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[Contest di Scrittura] Conquista e Retaggio


ZarRomanov

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Durata del Contest: dal 16 al 26 maggio 2016 (ore 23:59)

Annuncio dei risultati del Contest: 9 giugno 2016*

*A seconda del numero di partecipanti e del tempo impiegato per la valutazione, i risultati potrebbero essere pubblicati anticipatamente.

 

Benvenuti al Contest di scrittura: Conquista e Retaggio, dedicato al nuovo capitolo della serie Fire Emblem sviluppato per Nintendo 3DS dalla Intelligent System.
 

Requisiti per partecipare:

 
Per partecipare è necessario un account nella community di Pokémon Millennium. Per maggiori informazioni su come registrarti nella Community di Pokémon Millennium clicca qui.

 

Regolamento:

  • Il contest consiste nel creare un elaborato basato su "Fire Emblem: Fates"!
    Ci troviamo in una terra devastata da una guerra tra due famiglie: Hoshido, la famiglia in cui il protagonista è nato, e Nohr, la famiglia che lo ha cresciuto. Lo scrittore avrà la possibilità di scegliere il destino del protagonista del racconto: aiutare i guerrieri della sua terra di origine a difendersi dall'invasione dei Nohr, oppure schierarsi con questi ultimi per supportare l'avanzata nei territori degli Hoshido?
    Scegli da che parte stare e crea un nuovo personale epilogo per la storia!
  • A meno che non venga specificato nella traccia, non importa la persona in cui sarà scritto il racconto;
  • Non vi sono limiti sulla lunghezza dell’elaborato. Tuttavia, non potrà essere scritta una Fan Fiction a puntate: l’elaborato dovrà essere scritto interamente in un unico messaggio. È possibile suddividere il racconto in capitoli, l'importante è che sia un blocco unico;
  • L’elaborato dovrà essere inedito: è vietato usare racconti scritti e pubblicati già in precedenza su Pokémon Millennium o altrove;
  • È severamente vietato copiare lavori altrui! Se lo scrittore sarà sorpreso a rubare un elaborato verrà  squalificato dal Contest e dalle iniziative future;
  • Il topic sarà utilizzato esclusivamente per postare il proprio elaborato. Per partecipare, infatti, sarà  necessario soltanto rispondere a questa discussione;
  • Una volta consegnato il proprio elaborato non sarà  possibile modificare neanche una parola (a meno che non venga permesso dagli organizzatori), pena: esclusione dal Contest.
     

Come partecipare:
 
Una volta scritto il proprio elaborato, sarà sufficiente rispondere a questa discussione inserendo la propria opera ed alcuni dettagli. 
Lo schema da seguire è il seguente (clicca il pulsante spoiler!):

 

Spoiler

 

Nome dell’autore: inserire qui il proprio nickname!

Titolo: inserire qui il titolo del proprio elaborato!
Elaborato: inserire qui il proprio lavoro!

 

 

Una volta pubblicato, non sarà possibile modificare il messaggio, pena: l’esclusione dal Contest.

 

Premi in palio:

 

I premi in palio, che varieranno a seconda del numero dei partecipanti, per questa competizione sono i seguenti:

  • Il primo classificato riceverà una copia a scelta tra i videogiochi "Fire Emblem Fates: Conquista" o "Fire Emblem Fates: Retaggio", dai 15 ai 30 PokéPoints da utilizzare nella community di Pokémon Millennium ed un codice di download per il tema di Pokémon Super Mystery Dungeon!
     
  • Il secondo classificato riceverà dai 10 ai 25 PokéPoints da utilizzare nella community di Pokémon Millennium ed un codice di download per il tema di Pokémon Super Mystery Dungeon!
     
  • Il terzo classificato riceverà dai 5 ai 20 PokéPoints da utilizzare nella community di Pokémon Millennium ed un codice di download per il tema di Pokémon Super Mystery Dungeon!
     
  • I classificati tra la quarta e l'ottava posizione riceveranno dai 3 ai 15 PokéPoints da utilizzare su Pokémon Millennium ed un codice di download per il tema di Pokémon Super Mystery Dungeon!
     
  • Il vincitore del premio originalità, assegnato al creatore di un lavoro da podio, ma che si è distinto per una particolare originalità nel realizzare il proprio lavoro, vincerà dai 7 ai 23 PokéPoints da utilizzare su Pokémon Millennium ed ed un codice di download per il tema di Pokémon Super Mystery Dungeon!
     
  • I vincitori del premio di consolazione, assegnato a coloro il cui elaborato ha ricevuto una valutazione che raggiunga la sufficienza, riceveranno da 1 a 3 PokéPoints.


Giudici della competizione:

 

Gli elaborati saranno giudicati da Ila, Simo, ZarRomanov Blue95!

 

Domande ed assistenza:

 

Per qualsiasi domanda o se hai bisogno di assistenza gli organizzatori del contest saranno sempre disponibili per un ogni chiarimento. Contattaci attraverso la discussione di supporto per le iniziative.

 

Vi invitiamo a rispondere alla discussione solo ed esclusivamente per pubblicare il vostro lavoro!
Buon divertimento!  ^^
 

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Nome dell'autore: Little Donphan

Titolo: La caduta degli Hoshido

Elaborato: 

“Ce la posso fare. Ce la posso fare. Mio padre si aspetta grandi cose da me”

Mi alzo dal letto e mi vesto con la tuta da combattimento che le serve mi hanno lasciato nell’appendiabiti la sera prima. Era da mesi che mi preparavo alla battaglia, ma mano mano che il gran giorno si avvicinava, sentivo che c’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò. Mio padre mi diceva sempre che i nostri rivali, gli Hoshido, non ci avevano pensato due volte prima di abbandonarmi da piccola, e che loro, i Nohr, erano stati così clementi da allevarmi e risparmiarmi la vita. 

“Lo devi fare, come dovere morale, figlia mia” mi ripeteva sempre. Ma perchè combattere? Non si può risolvere tutto pacificamente, parlandone? Ci avevano mai provato? Da come mio padre si comportava quando glielo domandai a 10 anni, sembrava avessi inveito contro il nostro stesso Dio. "Non comportanti come una stupida Hoshido! Sei una Nohr!" aveva detto. Mi aveva lasciata senza cibo per 2 giorni, e mi aveva impedito di uscire dalla mia stanza.

Entrai nella palestra, era piena di soldati che si allenavano nel combattimento. Senza pensarci due volte presi una spada e mi diressi verso il manichino di legno con dipinta una H nel torace. Affondai la spada esattamente dove è posizionato il cuore, come fosse una foglia secca. L’arte del combattimento me l’aveva insegnata mio padre: “Nessuna pietà per il nemico, a meno che questo non possa esserti d’aiuto, un giorno”. Era quello che significavo per lui? Quando provai a chiederlo a mia madre a 6 anni, inizialmente non rispose. La sera stessa, a cena, prima di sedersi dall’altro lato del tavolo mi fece consegnare un biglietto che lessi solamente prima di addormentarmi nel mio letto. “Scusami, ti voglio bene”. Non ho mai capito a cosa si riferisse in realtà, quindi mi convinsi che, probabilmente, all’inizio ero solo un’oggetto da poter usare contro gli Hoshido. Ma non volevo credere che fosse così. 

Continuai sovrappensiero a colpire il manichino, finché qualcuno non mi toccò la spalla. Mi voltai e gliela puntai appena sotto il mento, con fare difensivo.

“Elyka!” gridò l’uomo

“Come osi sopraggiungere alle mie spalle in questo modo?” risposi guardinga

“Non riconosci il tuo adorato fratello maggiore Eades?” sghignazzò cercando di spostare la punta della mia spada con un l’indice. Lunghi capelli biondi gli ricadevano sulla fronte, e i suoi occhi decisi mi guardavano ammiranti. Abbassai la spada e gli sorrisi a mia volta, lasciando che si avvicinasse.

“Lieta di rivedervi a casa, fratello” le dimostrazioni d’affetto in pubblico non erano gradite nella famiglia Nohr soprattutto dal genere femminile. Eades mi sorrise e mi abbracciò. La sua armatura gelida a contatto con alcuni tratti scoperti delle mie braccia mi fece sobbalzare.

“Allora, che ne dici di un giro a cavallo come i vecchi tempi? Così mi spieghi come hai fatto a diventare… così” disse indicandomi “nel così poco tempo in cui sono stato via” continuò porgendomi la mano.

“Sei stato via 5 anni, i tempi cambiano, fratello” gli sorrisi imbarazzata, accettando la sua mano. Sapevo perfettamente a cosa si riferiva. Negli ultimi 5 anni gli ormoni avevano fatto il loro dovere, facendomi diventare una bella ragazza. Notavo gli sguardi ammirai dei maschi, ogni volta che indossavo abili leggermente succinti per le feste alle quali mio padre mi costringeva a ballare.

Mi condusse nelle stalle e sellammo i cavalli. Il mio adorato Pegaso bianco, nitrì felice appena mi vide insieme a Eades. Lui scelse un cavallo nero il cui nome era Inferno. Il suo adorato destriero era stanco dopo la cavalcata per tornare a casa, avevano avuto 3 giorni di viaggio ininterrotti attraverso le terre conquistate dalla famiglia Nohr, e lui era il comandante supremo, dopo nostro padre ovviamente. Lo guardai mentre accarezzava la criniera di Inferno. Mentirei se dicessi che da piccola, non ne ero innamorata. I suoi lineamenti reali e i suoi movimenti fluidi ammalierebbero qualsiasi fanciulla del regno. Avevamo avuto uno scambio di baci all’età di 15 anni, ma fummo scoperti e mio padre lo spedì a conquistare terre. Era da quel giorno che non lo vedevo. Ricordo ancora la furia negli occhi di mia madre, quando mi parlò dicendo che l’amore tra fratelli era una cosa impura e che il sangue reale non doveva mescolarsi. 

“Ma io sono una Hoshido, non una Nohr…” il panico invase gli occhi di mia madre, riuscivo a vederlo chiaramente, ma lei mi tirò uno schiaffo.

“Non dirlo mai più, tesoro. Te sei una Nohr da quando mio marito ti ha accolto nel castello”. Fu lì che capii il perchè di tanta rabbia. Lo consideravano un incesto. Loro mi consideravano una Nohr. Ebbi la risposta alla domanda che gli posi tempo fa.

Eades mi scosse dai ricordi chiedendomi se fossi pronta. Salii su Pegaso e annuii.

“Allora… ehm… Come va?” domandò imbarazzato

“Come va è tutto quello che riesci a dire dopo 5 anni lontani? Fratello, pensavo fossi maturato” scherzai. Lui rise con gusto e si fece più vicino.

“Sai com’è, ci hanno praticamente separato dopo che ci siamo baciati e probabilmente non avrai ricevuto nemmeno una delle lettere che ti ho inviato”. Era vero, non ne avevo ricevuta nessuna, ma non importava, perchè avevo capito il mio errore. Immaginavo che mio padre tentasse in ogni modo di interrompere il legame che si era formato tra noi, ma era così contraddittorio. Diceva che ero una Nohr, ma non voleva che suo figlio amasse una Hoshido. Ma poco importava, io mi sentivo una Nohr.

“Non potrà funzionare tra noi” risposi sovrappensiero. Lo vidi girarsi di scatto e guardarmi sgranando gli occhi.

“Perché dici questo?”

“Perché io sono una Nohr, come te, sarebbe incesto” risposi calma

“No, te non sei una Nohr, sei una Hoshido” ribatté lui

“Certo, gli stessi Hoshido che tra poche ore saranno invasi dalla tua armata”

“Si tratta di questo? Perché le nostre famiglie sono in contrasto da prima ancora che noi nascessimo”

“No, infatti. Io mi considero una Nohr, mi avete accettato nella vostra famiglia invece di uccidermi quando mi avete trovata”.

Un gemito gli uscì dalla bocca e sospirò prima di ricominciare a parlare

“Non puoi dire sul serio, mio padre ti ha davvero fatto il lavaggio del cervello”. 

Non risposi, e quando si rese conto che non avrei risposto partì al trotto col suo cavallo e mi sbarrò la strada. Pegaso frenò bruscamente e per poco non mi disarcionò impennando.

“Eades sei impazzito per caso?”

“No Elyka, sei tu quella impazzita. Ma guardati, siamo completamente diversi sia in atteggiamento sia fisicamente”.

Era vero. Lui prediligeva le cose scure, in contrasto però con i suoi capelli dorati; io preferivo le cose chiare: il mio cavallo, la mia armatura beige con nastri azzurri, in contrasto pero con i miei capelli neri. Per non parlare del comportamento, lui era impulsivo di natura, io avevo imparato ad esserlo, ma nel profondo preferivo sempre la calma. Come adesso. Una vera Nohr avrebbe reagito, e invece me ne stavo qui impalata, con lui davanti a ragionare se quello che diceva avesse un senso. E, mio malgrado, lo aveva.

“Cosa vorresti fare, quindi, Eades?”

“Sai che sarò sempre al tuo fianco, fin da piccolo te lo ripeto e te lo ripeto anche ora. Sei ben più di una sorella. Se decidessi di proteggere la tua famiglia, sarò al tuo fianco”

“Perché dovrei proteggere gli Hoshido? Gli stessi che mi hanno abbandonato?” domandai seria e cercando di mantenere la calma. Lui era l’unico che mi conoscesse davvero, era l’unico che riusciva a mettermi mille dubbi in testa. L’unico che è riuscito a farmi capire che forse queste battaglie non avevano senso. Era riuscito a risvegliare in me, gli stessi dubbi che avevo stamattina prima di alzarmi dal letto.

“La scelta è tua. So che loro non ti hanno abbandonata, sei stata rapita in un blitz che avevamo organizzato noi”

“Lo so, ma invece di difendermi sono scappati”

“Se non avessimo fatto quel blitz tu non saresti mai stata qui”

“Se non aveste fatto quel blitz, non ci saremmo mai incontrati”.

Mi sorpresi delle parole che mi uscirono dalla bocca. E sorpresero anche lui. 

