piccola taglia.

Sollevò le dita davanti al viso, le scoprì umide di saliva giallastra.

Non è buon segno: forse un disturbo della digestione.

Timo si alzò, puntò la torcia a terra, scorse le tracce confuse della creatura.

C’è qualcosa che non va.

Si alzò e sentì gli occhi dilatarsi involontariamente: fece scorrere la torcia sull’ampio spiazzo che gli si apriva innanzi, che era parso vuoto fino a un attimo prima.

La casa.

Umettò le labbra in un moto di nervosismo.

La casa.

Stormire delle fronde, odore di muschi e graminacee: guardò il fascio di luce illuminare un ampio riquadro di terra battuta entro cui i solchi delle fondamenta sembravano ferite aperte nel suolo, liquido scuro a spurgare e colare intorno. Non un detrito, un segno di distruzione, una traccia che lasciasse intuire l’accaduto. La casa era semplicemente svanita nel nulla lasciando solo le fondamenta.

Silenzio.

Non è possibile una cosa del genere.

Prese un respiro più ampio dei precedenti.

“Signora Morán?”

Il sibilo della brezza notturna.

“SIGNORA MORÁN?”

Silenzio.

Toccò la cintura cercando il com-link: realizzò con un brivido di averlo lasciato sulla moto.

Maledizione.

Si mosse, iniziò ad arretrare con ordine, la luce puntata intorno nel timore di un’insidia.

È la cosa più assurda che io abbia mai visto.

Un rumore.

Suono basso, torbido, un vocalismo che riconobbe immediatamente come animale.

Immobile, i sensi in allerta, Timo orientò la torcia verso sinistra, la linea degli alberi; attese secondi interminabili, la creatura non si palesò.

Il Ranger poggiò lentamente un ginocchio a terra, portò la mano libera alle labbra e modulò il fischio di ricognizione, leggero, prolungato, un suono che il vento portò con sé per pochi e intensi secondi.

Silenzio.

Gli rispose qualcosa di simile a uno schiocco, basso, poi un rantolo viscerale.

È un Mon.

Spostò la mano alla cintola, cercò e trovò il manico della Sarissa, la verga elettrificata d’ordinanza; la portò fuori dalla fondina quindi la aprì con un toccò dell’interruttore: dal manico estroflesse una veloce sequenza di segmenti d’acciaio che composero lo strumento, poi un bagliore azzurro ne caricò la linea di tensione.

La torcia ferma sul punto da cui fu certo provenisse il verso.

Andiamo, esci fuori.

Si mosse, solo un passo acquattato, fece frusciare l’erba per attrarre la sua attenzione. Il suono felpato di zampe sul manto erboso gli disse che stava agendo correttamente. Lo vide apparire tra i fusti dei larici: due occhi lattiginosi, le forme scure confuse con il buio.

Mon base, genotipo: Canide, specie: Houndour, condizione: alterata.

“Andiamo, bello,” occhi negli occhi nonostante la distanza, “Devi aiutarmi a capire che sta succedendo.”

Le labbra della creatura si sollevarono in un moto d’ira, zanne e gengive snudate, un latrato basso, la posa cauta, tesa, quattro zampe piantate come sostegni sul terreno.

È in iperventilazione.

I muscoli contratti fino a emergere da sotto il pelame scuro e rado.

“Vieni qui.”

Imposizione dello sguardo, ricerca del piano di comunicazione sensoriale: volontà umana contro volontà animale.

Il Mon ebbe un accenno di esitazione, un moto nevrotico, qualcosa che riuscì a passare attraverso l’alterazione dei suoi sensi. Indecisione.

“Vieni qui.”

Un passo.

Così.

Frusciare improvviso, le zampe sull’erba: l’Houndour si voltò di scatto e corse via, tra gli alberi, nella notte, le frasche spostate dal suo incedere fulmineo.

“EHI!”

Silenzio. Timo ascoltò per un attimo la notte, l’ultima eco del Mon in fuga: poi più nulla.

Maledizione.

Si avviò a passo svelto verso gli alberi, varcò la linea del fogliame, percorse solo un paio di metri nel bosco: si fermò. Vagò la torcia intorno, luce bianca sul nero completo che lo circondava. Ascoltò la notte: nulla.

Tutto questo è assurdo.

Frusciare di foglie.

Si voltò di scatto, ispezionò gli alberi, il suolo. Nulla.

Assurdo.

Fece per tornare sui suoi passi, ma si bloccò ancora.

Un suono.

Tese l’orecchio, non riuscì a distinguere.

Chiama qualcuno, avverti il comando.

Di nuovo.

Sembra una vibrazione.

La percepì distante, lontana, qualcosa a metà tra un effetto acustico prodotto da uno strumento e un più profondo rumore ambientale.

