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[Fen] Vita senza titolo


Raizen

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Il titolo non è.. il titolo. Non sapevo cosa scrivere.

Comunque, come col Fantasy Contest ho scritto un racconto che avrei postato se avessi partecipato al Contest di scrittura concluso da poco. Nello specifico, si riferisce alla "vita". Non è granché originale, ne sono cosciente, ma spero di poter ricevere qualche commento costruttivo, anche perché come al solito sto cercando di cambiare un po' il mio stile, e vorrei dei commenti sinceri.

Grazie in anticipo.

 

Vita senza titolo

 

Cammino nel corridoio fiocamente illuminato, il respiro debole che assomiglia più ad un sospiro. Attorno a me sento tanti respiri identici al mio, alcuni più spezzati di altri.
Solo uno di questi è regolare, lo sento distintamente alle mie spalle. L'uomo mi colpisce con una mano sulla schiena, fra le scapole, incitandomi ad avanzare.
Giro appena il viso per lanciargli un'occhiataccia di sbieco, infastidito.
Lui sbuffa, come per scusarsi «Ho orari precisi» dice alzando le spalle.
Torno a girarmi, aggrottando le sopracciglia.
«Eddai, scusa. Una volta ero più gentile» continua lui, allegramente.
«I miei ricordi non arrivano tanto lontano» rispondo. Trattengo un sorriso, alla fine è un bravo ragazzo, uno a posto.
«Ah, ma che simpatico»
Non posso fare a meno di pensare che, nonostante tutto, nulla è come mi aspettavo. Non riuscivo a visualizzare il "film" della mia vita, una visione regolare e dettagliata di quello che ero stato. Ricordavo a pezzi, più o meno. Indistinti, sconnessi, alcuni più dettagliati di altri.
La mia infanzia era la parte più chiara, per assurdo. Forse perché il suo trascorrere mi aveva segnato, e molto. Ricordo quando papà  lasciò me e la mamma, per non tornare mai più. Ricordo mia madre, ancora giovane nonostante tutto, che si inventava ogni lavoro pur di darmi da mangiare. I suoi sorrisi erano sempre sinceri, ma non ricordavo di aver mai visto il calore estendersi agli occhi, sempre caratterizzati da una punta di malinconia.. Avrei tanto desiderato vedere il suo sorriso pieno, felice. Ma non potrò mai vederlo, e questo mi rattrista più di ogni altra cosa. Nel mio piccolo, l'ho sempre protetta. L'amavo, come un figlio deve amare una madre, non avevo mai permesso a nessuno di toccarla. Come quella volta..

Esco da scuola, il cappotto logoro e troppo grande balla nel mio corpo magro da ragazzino.
Arrivo ai cancelli, ma sento qualcuno chiamarmi: «Josh! Hey, femminuccia, fermati!» la voce goliardica mi arriva, circondata dalle risate sguaiate della sua piccola e scapestrata gang.
Mi giro e vedo Dean, il bullo della scuola. Alto di una spanna più degli altri, e grosso come tre dodicenni messi insieme, Dean mi sembra un Troll.
I bulli, quanto li odio. Sono grossi, stupidi e ignoranti. Godono nel vederti soffrire. Avrei potuto facilmente sconfiggere quel ragazzo in un dibattito amichevole, ma ero inutile provarci. Lo avrei affrontato. Sarei stato sopraffatto, alla fine, e forse sarei anche stato espulso. Lui invece si sarebbe preso solo una ramanzina, il suo babbo aveva le tasche troppo gonfie per subire l'onta di un figlio allontanato da scuola.
«Femmina!» Ribadisce, latrando come un cane «Ho sentito dire che la tua mammina non se la butta bene, eh? Ma è vero che passa le notti sulla tangenziale? Magari ti ha comprato quel giubbotto coi soldi di uno dei nostri papà !»
Prima che possa scoppiare a ridere alla sua battuta mi scaglio contro il suo viso con tutta la forza che ho. Rimane sopreso, bene. Affondo le nocche del pugno destro nei suo denti, facendogliene saltare qualcuno. Prego affinchè siano denti definitivi, non ci sarebbe gusto se ricrescessero.
Cerco di colpire ovunque, sul naso, alla bocca dello stomaco, gli mordo le mani frenetiche che cercano di colpirmi la faccia.
Uno dei suoi amici mi colpisce con un calcione sul fianco, ribaltandomi. Gli altri ne aprofittano per saltarmi addosso. Non finirà  molto presto, lo so.
Torno a casa un'ora dopo, tutto rotto. Dean sarebbe andato a fare la spia e a mostrare come un trofeo la bocca devastata, ma non me ne preoccupo. Mi prendo la sgridata dalla mamma, si è arrabbiata molto. Ma ho solo lei nella mia vita, come posso permettere che qualcuno la tratti male?