“Non mi importa degli Hoshido, non mi importa di loro, a me importa di te e dei Nohr. E se far vincere i Nohr vuol dire che potrò averti ancora al castello al mio fianco, allora combatterò da Nohr, combatterò contro la famiglia che mi ha abbandonato, per la famiglia che mi ha cresciuto e che mi vuole bene. Perché anche tu, anzi, solo tu, fai parte della mia famiglia. Tu mi hai cresciuta, non mi hai abbandonata” buttai fuori tutto ciò che avevo in testa, senza ragionare, come farebbe una Nohr. Lui mi guardò basito e prima che potesse ribattere, suonarono le campane che indicavano la preparazione per l’attacco.

Girai Pegaso e partii al galoppo per andare a prepararmi. Ogni dubbio era dissolto. Volevo Eades, volevo stare con lui, e per questo, sarei stata con i Nohr.

Eravamo tutti schierati, pronti a marciare verso le terre degli Hoshido. Il corno suonò, e alzai la spada, galoppando verso l’esercito bianco che mi si parava di fronte. Sembrava quasi che molti soldati Hoshido non volessero colpirmi, confusi dalla mia armatura bianca in mezzo ad un mare nero e viola di mantelli e scudi. Persi il conto di quanti ne uccisi in quel campo. Nessun prigioniero. I miei abiti divennero del colore del sangue, e la mia spada continuava a trafiggere le carni nemiche. 

I Nohr vinsero quella battaglia. E vincendo questa, vinsero la guerra. Non v’era più motivo di continuare a combattere un nemico annientato. Il re degli Hoshido, il mio padre biologico, era stato giustiziato per ultimo, davanti ai suoi sudditi, per far capire chi comandasse quelle terre ora. Mi aveva guardata e non mi aveva riconosciuta. Avevo paura che potesse riconoscermi, e che i sensi di colpa potessero attanagliarmi il cuore, ma mi aveva guardato come guardava tutti i membri della mia famiglia: con disprezzo, confusione e sconfitta. Eades mi guardava, mentre vedevo morire il re Hoshido, ma mano che i muscoli del collo si staccavano dal resto del corpo e che quest’ultimo cadesse a terra con un tonfo sordo, schizzando sangue dalla ferita appena inflitta. Mio padre alzò la testa del re morto. L’esercito gridò alla vittoria e alzò i pugni verso il cielo, mentre iniziava a piovere.

Quella sera si tenne una festa al castello. Mio padre si congratulò con me e con Eades, e gli permise di restare al castello finché l’avesse voluto.

“Sono lieta della tua felicità, padre” sorrisi

“Non avrei mai immaginato una simile svolta, figlia mia” disse dandomi una pacca sulla spalla con la mano libera dal boccale di birra “pensavo che il tuo cuore Hoshido ti impedisse di fare tutto questo, ma non è così. L’ultima Hoshido è morta proprio in questo momento” rise.

Eades mi guardò, la paura gli invase gli occhi. Gli sorrisi di rimando, non capendo cosa potesse esserci di sbagliato nell’affermazione che aveva appena detto. Poi sentii qualcosa di caldo allargarsi alla pancia. Eades spinse mio padre e un dolore atroce mi fece piegare in due. Guardai in basso: sangue. Una macchia rossa si allargava sul mio vestito da cerimonia azzurro. 

“Pensavi davvero che avessi tenuto una di QUELLI sotto il mio tetto per sempre?” sentii insinuare mio padre. No, non era mio padre, era uno sporco vigliacco. Si girò per guardarmi, mentre mi accasciavo sempre di più sul pavimento. “Tu non sarai mai una Nohr. Il tuo sangue è Hoshido e loro devono morire TUTTI”. Fu solo allora che notai il boccale di birra: aveva un pugnale nascosto nel manico. Eades mi sostenne per impedirmi di cadere e cercò di tamponarmi la ferita.

“Tutte le lettere che le scrivevi, figlio, saresti dovuto essere meno esplicito riguardo i tuoi sentimenti. I codici che usavi erano troppo semplici, per non parlare del fatto che te li ho insegnati proprio io” gridò il re.

Tossii sangue e sentii formicolare tutto il corpo. Il pugnale era avvelenato. Era uno degli stratagemmi preferiti da quel lurido verme. Mi fidavo di lui. C’ero cascata in pieno come una Hoshido. Dannazione, forse aveva ragione, forse il mio sangue non si poteva davvero cambiare. Ero una Hoshido e lo sarei sempre stata. E avevo contribuito a sterminare la mia famiglia. Eades cercò di dirmi qualcosa, ma non riuscii a capire nulla. Si stava facendo tutto sfocato, tutto confuso. Forse era giusto così, avevo più di un segnale che mi diceva che mio padre mi odiasse, e che odiasse il fatto che probabilmente lui era innamorato di me. Era l’unico motivo per cui poteva essere al mio fianco, per cui lo sarebbe sempre stato.

Vedo una luce… Poi tutto buio.

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Nome dell'autore: Monochromatic

Titolo: Guerra?

Elaborato:

Spoiler

Parte prima: Fuori

 

Avanzavo con l’arma al fianco. Ergevo me stesso tra le erbacce ed i cadaveri terrei avanzando a passo sicuro verso il prossimo uomo che da lì a poco sarebbe giaciuto smangiucchiato da qualche mostro della zona. Presi una breve rincorsa ed urlando il nome della potente casata  da me unica cosa amata affondai con vigoroso colpo la lama tra le ferraglie del nemico il cui sangue schizzò dal corpo inerme come acqua zampillante da una fonte. Corsi dunque nel mezzo del plotone avverso seguito dai miei compagni già scagliatisi contro i soldati. Vidi uno di quelli caricarmi a testa bassa con un’ascia, tirandosi dietro polvere e foglie che alzava agitandola frenetico. Mi spostai sulla destra evitandolo abbondantemente, poi gli andai dietro per colpirlo. Quello si girò di scatto ruotando l’arma ma io, cresciuto al limite dell’umano, mi gettai di spalle cosicché sbilanciatosi il soldato finì per colpirne uno del nostro gruppo mancando però me che fremente mi rialzai per colpirlo assieme al suo compagno sbigottito per la fine destinata al mio uomo. Fatto ciò affondai rapido la lama nell’uomo a terra, diretto al prossimo nemico.

Sicché il cielo plumbeo minacciava pioggia, io non temevo di sporcarmi con quell’esercito. Gli animali volutamente ingenui di quelli che m’avevano tradito non meritavano parole dal mio cuore affranto.

Elargendo generosamente la punta dell’arma a chi ne era bisognoso, mi feci strada tra i flutti magici e le frecce che solerti agivano sotto l’influsso nemico. Non mi turbava la vista di quelle dietro e dinnanzi a me, né mi turbava essere ad un passo dal greve burrone così come mai mi turbò la vista dei corpi martoriati ed ivi gettati. In piena consapevolezza della follia che rischiavo di riservarmi mi volsi e, bruciato con un rosso incantesimo il mago che mi perseguitava, mi allontanai dal clamore degli urti in cerca di vittime disimpegnate da portare a casa, non tanto per futile gloria quanto per un ancor più stressante bisogno interno che, debole, mal riuscivo a regolare dopo così tanto soffrire. Mia, pensai attorniato dall’olezzo di carne bruciata, non era la colpa di quella strage. Essa lo era di chi impunemente aveva lasciato a me l’arduo compito di plasmarmi, solo e, se non solo, accompagnato da una triste mancanza.

Passai oltre e vidi poche centinaia poi migliaia ed infine decine di migliaia di morti su per le collinette attorno alla città adornare l’erba secca del paesaggio creando con quel cielo grigio un’atmosfera invidiabile. Meritevoli erano i cannoni che con i flebili bagliori degli spari portavano luce tra il sangue scuro, stagliandosi nettamente contro gli animi spenti dei soldati morenti. Non potevo, ripetevo dentro me, stare a guardare il così malinconico posto o continuare a farneticare, tutt’al più, desideroso di rendere omaggio a quella meravigliosa terra, avrei fatto altrettanto con nuovi regali. “Quale miglior regalo per una tela se non un nuovo colore?” mi chiesi aggirandomi per il campo. Posai lo sguardo sulle schiere guerriere che si rifugiavano presso il palazzo dei regnanti nemici: un enorme cane che fuggiva alla vista di un cane più grande. Sarebbe andato a casa del padrone per salvarsi ed il padrone, da bravo, avrebbe risolto la situazione come meglio sarebbe stato per il suo cucciolo. Mai e poi mai avrei lasciato delle bestie così scorrazzare nel mio giardino, lo avrei riferito al lor governo e preso il padrone ci avrei creato un dolce blu per le belle colline… O forse lo avrei lasciato vagare per le stesse lande, come un punto impazzito sul foglio. Invero all’animo brutale che avevo dispiaceva in parte quella fine prescelta. Più avvicinavo le membra alla lontana figura del palazzo e più malauguratamente la mia vendetta cambiava la propria conformazione. Quale sorte sarebbe infine toccata non era però fonte di interesse, a meno che non fosse stata non tragica ma giusta. Non stetti ad interrogarmi sul perché ciò sarebbe potuto accadere, ma lo scattante impeto di debolezza mi suggeriva di avanzare e vedere come fa il fante e come io, sempre soldato, avrei dovuto fare.

 

Nel cammino mi ritrovavo costantemente accerchiato da corpi in attesa di putrefarsi. L’odore nauseabondo di chi già aveva iniziato il proprio naturale cammino sospinto da qualche reazione magica era accompagnato da sciami di insetti in procinto di posarsi sulla carne. Dietro e davanti a me non vedevo altro, né vi erano miseri uomini scappanti né vani esseri che tentavano di abbattermi. Ero solo, attorno a me morte ed odio. Mi fermai su una collinetta ammirando il palazzo: chi vi dimorava mi aveva reso più solo di quanto non lo fossi stato in quel momento. A volte ne soffrivo, a volte fingevo di dimenticarmene, ma in generale credevo che farlo fosse sciocco: Nohr ed Hoshido erano in guerra e mai i regnanti delle case s’erano stretti la mano, ma sempre le famiglie di chi in quei regni vi abitava avevano sofferto. Io non sarei stato né il primo né l’ultimo, perché, sciocco, me ne tormentavo? Dopo attimi di sbandamento finivo per rinnegar tutto quanto, come se nulla fosse stato. Anche i due regni avrebbero fatto bene a fare come se nulla fosse mai stato tra essi, ma gli uomini, pensavo, sono ambiziosi; essi non dimenticano mai e se possono raggiungere il proprio scopo con cospicuo distacco dai possibili nemici non esitano. Io stesso mai lo avrei fatto, esitare non era per me. Evidentemente non lo era nemmeno per quelli che, preoccupati del regno, si scordarono dei torti subiti e ne andarono a cercarne altri, sia per tenere a bada le tensioni, sia per generarle. La guerra tra Hoshido e Nohr, invero, era scoppiata per un motivo futile. I primi avevano desistito in passato, ma scoperte le ambizioni dei secondi iniziarono a provocare e quelli, bellicosi, non si fecero ripetere due volte dal messaggero quanto dichiarato. A me ne importava relativamente poco, sebbene in virtù del mio status ne avrebbe dovuto. Pensavo tutt’al più al mio paese, come se fossi un automa. Non avevo grandi desideri, se non quello di continuare a servirlo, a dimostrarmi degno di farlo. L’unica cosa che mi rendeva uomo era forse la consapevolezza di cosa stessi facendo, non tanto del motivo per cui lo stavo facendo. Come poteva un uomo stare a domandarsi il perché dell’avere salva la vita?

Qualcuno me ne avrebbe fatto una colpa, qualche chierico o chi per lui m’avrebbe rimproverato con un sermone che al solo pensiero della lunga predica chiunque avrebbe spontaneamente scelto la “retta” via, ma in quel mondo triste di gente come me ce n’era a bizzeffe, a partire da tutti quei morti là che, se avessero voluto, sarebbero potuti andare a “chiacchierare” col sovrano cessando ogni ostilità. Io altri non ero che una macchietta, tutti lo eravamo, ma in fin dei conti anche le macchiette, per sfortuna di quei grandi portatori d’ideali, potevano cambiare il corso della storia e quei regni là, quello bellicoso e quello alquanto indeciso, non erano che una semplice testimonianza della cosa.

Io, automa o macchietta che fosse, avrei perseguito quel pensiero a me così caro.

 

- Ho una famiglia…

- Se parlerai giuro su me stesso e sulla mia patria che vivrai.

A terra vi era un soldato con la gamba a tratti mozzata da un colpo di scure. Il viso sporco e madido di sudore sguazzava tra l’erba impregnata del sangue di un commilitone morto lì accanto. Mi ripugnava stare vicino ad un uomo illuso di potere ancora vivere. Qualcuno avrebbe apprezzato il suo ottimismo, il suo affetto per quella figlioletta che continuava ad invocare, ma credevo in tutta franchezza di avere d’innanzi un fantasma che pur di non accettare il proprio destino rivangava la sua vita passata. Erano sussurri quelli che egli emetteva dalla bocca, mi parve di sentire alcuni nomi ma la repulsione per quello spettacolo presto me li scacciò via dalla testa. Invero nell’attesa che mi rispondesse ne ero curioso; era una curiosità dettata dal mero bisogno che ogni guerriero aveva di sapere come comportarsi o no di fronte alla morte che presto sarebbe potuta giungere in quei campi. Assieme ad essa si faceva strada anche la più comune rabbia e la virtuosa indifferenza di chi voleva certamente togliersi quel curioso peso ma che prima avrebbe preferito sapere l’informazione per l’agire. In guerra, pensavo, si doveva prima agire poi pensare da fermi e pensare e dopo agire nel combattimento. Anche quello era un fatto curioso, ma ormai per quanto insegnatomi dagli antichi famigli lo assumevo più ad un dogma.

Stanco di rimuginare decisi di levarmi l’elmo. L’uomo sgranò gli occhi imbevuti di lacrime: - Siete dunque voi..?