Senso di angoscia: sentì crescergli addosso una forma di panico irrazionale, qualcosa che non aveva mai provato prima, un bisogno d’allontanarsi che gli parve l’unico imperativo da seguire.

Vattene da qui.

Si mosse, fece un passo, si fermò. Tremore alla gamba. Brivido. Qualcosa di muscolare, un tremolio che gli era apparso dal piede e andava salendo verso l’alto; Timo provò a procedere, poggiò il peso sulla gamba tremante: la sentì cedere di colpo, si ritrovò col ginocchio a terra.

Maledizione.

Guardò la mano che reggeva la verga elettrificata: tremava.

Non è possibile.

Irrigidì.

Vertigine, batticuore, un affondo di panico irrazionale e selvaggio come non ricordò d’averne mai provati: qualcosa, esattamente dietro di lui, era apparso tra gli alberi, una presenza che colse senza aver visto o udito nulla.

Si voltò di scatto, la Sarissa protesa in un gesto difensivo, il respiro affannoso.

Sacro Arceus.

Una figura immobile, alta, esile, scura più dello sfondo nero pastello del bosco.

“CHI…!” La voce s’impastò, uscì rotta, la saliva quasi a soffocarlo, la verga brandita in avanti come un disperato monito.

Gli rispose uno schiocco di carne e ossa: due braccia impossibilmente esili e lunghe si allargarono nella notte, una dozzina di altri identici arti più piccoli si aprirono a raggiera tutto intorno, una corona di carne senziente.

“Che cosa sei?!”

Immobile, paralizzato da una paura atavica, vecchia quanto il mondo.

La creatura rimase immobile, silhouette grottesca tra i rari giochi di luce della luna e delle piante.

“CHE COSA SEI?!”

Istinto di sopravvivenza, richiamo primordiale; Timo lasciò cadere la torcia, portò la mano alla cintura da cui strappò la sfera, un semplice impulso di volontà con cui la aprì: bagliore candido d’evocazione.

“Sikes!”

La figura elegante del Linoone si materializzò in posizione di difesa, un metro e mezzo di mustelide gigante, la grande coda sollevata in un gesto di tensione: Timo ne percepì all’istante il profondo disagio, la paura selvaggia che pervadeva lui stesso, il cuore dell’uomo e il cuore dell’animale sincronizzati sulla stessa frequenza.

Difesa statica, Sikes! Lo sforzo mentale di comunicare con il proprio compagno Mon attraverso il turbine di pulsioni angosciose, Lo affronteremo insieme!

La notte intorno, il vento, le frasche agitate. Il fascio della torcia caduta proiettato a illuminare solo parte della creatura ancora immobile, in attesa, immersa nella tenebra da cui era stata partorita.

Il Ranger tornò eretto, il tremore agli arti un contagio che andava estendendosi lungo le membra.

Sono qui, Sikes! Siamo una cosa sola!

Vide il Mon arretrare di un singolo passo, la coda agitata in un moto di paura che andava prendendo il sopravvento anche su di lui.

Sono qui, amico!

L’essere notturno immobile contro lo sfondo spettrale degli alberi.

In posizione!

Il suono.

Quel suono, una vibrazione accanita, profonda, un assalto sensoriale che echeggiò attraverso il petto e nella testa. Un coro stridulo di puro orrore.

L’aberrazione volse i grandi palmi verso l’alto, verso il cielo oscuro.

Il suono.

Il Ranger guardò inorridito il terreno sotto di sé contorcersi, sputare una dozzina di spine dorsali, catene di ossa ad avvolgere lui e il suo compagno Mon, stringersi attorno agli arti, al collo, al corpo. Si ritrovarono entrambi sollevati per un attimo a parecchi centimetri da terra, l’orrore negli occhi, il contatto mentale strappato, qualsiasi movimento impossibile, la Sarissa caduta a terra.

“Sikes…!”

Due sinuose colonne vertebrali si sollevarono, ondeggiarono per un singolo momento davanti ai loro volti, le estremità plasmate in lunghi aghi di cheratina.

“NO!”

Un solo istante di vuoto.

Quattro iridi dilatate.

Il soffio di rabbia e paura del mustelide da combattimento.

Mezzo metro di aculeo ossificato affondò come una spada attraverso il cuore del Ranger, uno identico in quello del suo fedele complementare animale. Suono osceno della carne forata.

Stormire per un attimo più forte delle frasche, passeracei presero il volo disturbati, la torcia caduta a illuminare il nulla del sottobosco.

La strada su cui era rimasta la moto Kawasaki, l’unico faro acceso, il cielo stellato, la notte.

Silenzio.

 

 

***

 

rosso-sangue-blu-abisso.jpg

 

***

 

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