Il ricordo si interrompe bruscamente, una voce mi riporta alla realtà .
«Tutto bene?» chiede il mio accompagnatore.
«Mmm..» rispondo indistintamente, le sopracciglia ancora corrugate nello sforzo di ricordare.
«Le mani ti fanno male? O hai prurito da qualche parte?» si informa lui, cortesemente.
«No, sto bene. Grazie Mike, davvero, ma non necessito delle tue cortesie. Mi fai sentire un idiota»
Alza le spalle, forse è un suo tic nervoso «Voglio solo renderti felice, amico»
Scuoto piano la testa, quel ragazzo è proprio strano. Magari fossero tutti strani come lui.
Con gli occhi percorro il corridoio, e noto dei volti che mi fissano ai lati. Li vedo deglutire, incrocio i loro occhi. Sono spaventati, impauriti. Una debole eco di quel che ero io tempo addietro, ma ora non riesco a sentire la paura. Incrocio lo sguardo di un ragazzo pallido e lentigginoso, è il più impaurito di tutti. Non è ancora il suo turno, ma capisco la sua sofferenza. Lo sentivo piangere, la notte. Piangevano tutti, anche se molti singhiozzavano  in silenzio, vergognandosi di sentirsi così deboli e indifesi,  vulnerabili, così come lo ero stato io..

Ho sedici anni, e sono cambiato. Il mio fisico è più adulto, slanciato. I lineamenti tondeggianti della fanciullezza hanno lasciato il posto al mento pià  squadrato e il taglio del viso è una linea regolare.
Le guance portano un leggero alone di barba. Troppo poco per radersi regolarmente, ma abbastanza per sentirmi un uomo e sfoggiarla con orgoglio.
Sono seduto al bar, a bere una birra. Non ho ventuno anni, ma a nessuno importa. Sono passati due anni dalla morte della mamma, ma ancora mi manca. Sorseggio un po' dal bicchiere, per poi mordermi il labbro inferiore. Non devo pensare a lei, fa male. La realtà  è brutta, ma posso sopportarla. Mi giro, scostandomi appena dal bancone, lasciando vagare lo sguardo a caso. Sobbalzo quando incrocio gli occhi di mia madre. Verdi, grandi, profondi e ricchi di segreti. Lo sguardo sembra curioso, pensoso quanto il mio.
Mi accorgo con stupore che attorno agli occhi c'è un viso, ma non è quello che mi aspetto. Una ragazza dai capelli castani e corti, il viso è pallido al contrasto con le guance infiammate di colore.
Deglutisco, è proprio carina.
La ragazza dal viso adorabile inclina la testa di lato, incuriosita.  È seduta a due posti di distanza, mi chiedo perché non me ne sono accorto prima.
«Ciao?»  Il mio saluto suona come una domanda.
«Ma non sei troppo giovane per bere?» Sì, è incuriosità . Avrà  la mia età , o poco meno.
Ghigno, alzando appena le spalle. Lei si avvicina un po', sorridente come me. Che bel sorriso. Avrei voluto vedere mia madre sorridere in quel modo.
«Mi chiamo Alice» dice lei, cordiale.
«Josh» rispondo, un po' imbarazzato. Che strana sensazione. Non avevo mai avuto ragazze, non ero abituato a conversare con loro. Mi sento un po' a disagio, lascio che lo sguardo scivoli sulle sue mani piuttosto che sul suo viso.
«La polizia sarà  qui tra poco, immagino» afferma lei, alzando gli occhi al cielo «Forse faccio ancora in tempo a salvarti, se prendiamo due bicchieri di coca».
Non rispondo, i miei pensieri sono una massa confusa. Perché mi sento così strano? Non lo capisco, ma non è spiacevole.
«Offro io, se vuoi?» continua, forse chiedendosi perché non rispondo.
Faccio segno di no con la testa, lasciando che il sorriso si allarghi sul mio viso.
«Mi hanno insegnato a comportarmi bene con le signore, ci penso io..»
«Uhm..sì, meglio così. Forse ho finito i soldi, papà  mi ucciderà Â» afferma aggrottando le sopracciglia e assumendo un'espressione adorabile. Sento lo strano impulso di avvicinarmi  e poggiare le mie labbra sulle sue. Calma, con calma.