- Mesta causa di guerra – comunicai. – Desideri dunque parlarmi per il bene patrio?

- Con chi combattete?

- Con chi pensi che combatta se ti ho promesso che ti avrei lasciato vivo? – vidi al suon di queste parole gli occhi del moribondo brillare. Mi dispiaceva vederlo ridestarsi nell’animo per una cosa simile, ancora convinto che avrebbe potuto rivedere la figlia o chi per lui così messo. Era ironico vedere come un uomo potesse uscire fuori di senno pur di salvare la propria triste pelle… Anche io ero così, che ripugnanza…

- Avete ragione… - la voce del soldato si fece più bassa, rotta – Io vi capisco, volete tornare alla vostra vera casa, non quella falsa che vi pretende convinta di averne diritti – tossì sputando un rivolo di sangue. Non potevo che restare a sentire, sebbene i lunghi discorsi non mi fossero mai piaciuti. – Al palazzo sono speranzosi, vi chiedono, sapete..? Non potranno mai uccidervi dopo tutti questi morti.

Annuii levandomi in piedi aiutato dall’asta della lancia. L’uomo aveva sentenziato: non avrei avuto nulla da temere e mai lo avrei avuto da quello, che ancora sorrideva. “Misero” era l’unico pensiero che potesse giungermi al cervello. Gli uomini che hanno paura, quelli che sperano allo stesso modo del soldato, mi avevano sempre insegnato che non mentono, poiché per l’egoistica natura degli stessi nessuno avrebbe mai barattato la propria vita se solo avesse avuto la possibilità di salvarsi. “Uomini forti”, mi tornavano alla mente le parole dettomi, “sono rari e puoi star certo che su cento di questi novantanove lo sono per gli ideali. Tutti quelli che combattono hanno paura di morire, ecco perché lo fanno”. Non stetti a pensare ad altro, non volli chiedermi cosa avrei fatto io perché non ne avrei avuto bisogno. Diedi un ultimo sguardo al soldato: era sospeso tra speranza ed agonia, gli occhi lucidi come la parte anteriore dell’elmo che non aveva ancora toccato sangue. In essa potevo rispecchiarmi e mi vidi: l’armatura biancastra ormai viscida di sangue altrui, i capelli color platino che, incollati alla fronte, maldestramente tentavano con dei ciuffi di celare l’espressione apatica, ormai scomparente sotto l’elmo cha stavo rimettendo al suo posto.

Incominciai a camminare vedendo riflessa sul mio acciaio la sagoma in fiamme del soldato morente.

 

Vidi una lancia puntata al petto, pronta a emergere dall’oscuro fondo del cuore viscida di pece rossastra. Negli occhi di colui che mi opprimeva potevo scorgere rammarico e dolore, non tanto per il fine destinatomi quanto per quello che mi sarebbe mancato, dal momento che nell’attimo prima del grande affondo arrivò a lui la mia salvezza. Il cuore non mi pulsò mai come nel frangente descritto. Non ero realmente scosso, ma per la rabbia di venire salvato per una verità che né io, né nessuno dei miei aspiranti carnefici avrebbe mai voluto, dovevo apparire tale e questo di certo contribuì alla mia situazione.

Se mi avessero saputo lì inerme i generali non mi avrebbe fatto uccidere a quel modo che rischiavo poc’anzi, avrebbero loro preso la mia lancia e, conficcatomi la stessa nel petto, trionfalmente avrebbero esultato. Decisi dunque di abbandonare pure le ultime speranze che il mio cuore possedeva, non per un’altra ben più misera, ma per sfuggire al terrore di un dolore più grande, un terrore fisico a cui nessun uomo avrebbe mai voluto sottoporsi. Buttai l’arma a terra e con un movimento lento per non aizzare le bestie alzai le mani sedendomi.

Gli uomini attorno a me erano agitati, sentivo distintamente un brusio di “che fare?” attorno. Vi era chi, forte di avere un’arma in mano, cercava di non dare a vedere la propria ansia, ma anni di duro tutoraggio di guerrieri non potevano che illuminarmi, facendomi rimembrare il me stesso che similmente tremava dentro al cospetto di un mostro. Accanto a chi teneva all’interno la paura, c’erano uomini che non esitavano a girarsi dietro ad ogni rumore per il terrore di ritrovarsi dietro altri nemici. Provai anche questa sensazione un tempo ancora addietro, ma ormai ne possedevo solo briciole: la paura poteva essere esorcizzata, quelli, nell’attesa relativamente calma, avrebbero dovuto agire sulla stessa, agire e poi pensare. Io dal canto mio avevo agito ed ora mi trovavo lì, seduto come un animale a cui lo si comanda. Non era mio desiderio trovarmi in quello svantaggio, ma provavo più sofferenze per quelli.

Aspettai che fosse presa una decisione. Non seppi esattamente quanto tempo passò tra il me sui colli e quello lì per terra, ma dovette essere considerevole sicché sentii che un messaggero di ritorno portava notizie su di me: “L’assedio è stato interrotto per l’incolumità del prigioniero. Se non avranno a breve risposte riprenderanno ad attaccare, prigioniero o no”. Non mi dispiaceva che l’assedio fosse ripreso, questa mia prigionia doveva essere un incentivo e di certo lo sarebbe stato, almeno per me. Sorrisi senza darlo a vedere. Non ero un tipo solito a gioire per cose futili, ma quella mi parve una notizia particolarmente lieta, più della vittoria dell’esercito sul nemico, poiché questo sarebbe stato un fatto puramente mio e niente sarebbe stato più soddisfacente. Tutti i gradi dell’esercito non avrebbero apprezzato, d’altronde nessuno voleva combattere per una persona che al pericolo andava in contro, ma sapevo per certo che uno solo di essi lo avrebbe fatto, me escluso: un’azione se giusta va fatta e nessuna azione più giusta di quella mi sopraggiunse, poiché nessuna con una simile pretesa avrebbe potuto aver ragione del possesso di qualcuno, specialmente se quel possesso implicava l’umiliazione di un intero popolo… Io lo credevo, avrei vinto gli altri e lo avrei fatto con piacere.

Se io traevo un sentimento positivo dalla novella corrisposta, lo stesso non poteva dirsi dei miei carcerieri i quali passarono da agitati a statue in attesa di ordini da chi di certo avrebbe potuto illuderli di un conforto. Seduto a terra l’essere prigioniero non era poi cosa sgradevole.

- Voi… Tu… Insomma, alzati – ordinò un ufficiale. – Finirai in prigione in attesa del da farsi. Per tua informazione, ti è stato chiesto di meditare accuratamente, sia che tu sia realmente pentito che non lo sia.

Io non dissi nulla, mi limitai ad alzarmi ed a seguire le punte di lancia che accompagnavano l’andatura dei soldati. Ero stato diverse volte in prigione prima d’allora, non era un problema e non lo sarebbe stato sentire i lugubri lamenti degli altri prigionieri: sentito il lamento di un innocente tutti apparivano vuoti, quasi accompagnamento svuotato da ogni suo dolore, ogni sua sofferenza, passione , speranza. Erano come la pioggia fitta: rumorosa, violenta, ma nient’altro che pioggia, niente che realmente potesse colpirti.

Scese le scale venni condotto per il lungo corridoio ammuffito collegato alle celle, piccoli spazi angusti probabilmente residuo di una costruzione precedente. Come prevedibile fui spogliato dell’armatura, tuttavia mi venne concessa una cella in condizioni migliori rispetto alle altre. Non me ne importava poi molto di dove stavo, non mi importava di niente in realtà, mai avrei badato troppo ad un luogo simile, momentaneo per giunta. Mi adagiai al muro in attesa che quel “da farsi” venisse da me.

 

Parte seconda: Dentro

 

Ero paziente, contavo le crepe sul muro e le macchie di muffa sul soffitto. Ogni tanto erano intervallate da qualche schizzo rossastro. Mi chiedevo come avesse fatto del sangue ad arrivare fin là su, ma ripensando a come si trattavano le persone in battaglia non stetti a crucciarmici troppo. Avevo visto persone che, per la paura che l’avversario si rialzasse, si accanivano sul corpo già martoriato del morto. Io ero sempre stato restio a simili atti, l’orrore al massimo lo tenevo dentro: non sarebbe stato né il primo né l’ultimo corpo che avrei visto esanime al suolo, prima mi sarei abituato e meglio sarebbe stato, sia per me che per chi a terra sarebbe giaciuto. Appoggiai la testa al muro, guardando fisso tra le sbarre: di fronte a me c’era un uomo dall’aria annoiata, quasi frustrata. Non pareva essere rassegnato, ricordava più uno di quelli a cui veniva fatto un torto che i lamentosi lì accanto. A dire il vero, non era nemmeno nelle stesse pietose condizioni in cui versavano gli altri prigionieri, segno che non doveva essere lì da molto.

- Hai qualcosa da chiedermi? – sussurrò dall’altra parte del corridoio.

- Non sono interessato a te.

- Per quale motivi mi fissi, allora? – me ne stetti zitto. Non era mia intenzione parlargli, se lo avevo osservato era semplicemente perché alla lunga le macchie stufavano.

- Non c’è molto da fare qui.

- Meglio qui che su – disse, avvicinandosi alle sbarre. Adesso che potevo vederlo meglio, aveva sulla camicia il simbolo della famiglia reale. – Sapete, è ironico che siate

 qui dopo quanto accaduto. Non mi stupisce che facciate l’esatto opposto di quel che affermate.

- Cosa vai predicando? – l’uomo indicò con un cenno della testa la parte del corridoio che portava alle scale. Non capivo esattamente dove volesse arrivare, ma, per quanto poco mi importasse delle parole di qualcuno che probabilmente mai avrei rivisto, stetti ugualmente a sentirlo per passare il tempo.

- Io ero un consigliere, il mio posto era là su prima che il nemico giungesse qui. Il motivo per cui adesso mi trovo alle stesse condizioni di un banale criminale è che pensavo che dovessimo lasciar perdere voi e la vostra stirpe. A conti fatti credo di aver avuto ragione, se voi ora siete qui dopo un così cruento susseguirsi di giornate. Vi siete forse pentito? Siete solo soletto.

- Non sono soletto, o, meglio, non lo ero. Viaggiavo con un plotone irregolare, parteggiavo per la mia casa. Se sono qui è perché nel clamore della battaglia mi sono allontanato da loro.

- Truppe senza vessillo ma con un preciso fine, dunque – disse. Io annuii. – Ebbene, ciò non risponde alla mia domanda però: perché siete qui? Siete stato catturato o siete venuto di vostra spontanea volontà? L’unica cosa di cui sono certo è che non potrete venire giustiziato come qualunque prigioniero comune, ma ciò non mi aiuta a decifrare la situazione.

- Perché vorresti saperlo? – gli chiesi. Quello si lasciò scappare una risata. A giudicare dalle movenze che l’avevano accompagnata non doveva essere effetto di una qualche soddisfazione, probabilmente, pensai, era dettata dall’evolversi dei fatti e dalla mesta condizione a cui era stato sottoposto. Mi faceva pena vedere un uomo ridursi così, tentando senza successo di contenere la propria delusione. Non vi era nulla di male nell’esprimere il proprio disappunto, ma trovavo ridicolo volersi aggrappare all’apparenza per cercare di intimidire qualcuno… Avrei visto il misfatto sotto una luce migliore se fosse stato volto a fini più sublimi, ma da un vecchio consigliere che pareva voler addossare a tutti la colpa della propria decadenza non riuscivo a trarre nulla di buono. Mi chiesi se mai potesse comprendere, o se solo avesse sfiorato l’idea, che, per quanto siano cosa riprovevole in certi casi, le persone nutrono sentimenti forti per coloro a cui sono legate. Non necessariamente tali debbono essere “giusti”, come verrebbero dai più definiti, ma anche l’odio o la semplice curiosità, se assumile a tale sfera, sono direttive non empie affinché un uomo o chi per lui possa agire non curandosi del parere di un vecchio. Io, in un certo senso, aborrivo quel mio stesso pensiero, ma non potevo nasconderne di esserne succube proprio in virtù di quella debolezza che, infima, mi aveva spinto là per realizzarmi senza aiuto né di una parte né dell’altra. Ero confuso ed arrabbiato per quella mia condizione, mi sarebbe piaciuto reagire ma qualcosa teneva la mia mente più ancorata di quelle gambe che non sarebbero potute fuggire dalla prigione.

- Rimango pur sempre un consigliere, sebbene qui dentro. Voi siete strano, se mi dite che vi siete pentito non so se riuscirò a credervi… Una pretesto per questa conquista lo si ha avuto, è strano che siate qui, se è vero che siamo in guerra per quello non potete proprio esserci, no.

- Non ha senso che tu lo sappia allora – lo informai tagliando il discorso. Alzai gli occhi al soffitto, tornando a contare le macchie di muffa. Il consigliere continuava a parlare, ma il mio interesse verso la conversazione si era esaurito. Non era nei miei progetti aspettare il grande verdetto in compagnia di una spina così fastidiosa. Mi chiesi perché non fosse passata una guardia a prenderlo con sé per interrogarlo, asfissiarlo ed infine lasciarlo su una seggiola in attesa di una fossa. Così si doveva fare con prigionieri simili: era viscido ed a giudicar dalle parole che continuava ad emettere ad oltranza non pensava ad altro che a rimarcare le proprie posizioni, sicuro di essere nel giusto. Mi faceva schifo. Esageravo, forse? Pensai di sì, ma non era un mio problema la sua sorte e, se stava lì, non era colpa mia. Poteva anche esserlo nei suoi pensieri, poteva anche aver ragione nella sua malandata testa, ma anche di questa cosa non me ne importava. Iniziai a chiedermi cosa realmente mi importasse in quel momento, a parte sperare che qualcuno lo portasse via… Già, sperare. Non era un qualcosa che mi si addicesse, ma in quel momento la trovai una cosa accettabile in virtù del fatto che mi parve più un mezzo desiderio. Non volevo realmente il bene di qualcosa o di qualcuno, nemmeno il mio poiché prima o poi il vecchio sarebbe tornato al freddo muro, ma volevo semplicemente un qualcosa. Mi sarebbe piaciuto alzarmi ed ottenerlo personalmente, prenderlo e brutalmente sbatterlo al muro così come ebbi una volta fatto con un bambino con cui litigai. Non era bello, non era accettabile, anche io lo pensavo, ma quella pulsione malvagia occupava per bene il mio tempo, perciò era ben accolta: prenderlo, sbatterlo lì sul muro e fargli capire cosa non mi piacesse. Il bambino infatti, mi ritornò alla mente, non mi infastidì più. Nessuno mi disse nulla per quel fatto, Re Garon ne fu persino compiaciuto… Ebbi di certo un’educazione che con gli Hoshido non avrei mai avuto. In realtà non me ne dispiacevo, probabilmente se le cose fossero andate diversamente a quest’ora sarei già sepolto accanto al soldato o forse sarei tremante come un coniglio come le guardie del piano superiore.

“A quanto pare non tutto il male viene per nuocere.”

 

Correvo, correvo, correvo… Una luce, l’alba… Dietro di me c’era qualcuno, poi ad un tratto non lo vidi più. Sentii un rumore, una tromba o forse un grido. Mi girai ed avanzai, mi ritrovai al cospetto del Re. Ero sporco, macchiato di sangue. In una mano avevo la lancia, nell’altra tenevo per un lembo di stoffa un uomo. Mi giunse alle orecchie un sibilo, no, dovevano essere parole… Meccanicamente il braccio si sollevò e la punta dell’arma penetrò le carni dell’uomo. Una figura mi venne incontro. Gettai un occhio al sangue zampillante, tornai a fissare dinnanzi a me ma vidi il nulla.

Mi svegliai. Rimasi impietrito per qualche secondo, poi presi a respirare con calma. La muffa della prigione non doveva giovarmi, avevo rimosso da tempo quel ricordo e mai sarebbe potuto tornarmi alla mente. Mi appoggiai alla parete, guardandomi attorno: per quel poco che si vedeva mi pareva che tutti dormissero. Evidentemente erano abituati a quelle esalazioni, sì, necessariamente doveva essere così. Mi massaggiai le tempie con fare pensiero, ero un po’ scosso… Lo trovavo ironico, sicché non lo fui in quel sogno, tale e quale all’evento per cui ebbi incubi per tanti anni. Mi venne da sorridere, cos’altro potevo fare? Il ricordo di un assassinio non mi turbava, il sognarlo sì. Mi chiesi se avessi paura di ritornare a quei traumatici giorni insonni… Doveva essere quello il problema, ma non ne fui convinto perché, ahimè, quell’atto così poco gentile fu necessario affinché potessi rimanere a casa senza alcun ripensamento da parte di Re Garon, poco fiducioso in me dopo che in precedenza mi rifiutai di uccidere un prigioniero come quello là. Non mi soffermai molto sul perché mi fosse tornato in mente quell’episodio, ma la cosa mi fece ripensare alla mia famiglia ed in particolar modo al crudele sovrano.

Re Garon non era un uomo accomodante ed era severo con i suoi figli, ma sotto il suo regime di terrore andavamo tutti d’accordo ed a me stava bene, poiché dopo anni conclusi che se avessi imparato a stare a quelle regole niente mi avrebbe ostacolato, eccetto Re Garon, ovviamente. In ogni caso, nessuno gli si sarebbe opposto, era troppo crudele e nel regno c’era un clima malevolo che poteva essere percepito a partire dal Castello di Krakenburg, nostra dimora. Ogni tanto confidavo a Xander i miei dubbi sul sovrano, ma, ligio al dovere, benevolente mi rispondeva che tutto ciò che egli faceva lo faceva per la gloria di Nohr, anche trattarci male. Non ero mai stato convinto dalla sua spiegazione, ma finì per ripetermela così spesso che quando, seguendo i brutali insegnamenti datimi, riuscii a salvarmi da una brutta situazione la diedi per verità certa. Camilla, al contrario, disprezzava il comportamento del padre. Ella teneva molto a noi e quando le confessai che forse si preoccupava troppo della questione si infuriò. Non le diedi peso e la rabbia finì per esaurirsi nel giro di poco tempo, forse per via dell’ambiente in cui versavamo.

Ricordavo ancora bene il maledetto giorno in cui la crudeltà si spinse oltre il limite: Re Garon mi aveva chiamato, mi aspettava nelle prigioni davanti al prigioniero. “Uccidilo” mi disse, ma io non ce la feci. Sdegnato il re agì per conto proprio e vidi il corpo esanime del pover’uomo cadermi ai piedi, dietro di me Garon furioso. Avevo paura, pensavo che sarei finito alla stesso modo, ma fui semplicemente mandato via dalla capitale per qualche tempo. L’ira del malefico padre non mi permise di tornare finché, ne conservo ricordi vaghi, un giorno in un duello riuscii a battere Xander, il che mi valse il perdono del Re. Non sapevo perché combattemmo, non ricordavo come vinsi e se Garon fosse o no lì presente, sapevo solo che da quel giorno tornai a casa e non provai più a disobbedire: avevo paura che la prossima volta l’esilio non sarebbe bastato. Iniziai a combattere con i soldati, appresi qualche blanda magia dai libri di Leo, uccisi il prigioniero ed imparai a tenere a bada la paura. Pian piano dovetti cambiare, perché anche gli atteggiamenti dei miei fratelli verso di me subirono un mutamento: non mi evitavano, non mi odiavano, continuavano ad essere gli stessi apparentemente, eppure notavo un distacco maggiore, specialmente nell’ambito di questioni ufficiali. Mi sforzai di comprenderne il motivo, ma non vi riuscii finché non fu esso stesso a cercarmi. Dapprima ne fui incredulo, reagii freddamente pensando si trattasse di uno scherzo. A darmi la conferma che no, quella non era finzione, fu proprio l’odiato ed amato sovrano: “Non fai parte di Nohr. Tu sei membro degli Hoshido e ti trovi qui perché fummo noi a rapirti.”

Lo guardai negli occhi. Anch’egli mi guardò, ma non ne ebbi paura e non mi piegai al peso di quei massi: restammo così per qualche secondo, immobili mentre Xander, Camilla e gli altri ci guardavano a loro volta. C’era molto tensione nell’aria, nessuno osava fare un fiato. Credetti che saremmo rimasti così finché il Re non avesse ordinato di allontanarmi, ma fu lui a girarsi. Ricordavo distintamente che si girò affermando “Se vuoi essere un nohriano, fa sì che il nostro regno possa attaccare Hoshido”, poi se ne andò. I fratelli, o quel che sempre avevo visto come tali, restarono nella stanza, ma non proferirono parola. A rompere il silenzio fu un membro della servitù che entrando a capo chino ci informò che la cena era pronta.

 

- Tornerai?

- Non lo so. Come potrei?

Il vecchio non c’era, era stato trasferito altrove un paio di giorni prima. Avevo attorno a me un cuscinetto di celle vuote, l’unica persona che potevo vedere era quella con cui stavo parlando. Mi stava di fronte, ma dall’altra parte delle sbarre. Non osava attraversare il confine che ci separava, ma mi parlava come se nulla fosse. Non lo sopportavo, ma anch’io sarei stato capace di fare altrimenti.

- Manchi ai tuoi fratelli, sia che tu ti senta o no uno di noi. Non vogliamo costringerti a prendere una decisione, né tantomeno mi fa piacere che tu sia qui, ma quello che sta succedendo fuori… Torna a casa, in questa casa.

C’era un che di tragico nelle sue parole. Non mi aspettavo che fosse realmente commossa, ma ne ero turbato. Non era mia intenzione comunicarle il motivo per cui ero lì e non lo avrei fatto a meno che non ne fossi stato costretto, soprattutto poiché nel petto il motore stava per implodere e la lucidità dell’organismo sarebbe stata compromessa. Mi avvicinai alle sbarre, scuotendo la testa. No, non potevo e non potevo volerlo. Avevo un compito che mi ero dato, come potevo trascurarlo? E gli altri come avrebbero reagito se lo avessi fatto? Tra lo spezzare il cuore ad un estraneo ed ad una persona cara, era chiaro, chiunque avrebbe optato per la strada simpatetica ed io, in virtù di guerriero, men che meno avrei potuto sfidare e vincere quell’avversario lontano da urla e sangue. Ci avrei provato, non lo avrei sconfitto. Serviva qualcosa simile ad un miracolo.

- Gli manco?

- Certo. Non puoi prescindere da questi legami.

- A te manco? – tacque. Mi guardò con un’espressione mesta in volto, simile a chi si avviava consapevole che l’ultima meta sarebbe stata il patibolo. In quel momento non potevo che disprezzarla: non riuscivo a capire se quel silenzio fosse segno positivo o meno, quelle sbarre che ci tenevano distanti non potevano fare intendere cose buone… Se ella pensava che fossero niente e così mi parlava solo la morte le sarebbe sta giusta compagna. Non volevo essere preso in giro, non ne avevo bisogno dopo aver vissuto una vita che non mi apparteneva per tanti anni.

- Non puoi chiedermelo… Non puoi non mancarmi. Il nostro rapporto non è stato buono, ma non credere che io non soffra per cosa ti è successo – disse. Anche io soffrivo, vedendola lì dall’altra parte. Non sapevo cosa dirle, non volevo parlarle.

- Ed i nemici? Cosa ne penseranno? Sono stato là fuori, so cosa sta succedendo.

- Non lo so. Al momento aspettano per te, ma non penso che si fermeranno anche se sarai tu a chiederglielo – mi informò. Se non si fossero fermati tanto meglio, non ero un vile oggetto da tenere solo per il comodo del regno, già avevo vissuto e combattuto un tragico inizio. Non so cosa ne pensasse a riguardo la mia interlocutrice, ma non volli congelare del tutto la conversazione:  - Voi? Io non credo vogliate continuare una guerra ormai persa. Se io potessi tornare di là ed i combattimenti si arrestassero di conseguenza, mi lascereste?

- Non so nemmeno questo. Io non voglio lasciarti, nessuno di noi lo vuole in realtà, ma non possiamo non dare ascolto al resto del popolo. Quanti avranno lasciato una famiglia? Vorrei che fosse un qualcosa di irrilevante, ma non può esserlo ed è giusto che non lo sia. Se avremo pressioni cesseremo, ma sappi che non lo speriamo.

- Dunque mi stai dicendo che se non deciderò per conto mio sarete voi a farlo?

- No, non è questo ciò che ho detto.

- Cosa volete da me allora?

- Non siamo noi ad averti portato qui: tu cosa vorresti? – la vidi girarsi. – Purtroppo devo andare, ma vorrei che io, te ed i tuoi fratelli tornassimo finalmente uniti. Cercherò di ritornare il prima possibile, te lo prometto – disse avviandosi verso le scale. Io mi allontanai dalle sbarre e mi ributtai a peso morto a terra, appoggiato all’umido muro della cella. Se ne era andata. Se ne era andata troppo presto e non ero riuscito ad avvicinarmi a lei, nemmeno con una risposta che non avrebbe apprezzato. Diedi istintivamente la colpa alla lontananza portata dalle sbarre, desiderai tanto che anch’esse fossero portate via chissà dove come il cancelliere… Poi sarei uscito ed andato da lei?

“Tu cosa vorresti?” mi avrebbe richiesto, ma io non lo sapevo, avevo un obiettivo ma non sapevo risponderle… A dir la verità anche quello stesso obiettivo, ben pensandoci, mi appariva da correggere. Cosa mi aveva spinto là? Sangue? Sofferenza? Idee di rivalsa? Quel che riuscivo a pensare era questo: “se la guerra continua è perché non hai trovato la tua strada, torna a cercare”. Nel cortiletto, là sulle colline, i corpi a terra c’erano ancora, lo stesso per quelli animati che si punzecchiavano con spade e scintille; la guerra non era finita, per quello ero lì. Forse sarei andato da lei e glielo avrei comunicato.

“Cosa ti ha spinto a dirigermi proprio qui, però?” avrebbe quindi domandato. Di nuovo mi passarono per la mente il sangue, la sofferenza, le idee di rivalsa e tutto ciò che Re Garon era riuscito ad insegnarmi… Sempre gli stessi pensieri, sempre lo stesso obiettivo! Ma cos’era quindi? Lo vidi di nuovo sbiadito come qualche attimo addietro, poi non lo vidi più: bianco, vedevo tutto bianco! Com’era possibile?

“ E questo obiettivo, cos’è dunque?” sarebbe stata la domanda seguente. Come potevo risponderle se anche io non lo vedevo più? Nohr? Hoshido? Se le due famiglie si guerreggiavano ed io ne ero dentro necessariamente doveva avere a che fare con loro, altrimenti perché mai sarei dovuto andare lì, in quella reale fortezza? Mi parve quindi di ricordare: il mio obiettivo non aveva a che fare con entrambe, ma con una sola di esse.

“ Quale era la famiglia prescelta della tua missione?” avrebbe istintivamente chiesto. Questo lo sapevo, credevo di saperlo. Ammesso e non concesso che quello fosse il mio scopo, proprio quello che mi balenò in mente allora, capii. Vi era da scoprire se realmente avessi in mente quello, però: io non ero, mai nessuno non lo aveva riconosciuto, un tipo difficile nel decidersi. Gli unici pensieri a cui ero andato in contro fino a qualche tempo fa, in virtù dei cari insegnamenti che mi erano stati dati, erano sulla traiettoria del lancio di una lancia o sulla formula di un qualche incantesimo, pensieri a cui sarebbero seguiti atti violenti e non necessari se non nel corso di uno scontro. Evidentemente, mi dissi, pensare mi faceva male. Mi faceva talmente male che nel giro di qualche giorno in quella prigione iniziai a vacillare, sconfitto dalle troppe parole che mi assalivano come maligno passatempo.