Il suono dei nostri passi si perde nel nulla. Il mio, irregolare e arrancante, e quello del mio amico alle spalle, sicuro e deciso.
«Manca poco»  afferma, la voce tranquilla quanto i suoi passi.
«Scriverò una lettera di protesta al governatore. Già  la destinazione non è delle migliori, devo pure sorbirmi venti Kilometri di passeggiata?»
«Venti Kilometri.. non sono che pochi metri, basta che cammini più in fretta»
«Cammina tu con i piedi impediti come i miei, idiota. Davvero, pensi di essere spiritoso? Vuoi che ti dia una lezione?» lo schernisco, stando al suo gioco.
«Oh oh, non sia mai, supremo capo eccetera eccetera. Scommetto che ti stenderei con una mano legata dietro la schiena mentre con l'altra fumo una sigaretta»
«Alla gente piace illudersi. Non che la cosa mi interessi, ma davvero, non avresti speranza contro di me. Ho almeno dieci anni di esperienza in più di te, moccioso» .
«Appunto, sei vecchio e lento. Ma ora cammina, rischio di venir licenziato se non ti faccio arrivare puntuale» .
Sospiro, lasciando che la mente torni a pensare, libera di sondare i ricordi più interessanti.

«Ti amo» sussurra Alice, appoggiata al mio petto.
«Io di più»
«Per sempre?»
Annuisco, sicuro di me «Per tutta la vita»


Eccolo, il momento più triste. Più dell'aver perso mia madre, più dell'aver visto mio padre sparire nel nulla. Ricordare lei mi distrugge, è doloroso. Il mio accompagnatore è a pochi centimetri di distanza, cerco di trattenere le lacrime che implacabili si fanno strada cercando di rompere la mia facciata perfetta.

Il prete recita le solite parole, tanto usate quanto ricche di significato. Dono me stesso a lei, per la vita. Lei si dona a me. Ci scambiamo un bacio leggero, adorante, sotto gli applausi scroscianti dei suo famigliari. Sono anche i miei, adesso. Ho una famiglia, una donna, una vita.
Allontano il viso e la ammiro, bella come non mai. Stringo con forza la sua mano, sperando che quella presa resista in eterno.


Vedo in lontananza una porta grigia, la finestrella ad altezza uomo riflette la luce accecante proveniente dalla stanza.
Il mio cuore perde un battito, poi torna a pompare sangue regolarmente.

«Dai, sono stanco!» affermo tra il nervoso e il divertito. Sono appena tornato a casa dal lavoro, ma lei sembra non voler lasciarmi riposare.
«Quanto brontoli!» ride lei, accennando una giravolta mentre mi guida in camera.
Si ferma di botto, fissandomi negli occhi.
Mi chiedo cosa diamine voglia da me. Non sembra in vena di coccole, forse vuole solo prendermi in giro.
«Aspetto un bambino» Afferma, squadrandomi improvvisamente seria, come se si aspettasse che fuggissi dalla porta e lei dovesse corrermi dietro per acciuffarmi.
Annaspo, sorpreso. Un figlio? Dietro lo shock, l'idea devasta la mia mente come un fiume in piena. La mia faccia, a bocca aperta, si apre un sorriso incerto.
«Un.. bambino. Noi?» chiedo come uno scemo.
«Uhm.. be', tecnicamente sono io ad aspettarlo, ma sì, il concetto è quello.»
Continua a squadrarmi, chissà  cosa le passa per la testa.
«Sei felic..» non la lascio finire, perché le mie labbra incontrano le sue, esultanti.
«Non sai quanto» affermo, col respiro affannato come dopo una lunga corsa.


Penso a mio figlio, il figlio che avrei potuto avere. L'ennesima coltellata di dolore mi colpisce con forza, facendomi accusare il colpo.
«Va tutto bene, Jo» mi consola l'accompagnatore, scambiando il mio dolore improvviso per paura.
Annuisco appena, ingobbito e sconfitto. Perché ho dovuto lasciare che la mia mente divagasse? Mi ero allenato così tanto per trattenermi... eppure non riesco a fermarla, continua implacabile a distruggermi.

«Mi spiace, Josh, non sai quanto..»
«Dei ragazzi.. un incidente..ubriachi»


Basta. Basta. Il dolore mi colpisce ininterrottamente, uccidendomi. Serro le mascelle, stringo gli occhi, cercando disperatamente di pensare al presente..