Sicché nessuno venne a reclamare le mie spoglie stanche, né da una parte né dall’altra, mi diedi per uomo in procinto di morire, uomo che aveva fallito e che non ebbe saputo agire al meglio. Ora, da fermo, consumato il mio primo agire – ed avendolo mal fatto – non mi restava proprio che quel pensare ed esso, me misero, contemplava paranoie come quella lì che da ore mi opprimeva: “nessuno viene, a nessuno servo, son venuto per esser vinto”. Io, forse troppo indaffarato a rimuginare che a consolarmi del fatto che il mio piano andasse, che uno spiraglio ferreo si aprì dinnanzi a me e che, sconvolti per guerra e per fatto, non potessero intervenire, lentamente mi accorsi come tristemente feci poco fa di stare perdendo il lume. Quel che poco giovava al mio dissipato spirito plasmato a ferro e fuoco, più del non poter fare, era la consapevolezza in quei dì accresciuta che, in quanto non-Nohr, non aveva senso comportarmi come un Nohr, come il crudele Garon voleva che fossi e, se non lo aveva, meno senso aveva avuto essere stato lì a combattere ed in seguito lì a camminare per bussare all’addolorato portone di casa… Cos’ero dunque? Nohr od Hoshido?

Il me dubbioso, atto ad interrogarsi giulivo del proprio bene o forse del proprio dolore, mal concepiva l’esser nato in un certo luogo da certe persone salvo poi vivere e crescere amandone altre. Probabilmente chiunque l’avrebbe pensata alla stessa maniera, ma, quel chiunque, probabilmente sarebbe anche andato avanti divenendo ciò che più si sentiva di essere. Ebbene, io mi sentivo Nohr come ogni bimbo si sarebbe sentito nella mia stessa situazione, ma non volevo stare accanto a quelli consapevole che la mia terra d’origine facesse del male ai miei nuovi parenti e che questi rispondessero loro nuovamente con del male, come quello che aveva portato a strappare me infante dalla culla natia. Invero io li odiavo per quel misfatto, li odiavo con tutto me stesso, ma dovevo ammettere di odiare pure gli Hoshido poiché essi mai erano tornati verso di me se non lasciando alla guerra le nostre interazioni. E come la guerra le possedeva, essa possedeva anche me, dilaniato tra due scelte che io, stolto, m’ero autoimposto nella prigione.

 

Parte terza – Tra dentro e fuori

 

“Dentro o fuori?”

Riuscivo a chiedermi solamente questo guardando la porta della cella, aperta. Dall’altra parte c’erano i soldati: mi chiamavano, mi incitavano. Soldati nemici o no? Aveva importanza? Me ne stavo appoggiato al muro e li guardavo, ma non proferivo parola. Al posto mio, i prigionieri imploravano di essere liberati. Qualcuno fu orribilmente trucidato dopo avere apostrofato i soldati con parole poco consone, altri furono lasciati a marcire negli angolini bui dopo che, supplicanti ma non ascoltati, si coprirono di vergogna agli occhi dei soldati. L’unico che da lì poteva uscire ero io, l’unico che non si muoveva e non fiatava.

Non sapevo quanto tempo fosse passato da quando ero entrato, non sapevo più nemmeno perché ero entrato. Doveva essere passata circa una settima a giudicare dal numero dei “pasti” serviti e dal poco piacevole odore in cui ero immerso. In quella settimana avevo meditato, troppo, ormai non avevo più nemmeno la consapevolezza di cosa stessi facendo, quella stessa compagna che mi spinse fin dov’ero adesso. Ero diventato un qualcosa di più basso dell’automa e della macchietta: non esistevo più, non sapevo più chi ero, Nohr od Hoshido, cos’ero, guerriero o pensatore. Mi ero annullato da solo, la consapevolezza mi era stata portata via dalle mie azioni avventate, paradossalmente mi ero ammattito pensando ma se avessi pensato meglio prima di entrare lì non sarei diventato parte della muffa della parete. Mi chiedevo se i soldati sapessero cosa stessero facendo, dapprima credevo fossimo uguali, ma vedendo me e vedendo loro non ne ero più sicuro. Non necessariamente io, così messo, dovevo essere peggio di quelli, in un certo qual modo stavo acquisendo una consapevolezza “nuova”, ma non dovevo apparire un granché ai loro occhi.

Quel *censura* di Garon mi avrebbe trattato come i prigionieri che avevamo ammazzato se mi avesse visto e nemmeno avrei potuto biasimarlo poiché stavo ancora dietro le sbarre e non accennavo a muovermi. In quel momento lo odiai, lo odiai perché pensai che fu lui con le sue parole a portarmi lì, ma, se ci ero andato, evidentemente la colpa doveva essere pure mia. Mi maledissi, maledissi quel vecchiaccio e tutta Nohr, ma allo stesso tempo maledissi pure gli Hoshido che mai avevano osato contro di quelli lasciandomi lì. Servirono la cattiveria di un uomo e la loro paura a spingerli a denunciare il vecchio torto, ma ciò non fu comunque necessario poiché fui io ad arrampicarmi sulla rupe ad a varcare la soglia di Castello Shirasagi, non loro ad entrare a Krakenburg. Se avessero realmente voluto, se veramente si fossero sentiti obbligati, sarebbero potuti entrare. Cosa avrebbe dovuto fermarli?

- Qui, venite, il principe è qui!

- Attenzione, i soldati degli Hoshido potrebbero arrivare!

- No, sono occupati a difendere la regina!

- La Regina Mikoto sta combattendo!

La Regina Mikoto stava combattendo. Quella che venne a parlarmi dell’amore fraterno stava ora battendosi con quelli che io avevo sempre considerato miei parenti. A lei non interessava, non aveva nulla in comune con quelli se non il fatto di stare guerreggiando. Probabilmente, come ogni uomo, se si fosse trovata ad affrontare uno di loro e con quello la morte avrebbe preferito indirizzare questa a lui, non curandosi dei miei affetti. In ogni caso, ella stava combattendo ed io ancora non sapevo cosa mi aveva spinto lì. Aveva preso una decisione, io no, non ero riuscito a risponderle nemmeno nei colloqui seguenti. Se stava combattendo per il suo popolo, per la sua immagine non lo sapevo, ma lo stava facendo. I pacifici hoshidesi non si stavano arrendendo… Dunque cos’era che li aveva fermati? Mi disse che voleva di nuovo avermi accanto… Per quello e per tutto il resto stava mischiandosi tra gli uomini armati?

Sentii un brivido lungo la schiena e mi spaventai. Cos’era? Possibile? Temevo di illudermi pensando di sapere la risposta e, anzi, speravo di illudermi, ma, per questa volta, dovevo cedere e credere il giusto poiché probabilmente quella sarebbe stata: se non avevano attaccato era perché avevano paura di dove fossi. Formalmente, pensai, la guerra era scoppiata per un motivo ben preciso e se quello non sarebbe più stato allora le vite gettate sarebbero state inutili. Vi era una ragione di Stato, ma dentro me credevo che vi fosse anche un qualcosa di diverso: si erano fermati per me, ma per me mai avevano agito, era un passo in avanti, mi doleva riconoscerlo. E Nohr cosa ne pensava? Di certo anch’essi deridevano il pacifico regno di Hoshido, ma dovevano deridere anche me che ora stavo lì, sebbene la guerra si fosse prolungata anche per questo deriso. Mi ero macchiato di un brutto crimine: avevo aiutato Nohr da non-nohriano ed avevo fermato me stesso nella cella quando mi reputavo uno di quei bellicosi nemici; avevo tradito tutto quello che ero e potevo essere.

Necessariamente, pensai, doveva esserci un motivo a quel mio comportamento: non ero stupido, nessuno lo era, ero confuso. Non avrei mai potuto saperlo con certezza, ma nella mia mente in quel momento vi era una spiegazione: vivere tutta la propria vita in una certa maniera, avere paura di quella ma superarla ed infine venire a conoscenza di avere gioito e sofferto all’interno di una menzogna… Nessun uomo poteva sopportarlo. Hoshido si mosse tardi, ma Nohr mi tenne in un limbo triste! Io volevo bene ai miei fratelli, ma mi resi conto di odiare Garon ed il so regno. Non avrei mai più potuto guardarlo con rispetto, per lui ci sarebbe stato solo odio. Se mai fossi tornato, mai avrei potuto tornare di nuovo alla vecchia vita.

A fatica mi tirai su. Un soldato mi venne in contro aiutandomi. Mi scostai avviandomi verso la porta della cella.

- Signore, - chiese il soldato – perché non siete uscito? La porta era aperta…

Un altro paio di soldati mi si avvicinarono porgendomi una spada, poi anch’essi mi domandarono il perché non fossi uscito. Io guardai le sbarre, la vecchia cella ammuffita ed il punto cui mi ero appoggiato per una settimana. Scossi la testa e non gli dissi nulla, non era necessario che gli spiegassi. Mi voltai verso uno di loro e lo fissai dritto negli occhi come se volessi confessargli il segreto più nascosto. Un attimo dopo lo sentii emettere un suono strozzato mentre gli altri già erano a spade alzate contro di me.

 

Nel salone c’era un silenzio di tomba. Trascinavo il corpo di un soldato tra i due schieramenti increduli. L’armatura dell’uomo era pesante ed il sangue che colava non faceva altro che rendere il compito più arduo. I soldati, sia nohriani che hoshidesi, erano pronti a balzarsi addosso, sebbene in quel momento fossero immobili. I comandanti dell’uno e dell’altro schieramento erano molto attenti ai miei movimenti, probabilmente temevano per la Regina Mikoto: gli hosidesi avevano paura per la sua incolumità e i nohriani speravano di non farsi sfuggire una così importante prigioniera; in ogni caso ella stava dinnanzi a tutti i soldati degli Hoshido, pronta a combattere assieme a loro. Sentii una fitta allo stomaco per quella visione e per ciò che stavo facendo, ma non avevo scelta: o avrei parlato in quel momento o mai avrei potuto. Se non l’avessi fatto sarei morto e giammai sarei andato in contro a quella fine senza oppormi! Non ero morto con la mia fedele lancia in mano, non sarei morto trascinando il corpo di un uomo mero mezzo per la mia spiegazione. Prima di cominciare quel discorso così atteso diedi una fugace occhiata alle due parti: scorsi mio “fratello” Xander con Siegfried alla mano e, accanto alla Regina Mikoto, Ryoma. Egli era il mio fratellastro, ma di lui sapevo piuttosto poco. Mi sarebbe piaciuto fermarmi e chiedergli se anche la sua spada possedeva un nome, ma quello non era il momento.

Mi volsi verso i Nohr e dissi: - Questo è il corpo di un soldato nohriano.

Al pronunciare di quelle parole sentii dei sussurri levarsi dall’esercito interessato, ma furono presto sedati dalla voce di un comandante: - Silenzio! Lo hai ucciso tu? – chiese. Xander era rimasto in disparte, sembrava pensieroso. Mi chiesi se stesse rimuginando sulla punizione che suo padre mi avrebbe dato o se mi compatisse. Tutto sommato mi voleva bene.

- Sì – dissi. Il vocìo si intensificò alimentato dalle voci dell’altro schieramento. – Quest’uomo ed altri suoi compagni si sono intromessi in questioni che non li riguardavano, pertanto ho agito come meglio credevo.

- E quali sarebbero queste questioni? – chiese una comandante hoshidese, evidentemente agitato per l’incolumità della sua sovrana. Al suono di quella domanda emisi un lungo sospiro, poi gettai a terra l’arma.

- Io sono un traditore! – urlai. Sentii il peso degli sguardi su di me, se fossi stato uno di quei soldati comandati dalla paura sarei svenuto. Avrei voluto esternare il mio sdegno, avrei voluto tanto parlare di come, sebbene traditore, fossi colui che più di tutti era incorruttibile a simili sciocchezze in quella stanza, ma, anche questa volta, non era il momento.

Le armi dei soldati si protrassero in avanti. Sapevo che lo scontro doveva ripartire e quella confessione pareva essere la giusta spinta. Da una parte e dall’altra, sotto quegli sguardi duri, vi erano persone tese; non importava il loro grado od il loro status, tutti celavano sotto la coltre di ferro un animo agitato: sul volto della Regina Mikoto figurò un’espressione preoccupata, Ryoma stringeva convulsamente il pugno che non impugnava l’arma, Xander cercava di rimanere impassibile e tutti gli uomini al loro seguito si presentavano simili. Tra me e me sorrisi perché avevo lì di fronte due mondi opposti che adesso, alla vista di quello che doveva sembrargli un ragazzo distrutto, sembravano la stessa cosa quanto fossero simili le loro angosce.

- Chi hai tradito? – era stato Xander a parlare. Non riusciva a guardarmi, ogni tanto il suo sguardo fuggiva al cadavere. – Hai tradito Nohr? Per questo hai ucciso un nostro compagno?

- Non ha tradito nessuno – Ryoma. Non conoscevo la sua voce, ma nonostante la situazione apparve sicuro delle proprie parole. – Se lo ha fatto è perché ha deciso di ritornare a casa propria.

- Fa parlare il diretto interessato, Hoshido. Voi non sapete nulla.

In quel momento la tensione era tangibile, mi pareva di essere ritornavo al cospetto di Garon. Xander e Ryoma litigavano, la Regina Mikoto continuava a fissarmi ma non diceva nulla ed i comandanti non sapevano cosa fare, di conseguenza i soldati stavano sull’attenti in vista dello scontro non molto lontano. Io ero entrato lì con uno scopo che nel corso dei giorni era maturato, ma nessuno dei due sapeva cosa stavo pensando. In quel momento mi parvero quasi due sciocchi, ma non riuscii a mantenere a lungo quel sentimento giacché io stesso non seppi a lungo cosa andavo delirando. Fu dunque quello il momento in cui il mio discorso iniziò: - Non ho mai tradito nessuno, è vero – iniziai. Calò nuovamente il silenzio. – Non ho mai tradito nessuno perché quello ad essere stato tradito sono io: tradito dalla mia vera famiglia, tradito da quella che consideravo tale. Voi, - indicai gli Hoshido – non siete mai venuti a cercarmi. Voi, - mi volsi ora ai Nohr – mi avete rapito, fatto Nohr e liquidato. Siete entrambi due pessimi regni che non sanno tenersi stretti i loro cittadini. Io per quel che mi riguarda non ho nome, ma so come ho vissuto sotto i vostri – abbassai lo sguardo e vidi il pallido uomo a terra. Aveva la gola tagliata, gli occhi sbarrati. L’armatura per quanto imbevuta di sangue pareva adesso quella rossa degli hoshidesi. - Questo soldato morto, assieme agli altri suoi commilitoni, è stato ucciso da me materialmente, ma la colpa in sé dell’atto non è mia: quello che i nohriani chiamano “re” è un uomo che mi ha insegnato tanto, ma egli è anche un uomo crudele ed i suoi oscuri precetti hanno portato a questo. Forse l’uomo giacente ai miei piedi non desiderava la mia morte, né desiderava qualsiasi cosa avesse a che fare con me, ma io l’ho ucciso. Quell’atto è stato istintivo, chiunque segua il vostro pazzo sovrano non fa che morire o sopravvivere tanto a lungo da finire così.

Tacqui e camminai verso le fila degli Hoshido. Sentivo le armature dei soldati nohriani cozzare l’una contro l’altra, ma finché Xander, silente, non avesse dato loro un ordine essi non avrebbero potuto muoversi. Prima che si potesse fare altro rivolsi le mie parole alla Regina Mikoto: - Il vostro popolo non è da meno: avete aspettato, tergiversato, dunque avete permesso quel che ho raccontato. In questo non siete stati diversi da quel vecchio barbuto ed io non posso che disprezzare questo fatto – dissi per poi tornare accanto al corpo. Anche dall’altra parte si iniziò a sentire il crepitio del metallo. Se desideravano attaccare me avrebbero potuto farlo, ma io, da soldato, avrei continuato a combattere con le mie parole e così feci, noncurante dell’ira che avrebbe potuto manifestarsi nel cuore dei due: - Ma non è finita qui! Garon non era soddisfatto del suo livello di sadismo. Quale migliore sofferenza di quella provocata da una bugia detta a qualcuno che si fida di te? Ebbene, egli mi raccontò di quanto aveva fatto e di cosa voi, Hoshido, non avevate fatto. Mi disse che sarei potuto essere un nohriano solo se Nohr avesse potuto combattere con Hoshido. Dov’eravamo giunti?! Dopo avermi rapito mi aveva cacciato ed io ancora gli credevo, così come ancora tu gli credi, Xander! – lo vidi fremere, alzare l’arma da terra ed iniziare ad avanzare verso di me. Non voleva farmi del male, ma sapevo che avrebbe potuto farlo, non per il padre ma per Nohr. Continuai: - Io, in competizione costante con me stesso e con gli altri, pensai bene di venire qui e pensai anche di entrare nel castello per assassinare i miei stessi famigliari, - anche Ryoma si fece avanti, forse per le parole, forse per Xander – ma non ci riuscii: Hoshido mi ha perso, ma Nohr mi ha cacciato. Se Hoshido non intervenuto è perché in mezzo vi era un popolo da tutelare, popolo che ora Nohr sta attaccando forte di questa storia. Serbo rancore per entrambi e temo che mai riuscirò ad essere solamente nohriano od hoshidese, ma se c’è una cosa che ho capito seduto al muro della mia cella è che nessuno merita questo trattamento! Io non so che fare, ma come causa di questo conflitto a lungo covato vi dico: né Hoshido né Nohr meritano qualcuno come Garon, per questo io combatterò affinché cada! Preparati Nohr!

Xander e Ryoma si arrestarono di colpo, gli schieramenti iniziarono a scomporsi sospinti dal crescente rumore d’armi e parole. Nel mezzo della confusione preludio della battaglia, afferrai la spada precedentemente gettata e, quando il mancato fratello indietreggiò verso il suo schieramento vedendo l’altro muoversi, guardai la mia sorridente madre sussurrandole con gli occhi che avevo capito cosa volessi.

 

 

Questa volta sono stata breve : D

 

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ATTENZIONE! Per via dei problemi riscontrati nella giornata di ieri sulla Community, il termine del Contest di Scrittura è posticipato di un giorno!

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Nome dell'autore: GoldenManaphy

Titolo: Un vuoto nel cuore

Elaborato:

Spoiler
Sangue. Orrore. Un campo di battaglia. Con la stessa furia dello sciabordio delle onde due eserciti combattono. L'uno potente come il buio che tutto avvolge di notte, l'altro splendente come la luce che irradia le verdi pianure del regno di Hoshido. Da una parte si staglia un uomo cupo e ombroso coperto da un'armatura più nera della pece, dall'altra una donna, il cui mite sorriso potrebbe rischiarare il cuore più tormentato. Ma ecco che, poco prima che si scontrino a duello, tutta la scena si ferma e appare una ragazza dai capelli celesti più limpidi del cielo di maggio e dagli occhi blu, di quel meraviglioso blu che colora la danza perpetua delle onde del mare. Volteggia con la grazia di un delicato fiore in primavera tra spade, lance e asce; sembra non accorgersi della situazione in cui si trova, è un usignolo in uno stormo di avvoltoi. Improvvisamente però l'azione riprende il suo svolgimento e la fanciulla venne trafitta da migliaia di armi. La sua candida veste si macchia di rose scarlatte e di lei non rimane più nulla sotto quell'ammasso di carne e metallo tranne un fievole bisbiglio che cresce lentamente: "Devi scegliere Corrin, scegli per il bene della tua famiglia. Sei tu il prescelto. Scegli, scegli, SCEGLI!"
 
"Ahhhhhhhhhh"
Con un urlo mi sveglio dall'incubo, l'incubo che mi perseguitava dall'infanzia, che mi aveva fatto passare decine di notti insonni. Guardo fuori dalla finestra: la luna rischiara le cupe tenebre che attanagliano le cime delle aspre montagne . Fatto molto raro e unico nel regno di mio padre, il regno di Nohr. Domani infatti c'è la festa della luna buia, in cui si celebra questo particolare fenomeno che avviene in questo periodo. Quest'anno, però, sarà speciale: dopo il tradizionale ballo, verranno portati i prigionieri di guerra e saranno giustiziati uno per uno davanti a tutti, cosicché tutti possano gioire del dolore della lurida feccia del regno di Hoshido e sia di buon auspicio per lo scontro contro di loro, che avverrà tra due giorni. Con questi siamo in guerra ormai da parecchi mesi e il conflitto non ha mancato di portar via parecchie vite da entrambe le parti. Io stesso ho partecipato diverse volte alle battaglie e ai saccheggi: non mi importa nulla di quella gente, uomini o donne, vecchi o bambini, finché si opporranno all'unica stirpe che ha il diritto di comandare, periranno tutti sotto la lama della mia fedele spada. Non ci vuole molto tempo a convincermi che questa notte per l'ennesima volta non chiuderò occhio. Mi alzo, quindi, e faccio un giro per il palazzo. Già ombroso di giorno, di notte c'è solo il buio più totale. Decido di visitare le segrete per vedere come i prigionieri trascorrono l'ultima notte. Una volta entrato, vedo le nere celle: contengono uomini che piangono le mogli lasciate a casa, poppanti che chiamano le mamma e vecchi che passano in lacrime le ultime ore di vita. Musica per le mie orecchie. Sto per salire e ritornare in camera, quando mi colpisce una cella che prima vedevo vuota. All'interno c'è una donna così fragile che un soffio di vento potrebbe portarsela via, anche se non è il suo corpo a sorprendermi, bensì la sua espressione: in quel disegno di sofferenza riesce ad essere calma. Incuriosito, mi avvicino e le chiedo: "Beh, cos'è tutta questa tranquillità? Non vuoi magari struggerti per qualche parente o rimpiangere la tua terra natia?". La mia domanda non fa altro che illuminare il suo sorriso. Mi guarda con un misto di compassione e dolcezza e mi risponde mite: "Corrin, come sei cambiato. Mi ricordo di quando eri soltanto un bimbo, che si sentiva al sicuro nel caldo abbraccio di sua madre. Da quando i Nohr ti hanno rapito non ho fatto altro che pensare a te, il figlio della nostra regina. Ho saputo ciò che hai fatto fino ad ora, quante battaglie a cui hai partecipato, quante vite hai tolto. Ma tieni sempre presente questo: gli Hoshido perdonano sempre" Questa sua risposta mi trafigge come un fulmine a ciel sereno: sento una fitta al cuore e tutto intorno a me inizia a girare vorticosamente. Improvvisamente mi si palesa un'immagine nella testa: vedo la stessa donna del sogno cullare un bambino. Inizialmente la faccia di quest'ultimo è coperta da un morbido panno, ma quando lei lo scopre la vedo: sono io. Ritorno alla realtà. Inizio a correre verso camera mia, devo assolutamente sdraiarmi; ma nel tragitto continuo a inciampare e cadere. Arrivo tutto pieno di lividi e mi stendo esausto, ma non riesco a chiudere occhio: appena ci provo le immagini di tutte le persone che ho ucciso mi perseguitano.
 
Passo in questo stato tutta la notte. finalmente la mattina riacquisto la mia sanità mentale, convincendomi che quello appena successo è stato solo un complotto degli Hoshido per destabilizzare noi Nohr e che quindi devo dimostrarmi forte come al solito. Nonostante ciò, continuo a pensare a ciò che ha detto la donna prigioniera, al fatto di essere stato rapito, secondo lei, dalla stessa famiglia con cui vivo adesso e di essere in realtà il figlio della loro regina, ma più di tutto alla frase "Gli Hoshido perdonano sempre", che mi rimbomba nella testa. Perdonarmi che cosa? I miei pensieri vengono interrotti dal bussare di qualcuno. "Avanti" rispondo con voce cupa. Dalla porta si affaccia mio padre, che continuo a vedere a capo dell'esercito dei Nohr nel sogno.  Non appena entra l'aria è come se si facesse più rarefatta e faccio fatica a respirare. Non mi era mai successo di provare questa oppressione al suo cospetto. Mi persuado che probabilmente la donna di ieri notte era una strega e mi ha lanciato un incantesimo per confondermi prima della battaglia, anche se non riesco ad esserne del tutto convinto. Non mi capacito che lui possa non essere mio padre - se sono quello che sono adesso, lo devo soltanto a lui - ma glielo domando comunque: " Padre, è da molto tempo che mi tormenta questa questione: c'è una qualche possibilità che io discenda dagli Hoshido?". Lui sembra sbigottito, anche se è solo questione di un attimo: in una frazione di secondo i suoi lineamenti marmorei riacquistano la durezza e imperscrutabilità. " Figlio mio, forse qualche feccia di Hoshido è riuscita a instillare dentro di te questo dubbio? Forse non ricordi che sono stato io a donarti il tuo splendido nome, a insegnarti a cavalcare il tuo nobile destriero e a realizzare ogni tuo singolo desiderio? Da quando tua madre è morta tutte le mie attenzioni sono state rivolte verso di te. Come puoi pensare una simile sciocchezza?". Sentire quel tono imponente mi fa ritornare in me: non potrei mai essere stato insieme a quelle nullità. "Sì padre, hai ragione. Perdonami per aver anche solo immaginato qualcosa di così impensabile." gli rispondo. Lui di rimando fa un cenno con un capo e mi raccomanda di essere pronto per la festa. Trascorro il giorno esercitandomi con la spada, per essere pronto alla grande battaglia di domani e la sera sopraggiunge velocemente. Viene posta la ghigliottina in mezzo alla piazza del castello e la gente di Nohr vi si raduna intorno. Una soave melodia dell'orchestra accompagna l'entrata dei prigionieri e, volta per volta, il mucchio di teste si ingrandisce sempre di più, accrescendo anche le urla di gioia dei presenti. Un odore acre si diffonde tutt'intorno. Arriva infine il turno della donna minuta. Quest'ultima, però, poco prima che calasse la lama, mi rivolge il suo sguardo pacato, per niente preoccupata di ciò che sta per accadere, e mi sussurra qualcosa, in modo che la possa sentire solo io. La testa le viene tagliata di netto e il sangue si infiltra nelle sue bianche vesti. Mi rendo conto di ciò che mi aveva detto: " Sei ancora in tempo per rimediare ai tuoi sbagli. Devi solo scegliere la tua vera famiglia. Segui il tuo cuore".
 
Scoppio a ridere istericamente davanti a tutti e mi slancio sul balcone di camera mia, dove la luna faceva capolino, insieme alle schiere dell'esercito nemico. Ormai i suoi dubbi si erano infiltrati nella mia mente e, come un morbo, corrompevano lentamente i miei pensieri. Potevano le uniche persone a me care avermi mentito sin da quando li ho conosciuti? E se anche fosse così, come posso essere finito nella fazione nemica da secoli di quella in cui sono nato? Più guardo la luna, più mi ritorna in mente la faccia della donna a capo dell'esercito bianco nel sogno: entrambe erano candide e con la loro lieve forza compivano grandi azioni.  Sono anni che continuo ad uccidere persone, nessuna è mai riuscita a frenare la mia fama di gloria. Eppure lei con quel suo dolce sguardo ha saputo fare quello che nessun'altro aveva mai fatto. Perché? Vengo bruscamente richiamato alla realtà dall'entrata furiosa di mio padre. ""Figlio mio, che ti succede? - esclama furioso - Sei forse diventato pazzo? Mostrarti debole davanti a tutta quella gente? Cosa penseranno del futuro re, che si fa impressionare da una semplice sguattera?" Non ho la forza di rispondergli. Io stesso non saprei improvvisamente cosa rispondere. Non capisco dove sia finita tutta la forza e la sicurezza che da secoli distinguono noi Nohr e che fino a due giorni fa possedevo ancora. Ma decido che il giorno prima di una delle più importanti battaglie della storia della mia famiglia non è il momento giusto per discutere con il proprio padre, perciò lo convinco che è stato un semplice mancamento e gli prometto che non sarebbe più accaduto. Soddisfatto della risposta mio padre lascia la mia stanza, ma nel frattempo io ho fatto la mia scelta. Combatterò con gli Hoshido.
 