Notte fonda. Li sto cercando, devastato, l'ombra di quel che ero stato poche settimane prima. Figli di papà , come il bullo che avevo pestato da ragazzino, Dean. Ramanzine, attenuanti, pacche sulle spalle. Liberi e candidi come la neve. Il mio sguardo è quello di un assassino, mentre arranco, accecato dalle lacrime e distrutto dal dolore e dalla stanchezza. Non dormo da giorni.
Mia moglie. Morta. Mio figlio, nel suo grembo, morto con lei. Stringo la testa tra le mani, scuotendola  a scatti.
Li cerco, li trovo. Sono nel bar che sapevo frequentavano. Sono in quattro, sono così giovani che non sembra vero. Estraggo la pistola, sparo.


«Eccoci» annuncia Mike, la voce per la prima volta nervosa.
Accedo alla stanza, e la luce improvvisa mi acceca momentaneamente.
Evito di guardarmi attorno, mentre mi lascio guidare dal mio amico - custode.
Il passaggio di consegna avviene, vengo affidato ad un uomo occhialuto e stempiato che mi prega di sdraiarmi, la voce rassicurante e paterna.
Improvvisamente scruto il soffitto, mentre la schiena rabbrividisce al contatto gelido del lettino.
L'addetto armeggia col mio corpo, ma non lo bado, ormai nulla potrebbe incuriosirmi.
Il lettino si solleva, e mi ritrovo in posizione quasi verticale. Mi decido ad osservare i volti che mi fissano, alcuni critici, altri interessati, altri ancora annoiati come se guardassero un programma televisivo di blando interesse.
Perché, proprio ora, il desiderio di vivere si dibatte dentro di me? Che strano. Ho perso tutto, ogni cosa, eppure voglio ancora vivere. Forse è per questo che la vita è così bella, perché non ha senso... se lo avesse, forse non sarebbe così interessante...
Ma ogni cosa ha una fine. La storia della mia vita non continuerà , devo chiudere il libro ben prima di quanto avrei mai voluto. Che fregatura.
«Ultime parole?»
«...»

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Tralasciando gli stereotipi (degni di una vita senza titolo), la forma sintattica è un po’ leggera. Il racconto è fluido, l'idea dei continui sbalzi temporali è carina, come del resto la gestione del ritmo. Per l’utilizzo della scena e della prima persona come stile personale, devo dire che è un particolare che contraddistingue la narrazione, ma forse ha bisogno di “essere rifinito†in rapporto alle descrizioni. Sembra un po’ forzato.


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A me piace tanto, invece.

Bravissimo!

 

Grazie :)

 

 

Tralasciando gli stereotipi (degni di una vita senza titolo), la forma sintattica è un po’ leggera. Il racconto è fluido, l'idea dei continui sbalzi temporali è carina, come del resto la gestione del ritmo. Per l’utilizzo della scena e della prima persona come stile personale, devo dire che è un particolare che contraddistingue la narrazione, ma forse ha bisogno di “essere rifinito†in rapporto alle descrizioni. Sembra un po’ forzato.

 

Grazie per il commento approfondito. Per quanto riguarda la scena, io onestamente non sono uno che la costruisce o la struttura perdendoci del tempo. Semplicemente scrivo quel che mi passa per la testa e poi tutto viene da sè, nel bene o nel male. Anche rileggendo per trovare gli errori, non penso assolutamente al racconto nella sua interezza, mi limito ad analizzare le parole. Spero si sia capito, in effetti lavoro in modo leggermente contorto.

Questo ovviamente non vuol dire che scrivo a random e come arriva arriva, è un po' difficile da spiegare. Diciamo che mi aspetto che le mie idee si traducano in qualcosa di convincente, tutto qui.

Proverò a comportarmi in modo diverso, come ho detto inizialmente cerco spesso di cambiare il mio modo di scrivere, anche se i comportamenti inconsci sono duri a morire :looksi:

 

 

Molto bella, complimenti hai vinto il 1° premio xD

 

Grazie, ma non ho postato per avere un paragone col contest e relativi premi. Scrivo quando ho stimoli, e le competizioni me li forniscono, tutto qui :)

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Molto bello. Forse ci vorrebbero un po' più di descrizioni, ma trovo che quando il racconto è impostato in prima persona sia sempre meglio non eccedere, e far restare la lettura fluida. A me piace molto così, ma magari avresti potuto aggiungere alcuni particolari in più sia legati alla vita passata che al momento prima di morire.

Comunque molto bello, bravo.

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