La mattina arriva presto. Senza far trasparire le mie intenzioni mi preparo con il resto dei soldati. Ci dirigiamo nelle grandi pianure che separano i due regni. Di fronte a noi si staglia l'interimabile esercito di Hoshido, capitanato dalla bellissima regina Mikoto, che si trovava in prima fila. I suoi capelli scuri erano in contrasto con la sua candida armatura. Non appena si accorge di mio padre, tenta di fermarlo: "Garon finalmente ci incontriamo. Prima di incominciare questa battaglia, ti supplico di fermarti. Non vedi quanti mali stanno passando i nostri rispettivi sudditi? Per degli errori compiuti secoli or sono dai nostri antenati, stiamo mettendo a repentaglio la vita di tutte queste persone". Questa richiesta accende l'animo di mio padre, che si toglie la maschera fredda e indifferente: " Io dovrei lasciar perdere tutto ciò solo perché me lo chiede la dolce e indifesa reginetta? Se non volevate tutto questo sarebbe bastato condannare quelle persone che avevano saccheggiato i nostri contadini. Non mi fermerò fino a quando non proverete tutto il dolore che ha provato la mia gente, costretta a passare un periodo di carestia per colpa tua e dei tuoi antenati. Vi pentirete tutti di averci sfidato!". Detto ciò si avventa sulla regina con un fendente, ma, poco prima che la colpisca, una spada blocca la sua lancia. Era la mia. Mio padre mi guarda inorridito: "Tu...! Come osi opporti a tuo padre! La pagherai per questo!". Questa minaccia non fa altr che aumentare la mia convinzione: " Mi sono nascosto dietro alla violenza per riempire il vuoto che sentivo dentro di me. Ora so che cos'è: il fatto di essere amati da qualcuno. Non avevo mai fatto caso a questa oppressione, ma ripensandoci, mi sono accorto che la mia vita nel regno di Nohr è stata tutta una farsa: per tutti questi anni l'unica cosa che ho fatto è stato assecondare il tuo desiderio di potere, non ho mai scelto veramente io, non ho mai ascoltato il mio cuore. Solo quella donna è riuscita a farmi provare cos'è l'amore, facendomi riaffiorare un ricordo del mio passato, di cui mi hai tenuto all'oscuro per troppo tempo. Non mi interessano le conseguenze di questa decisione e se dovrò combattere con te lo farò, in nome di tutte quelle persone che hanno perso la vita a causa delle tue ambizioni". Mio padre mi guarda incredulo: il fedele cagnolino si è ribellato al suo padrone. La regina Mikoto rompe il silenzio: "Quello che ha raccontato è la verità, Garon?" Lui non risponde. "Oltre ad aver rapito il mio bambino, l'hai pure reso tuo schiavo? I tempi passano, ma tu rimani sempre uguale". Poi girandosi verso di me: "Ebbene sì Corrin, io sono la tua vera madre. Quello che hai di fianco è solo chi si è approfittato di te. La verità è che tu sei l'erede al trono di Hoshido". La verità mi colpisce come una botta in faccia. Finalmente capisco perché la vedevo nel sogno e perché nella visione mi teneva in braccio. "Ho cercato invano- continua lei  - di convincere re Garon a restituirti, ma lui rifiutò sempre gli accordi. Proprio per questo motivo il conflitto si è inasprito ulteriormente in quest'ultimo periodo" "Ah - risponde lui - la regina oggi è in vena di rivelazioni. Le chiuderò quella boccaccia per sempre" e con un affondo la trafigge nel petto. "No!" urlo, ma ormai è troppo tardi. Mia madre si accascia al suolo inerme. Dei soccorritori la prendono e la trasportano di fretta al loro castello. Guardo Garon, l'unico sentimento che provo verso di lui è il desiderio di vederlo cadere sotto la mia spada. Così mi scaglio contro di lui, ma lui para il colpo senza alcuna difficoltà. "Ah vuoi il duello, eh? Che duello sia!" Inizia a colpirmi ripetutamente con la precisione di chi esercita da anni l'arte del combattimento. L'incontro sembra interminabile, finché riesce a stringermi in un angolo. Sono bloccato. Sto per ricevere il colpo decisivo, quando mi ricordo improvvisamente il suo punto debole che ho imparato a conoscere: quando carica un colpo lascia sempre scoperta l'ascella sinistra. Quindi lo colpisco in quel punto, intercettandolo e riconquistando il vantaggio. "Devo ammettere che sei molto più forte di quanto ricordassi" dice il mio finto padre. "Se mi avessi dedicato più tempo, forse l'avresti già notato" gli rispondo con voce tagliente. Riesco finalmente a chiuderlo, basta un ultimo colpo per vincere. L'ha capito anche lui, perché dice: "Su avanti finiscimi, se ne hai il coraggio". Decido però di fermarmi, memore di tutte le persone che ho sulla coscienza: "Non ti ucciderò, voglio dimostrarmi migliore di quello che sei stato. Preferisco distruggerti lentamente e farti pentire di tutti i tuoi misfatti". Lo lascio libero: " Ah, per questa volta ti lascio vivere, ma verrà un giorno..." non conclude la frase, anche se il significato è ben chiaro. Ordina la ritirata e tutti quelli che stavano combattendo, obbediscono senza batter ciglio. Non appena la battaglia volge al termine, mi sento mancare le forze e mi accascio a terra.
 
Mi risveglio in una stanza ben diversa da quella che conoscevo. Vedo una figura seduta sul mio letto. All'inizio la vedo sfocata, ma lentamente riconosco i dolci lineamenti della regina Mikoto. "Bentornato - mi dice sorridendo - eravamo tutti in pensiero per te". "Che cosa è successo dopo che sono svenuto?" "L'esercito di Garon si è ritirato e tu sei stato tratto in salvo e portato qui, nel castello di Hoshido. Ti hanno curato gli stessi stregoni che mi hanno chiuso la tremenda ferita. Sai che stanza è?". Ovviamente rispondo di no. "Questa è la stanza in cui ti ho dato alla luce. Probabilmente non te lo ricordi, ma la tua nascita è stata un grande momento di gioia per tutti qui ad Hoshido. Tutti ti amavano e ti vedevano come colui che avrebbe salvato il nostro regno dalla rovina". Fa una pausa, poi riprende:" Quando ti avevano rapito, ero accecata dalla rabbia e non ho pensato due volte a muovere guerra contro i Nohr. Col senno di poi ho capito di aver effettuato un grosso sbaglio e di aver sacrificato molte persone innocenti a causa del mio egoismo, ma ormai era troppo tardi. Ora, però, non voglio affaticarti e ti lascio riprendere le forze" Si alza ed esce con la grazia di una leggera brezza primaverile. In effetti non ci metto molto ad addormentarmi. Sogno la ragazza dai capelli color del mare, anche se non si trova nella solita situazione. Infatti mi ringrazia di tutto ciò che ho fatto e di aver salvato molte vite grazie alla mia decisione. Alla fine mi rivolge un lieve sorriso e svanisce, lasciando un profumo di salsedine. Mi sveglio di nuovo, ma questa volta mi alzo. Mi affaccio alla finestra e guardo la gente festeggiare la ritirata degli avversari. Questa visione riempie finalmente il vuoto che mi sentivo dentro e tra i canti di festa della gente e i ciliegi in fiore mi riprometto che non farò più del male, ma che farò in modo che il mondo diventi un posto migliore, che non dia spazio a persone come mio padre di effettuare i loro piani malefici. Ho deciso: diventerò un Hoshido.   
 
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Nome dell'autore: Hydreigon106

Titolo: Conquest and Fates!

Elaborato:

 

La sensualità espressa dai suoi movimenti, si fonde perfettamente con la sua leggiadria, mentre la sua melodica voce mi persuade, sino ad incantare il mio sguardo, gli occhi fissi su di lei. Maneggia l’acqua con destrezza e la sua danza è così passionale da farmi battere il cuore al sol vederla: quegli occhi innocenti, con la capacità di esprimere tanta insicurezza e fragilità, diventano agguerriti, come se il suo unico scopo fosse narrare quella che è la triste verità. Il suo abito si posa con delicatezza sul pavimento, ad ogni suo passo, ad ogni suo movimento, mentre i suoi capelli ondeggiano a ritmo di musica, su quel palco di cui ora sta per diventar padrona. I miei occhi non avevano mai avuto l’occasione di osservar insieme tanta bellezza. Rimango talmente incantato che non riesco a decifrare né più ogni singola parola che viene fuori dalle suo labbra. La tunica bianca le dona tanta purezza, tanta innocenza, che il suo viso diventa come una maschera: frangibile al sol tocco.

Una lacrima non le marca il viso.

Si morde le labbra, poggiandosi l’altra mano sul braccio.

Sta soffrendo.

In un attimo, mi rendo conto: è ferita. Una ferita comparsa d’improvviso, che dilania man mano, sinché, presa dall’agonia e dal dolore, ella lancia un urlo, accasciandosi sul pavimento. Le sue labbra si contraggono, come se non fosse riuscita a dir le sue ultime parola, come se stesse ancora cantando.

Scendo in fretta le scale, dall’alto dell’anfiteatro, sino a raggiungerla: è pallida, e molto debole. Urlo a squarciagola, sperando che qualcuno oda il suono raccapricciante e contorto della mia voce, disperato per l’accaduto. Guardandola, le mie gambe tremano: anche se non sembra, è come se lo sentissi.

Sta morendo.

Una lacrima solca il mio viso. 

No. Non posso piangere. Non …ora. Ho bisogno di essere forte, di riuscire a farmi strada tra le avversità e gli ostacoli che mi si presentano dinanzi, già da ora, altrimenti come farò in futuro?

 Odo un rumore, uno sfregare di metallo contro il pavimento. Qualcuno si sta avvicinando al passo, indossando un’armatura.

Mi avranno sentito?

Non ho il tempo di scoprirlo. Sento come se tutta la mia energia, la mia forza, si stesse esaurendo. Come se qualcosa la stesse risucchiando. Non posso abbattermi proprio adesso. Le mie gambe tremano, ed in breve tempo, la mia visuale si offusca.

Svengo.

 

Mi risveglio all'interno della mia stanza, osservando l'ambiente a me circostante: non sono più in anfiteatro, ma sdraiato sul letto, immobile, gli occhi con la sguardo fisso verso il cielo.

Controllo l'orologio al mio fianco: è ancora buio pesto lì fuori, saranno all'incirca le tre del mattino. Mi accorgo che le mie mani sono cosparse di sudore, così tutto il resto del corpo, tanto da bagnare l'intera coperta.

L'ansia è forte. Sono, oramai, parecchi giorni che lo stress continua a perseguitarmi e che continuo a far sogni strani e inspiegabili, apparentemente, senza alcun senso. Tiro un profondo respiro e girandomi sul fianco, mi rimetto a dormire, mentre osservo le tendine del baldacchino oscillare a causa del vento che tira dalle finestre.

La vita non è facile qui al palazzo, anzi è più impegnativa di quanto si pensi.

Mi risveglio.

L'addestramento inizierà a breve, quindi mi conviene prepararmi.  Assemblo velocemente le varie parti dell'armatura, pronto per indossarla, mentre osservo i miei movimenti allo specchio. Il mio corpo esule e slanciato, si dà un certo tono, in particolare di prima mattina, quando mi ritrovo coi capelli interamente scompigliati. Proprio mentre sto per assemblare l'ultimo pezzo dell'armatura qualcuno bussa alla porta.

È Monica, una delle domestiche del castello, pronta a porgermi il vassoio con la mia colazione.

- Signore - esclama- è arrivata la colazione!

La domestica chiude la porta, lasciandomi da solo in stanza. Stamattina, ricaricherò le mie energie grazie a questo vassoio ricco di delizie. Monica mi conosce davvero bene, anche se credo che tutte le domestiche del palazzo mi conoscono fin troppo bene, a causa della mia schizzinosità riguardante il cibo!

Il mio stomaco brontola. È giunta l'ora di incominciare a mangiare, anche se è difficile stabilire da dove iniziare: in questo vassoio c'è di tutto, a partire da biscotti sino ai croissont aromatici alla ciliegia e farciti con l’ausilio della confettura, accompagnati da un bel bicchiere di latte, proveniente dai migliori allevamenti contadini in paese.

Pezzo per pezzo, finisco con l'assaggiare quasi tutte le pietanze presenti all'interno del vassoio.

Mi do un'ultima ritoccatina, apro la porta e iniziò a percorrere la lunga scala a chiocciola che collega la mia stanza alle altre del palazzo. Le grandi vetrate che caratterizzano le mura del palazzo, vengono attraversate dal sole, il quale, riflettendosi nei primi dei candelieri in cristallo, rischiara il cammino lungo tutta la sala, sino al corridoio centrale: una stanza allestita in maniera sobria e raffinata, collegata al resto della struttura tramite cinque rampe di scale a chiocciola, scolpite in legno dai migliori artigiani. I Nohr sono molto scettici su argomenti come l'eleganza e la raffinatezza, che a una famiglia reale di un certo rango, non può certamente mancare: purché apparentemente bellicosi, essi hanno gusto, dando molta importanza all'estetica e all'apparenza.

 La mia famiglia, è in guerra da generazioni contro coloro che prendono il nome di Hoshido: degli ipocriti vigliacchi, che cercano di evadere dalla realtà, di evadere dalla guerra, trovando scusanti come banali trattati di pace o simili.

Purché provi molto astio nei loro confronti, sento come se qualche imprescindibile legame costringesse i nostri fili conduttori della vita, ad essere inesorabilmente uniti dal fato.

E proprio mentre i miei pensieri si stanno impadronendo di me, avvolgendomi come un velo, qualcun da lontano, mi chiama.

- Tesoro! – esclama in tono affettuoso, colei che si dirige verso di me.

- Camilla!

Camilla mi viene incontro. Indossa un'armatura totalmente scura, dai bordi dorati. I suoi lunghi capelli oscillano a destra e a manca per via del suo andazzo, e per l'assenza del diadema scuro che le orna il capo.

 Camilla, per me, è come una figura materna. È la principessa più anziana di Nohr, ma al contempo è anche una dei più poderosi cavalieri spettrali del regno, tanto da dimostrarsi una vera e propria furia sul campo di battaglia. Non l'ho mai vista combattere seriamente, ma, secondo alcune voci, è stata in grado di abbattere anche uno dei più potenti cavalieri hoshidesi, tanto da guadagnarsene, addirittura, un prezioso cimelio.

I Nohr sono uniti da un profondo legame, ognuno dei fratelli appartenenti alla famiglia reale è in perfetta sintonia con l'altro, dal più anziano al più giovane. Per questo, durante le azioni di guerra, si sostengono a vicenda, esaltando le azioni compiute l’uno dell’altro.

- Hai per caso visto il mio fermaglio? - domanda, la voce stridula e pacata.

- No, sono appena uscito dalla mia stanza.

- Capisco. Beh, non dimenticare gli allenamenti, stamattina. La tua preparazione è quasi giunta al termine: l'esame si avvicina.

- Certo – sorrido – ero diretto proprio lì.

Mentre lei si dirige verso il portone che si apre sull'altra sponda del giardino del palazzo, in cerca del portone che dà sul lato opposto al suo, ove sono situati gli steccati in vista degli allenamenti.

Percorro il resto della sala, mentre mi osservo attorno. Il palazzo non mi è mai sembrato più bello! Mi fermo davanti al portone, una volta arrivato e cerco di aprirlo, qualcosa, però, va storto: quest'ultimo non si apre.

-         Mio signore – mi avverte Felicia, una delle domestiche – prendete la strada alternativa, passando per il giardino. Questa porta è ancora impossibilitata all’apertura.

Il castello di Nohr è immenso, quindi mi toccherà prendere la strada alternativa, per raggiungere il recinto.

Torno indietro, sino al corridoio centrale, decidendo di uscire dalla stessa parte del portico ove, prima, era passata Camilla. Mi toccherà raggiungere destinazione, attraversando i giardini del palazzo.

Mi incammino così, una volta aperto il portone, lungo la retta viaa. Il sole riflette la sua luce sul prato, ancora bagnato dalla rugiada, sulle piante, a cui Felicia, rimessasi al lavoro, e le altre domestiche stanno dando una ritoccata. Mentre cammino, inizio di nuovo a pensare. Fino a che non m’imbatto nella siepe gigante, che il nostro sovrano ha incaricato di costruire. L'unica pecca di noi nohriani è il nostro re, Graon: il nostro regno potrebbe essere un posto migliore, se non si fosse macchiato di sangue a causa sua.

Voci che circolano all’interno del palazzo, affermano che imponendo pesanti dazi sulla popolazione, pretenda che in sua visita, i cittadini gli debbano porgere un dono. In caso ciò non avvenga, è pronto a sbarazzarsi di ognuno, ritenendolo in capace. Qualcuno crede non sia umano, perché spietato e senza cuore, altri pensano sia talmente assetato di potere, da non interessarsi del suo regno cadente in rovina.

Arrivo allo steccato: è aperto, e al suo interno sono disposti in maniera casuale, i fantocci che serviranno per allenarsi.

Sono delle specie di spaventapasseri, vestiti da guerrieri, con appesi al collo dei bersagli da centrare con la spada.

Entro nel recinto, impugno una delle spade appese al cancelletto, ed inizio ad infilzare, anch'io, il bersaglio con la lama, proprio come sta dimostrando Xander ad un apprendista.

- Corrin? - Xander mi si avvicina - Vorrei chiederti una cosa. Sai, in vista del tuo esame d, ho avuto la brillante idea di farti una proposta.

- Di cosa si tratta? - rispondo passivo. Ultimamente le brillanti proposte di Xander, riguardo ai miei allenamenti, consistono solo nel fare da scudiero a qualche cavaliere o nel lucidare armature ed affilare spade.

- Domattina dovrò scendere in paese per portare al termine alcune commissione. Mi farebbe molto piacere averti al mio fianco. Che dici, ti andrebbe?

- Di cosa si tratta? - ribatto.

-  È un segreto, se accetterai sarai in grado di scoprirlo! - accenna un sorriso e mi fa l'occhiolino - Se sei d'accordo, l'indomani all'alba, fatti trovare pronto.

Accenno una smorfia, continuando a malmenare il mio avversario. Non amo particolarmente le spedizioni. Mi mettono ansia. Dinanzi ai membri della mia famiglia cerco di mostrarmi impassibile, ma in realtà sono preoccupato, non essendo mai stato in paese. Nessuno mi ha mai accennato il perché sia stato rinchiuso qui per tutti questi anni. È un tasto dolente, ma essendo di indole tranquilla e serena, al contrario di tutti gli altri, non me ne sono mai interessato, lasciando sempre correre. Anche se un briciolo di curiosità, repressa, c'è sempre stato in me. Stasera, dopo cena, prenderò una decisione, decidendo se partire o meno l'indomani.

Impugno saldamente la spada e sferrò un ultimo fendente alla "controfigura".

Quest'ultima, si spezza dalla trave che lo sostiene, volando sino alla parte opposta dello steccato.

Xander osserva stupefatto l'azione da me appena compiuta, applaudendo.

- Ehi! - esclama una voce lontano.

Mi giro per osservare chi si stia avvicinando al recinto. È Elise. Indossa uno dei suoi abiti preferiti, ricamato bianco, prevalentemente nero, abbinato al fiocco che indossa. I suoi passi rimbombano sul terreno, mentre i suoi boccoli di un biondo spento, come un fiore appassito, vengono spazzati via dal vento, il che la costringe a rallentare il passo.

- Elise!

- Corrin! - si getta tra le mie braccia, stringendomi forte - Sono così felice di vederti.

Arrossisco pian piano. Il rapporto che ho con Elise è speciale. Oltre ad essere la principessa più giovane di Nohr, è anche una ragazza vivace, esuberante, piena di talento. Sin da piccoli, abbiamo sempre trascorso tutto il nostro tempo insieme. Ci siamo sempre sostenuti a vicenda.

-         A quanto pare siamo tornati in anticipo! – esclamo, con un sorriso, facendole l’occhiolino.

-         Ho chiesto a Madama Blanche, il permesso di trascorrere le ultime settimane qui a casa, prima di ritornare.

Elise è stata fuori paese per intraprendere un nuovo percorso di studi. Il suo soggiorno, prevedeva circa due mesi all’estero, ma in vista delle vacanze, come ci aveva già preannunciato tramite una lettera alcune settimane prima, ha deciso di tornare in anticipo.

Gli occhi di Elise sono colmi di felicità. Chiedo il permesso a Xander di fare una pausa, e insieme, a braccetto, ci incamminiamo verso il corridoio centrale.

Intraprendiamo insieme, la scalinata centrale, conducente all’androne che porta alla Sala del Tè, e insieme ci sediamo. Anche qui, è impossibile negare che i Nohr non abbiamo stile, visto che questa è una delle sale più particolareggiate dell’intero palazzo.

La stanza, è infatti circondata da drappelli gialli, pendenti dalle finestre, raffiguranti l’emblema di famiglia, mentre un tavolo da dodici ne è posto al centro. Su ogni gamba del tavolo, è raffigurato il volto di una bestia.

Su quella affianco a me, il volto e le ali spianate di un pegaso, intento a nitrire ardentemente.

 Suono il campanello posto sul tavolo, per chiamare un’inserviente.

Felicia ci raggiunge, a passo felpato, intenta a tener gli occhi puntati sul vassoio, stando attenta a non farlo cadere.

Riprese le forze, saluto Elise, allontanandomi dalla Sala del Tè e ritornando, dunque, alla recinzione.

Appena arrivo, mi ritrovo di fronte Xander.

Il suo volto e pallido. Mi porge una mano sul petto, fino a che non sviene.

Noto subito qualcosa dietro la schiena: è stato ferito da una freccia.

Ho subito un presagio: altre frecce vengono scoccate da un punto sconosciuto, al di là del recinto. Mi sento immobile. Non ho abbastanza tempo a sufficienza muovermi, o scappare.

E mentre sto per rischiare di essere trafitto, vedo una sfera fiammeggiante colpire le armi dirette verso di me, sino a polverizzarle.

Mi volto.

-         Bel colpo! – esclamo.

A salvarmi è stato Leo, il principe nohriano più giovane. Al contrario di Xander e Camilla, è l’unico specializzato nell’utilizzo dei tomi: antiche pergamene al cui interno è celata la conoscenza, al fine di dominare le arti magiche.

Chiude gli occhi, mentre mormora qualcosa, osservando il suo tomo, per poi chiudere i pugni e riaprirli velocemente, puntando la sua mano verso i cespugli al di là allo steccato.

Sento una sensazione pervadermi, come un bruciore intenso.

Urlo.

Una freccia mi ha colpito.

Prima di chiudere gli occhi, osservo Leo, imperterrito, mentre viene colpito alle spalle da un altro attentatore. Questa volta è un ninja. Un shuriken dalle punte viola gli graffia il viso: è avvelenato. Lo osservo mancare, imperterrito, gli occhi puntati verso il cielo.

A seguirlo, ci sono io.

Nella mia mente, rimbomba una sola parola: Hoshido.

 

Sono stati loro a tenderci quell’imboscata.

Lo so.

Lo sento.

Al mio risveglio, mi ritrovo confinato in una camera.

La ferita non brucia più, ovunque essa sia.

Qualcuno entra dalla porta.

Un uomo, alto e robusto, si poggia al mio fianco.

Una lunga chioma rossa, sovrastata da una parte della sua armatura, gli sino alla schiena, coprendo parte del ricamo presente sul suo mantello, di un bianco candido e puro.

Un Hoshido.

-         Che volete? – urlo, con rabbia.

Lo sforzo è, però, troppo intenso, così sono costretto a stendermi di nuovo sulla brandina su cui sono poggiato.

La stanza che mi circonda è caratterizzata da un arredamento semplice. Il solo letto e i due mobili intagliati in legno, la rendono vuota e angosciante, se non fosse per i fiori posti in un vaso al mio fianco. Chi avrà mai deciso di regalarmeli?

La porta si apre, tempestivamente.

Qualcuno entra. Odo, parlare, mentre l’uomo al mio fianco annuisce.

Cerco di sforzarmi per capire ciò che l’hoshidese e il nuovo arrivato, stanno cercando di dirsi, ma sono ancora debole.

-      -   Non sa ancora niente?

-        -  No. Aspetterò che recuperi le forze, prima di dirgli come stanno le cose, in realtà.

-        -  Ma lui non sa, insomma, che…

-        -  No, – afferma, secco, l’uomo – ma prima o poi lo verrà a sapere, in un modo o nell’altro.

Capisco che “il nuovo arrivato” non è altro che una “nuova arrivata”. La osservo quindi mentre esce, e alcuni dei suoi particolari mi sembrano famigliari. Intravedo una corta chioma rossa, ed una veste bianca, abbinata ad un fermaglio del colore omonimo.

Un’altra hoshidese.

I colori tipici degli Hoshido, son il bianco e il rosso, mentre i nostri, ovvero quelli dei Nohr sono il viola e il nero. Combinazioni di colori completamente differenti, ma al contempo, distanti.

L’uomo si avvicina a me, poggiandosi con gli avambracci sulla coperta.

-         Io e te abbiamo molto da raccontarci! – esclama.

-         Dove sono i…miei… - non riesco a finire la frase, perché ancora troppo stanco.

-         Parenti? Non ti preoccupare, non gli abbiamo fatto del male. I medici li hanno curati, e sono stati sistemati in apposite stanze, mentre cercando di riprendere le forze…

-          Dove siamo?

-         Nel Castello Hoshido. Vi terremo sotto sorveglianza per un po’, finché i vostri familiari non verranno a cercarvi.

-         Vigliacchi! – una lacrima mi marca il volto – volete incastrarci. Siete dei vigliacchi. Affrontate il vostro destino, affrontate la guerra.

-         Calma, Corrin! Calma! – alza la voce – Se c’è proprio una cosa che odio dover portare a termine, è una guerra. E sai perché? Perché guerra è sinonimo di sofferenza. La guerra ha portato via qualcosa ad ognuno di noi – sto per ribattere, quando le sue parole mi colpiscono nel profondo, come se la mia ferita si fosse di nuovo riaperta – Anche a te!

-         Che cosa vuoi saperne tu di me? Come sai il mio nome? – inizio a piangere, in preda alla collera. Nonostante sia stato ferito e ancora debole, sono preoccupato per i miei amici. In questo momento, vorrei essere più forte. Forte, così da sconfiggere gli Hoshido una volte per tutte, e fermare questa maledetta guerra. Forte da sconfiggere questi ciarlatani, pronti a raccontare menzogne.

-         Io e te siamo molto più vicini di quanto pensi, Corrin.

-         Continui? Presto arriveranno i rinforzi… - riprendo fiato – raderanno al suolo le case, daranno fuoco ad ogni cosa. Del vostro regno, non rimarranno che polvere e cenere. L’avete voluto voi.

-         Tutto questo non ha senso. La pace, è l’unico modo che abbiamo per risolvere questa spregevole incombenza. Lord Corrin, se non vorrai capirlo da solo, avrai bisogno del mio aiuto! – sfodera la spada.

-         Cosa…cosa vuoi? – la paura s’impossessa nuovamente di me. Inizio ad indietreggiare pian piano, mentre l’hoshidese si avvicina alla punta del letto e, con la spada puntata verso l’alto, si prepara a sferrarmi il colpo di grazia. Forse il mio compito qui è terminato, mi ucciderà per incutere terrore agli altri membri della famiglia reale di Nohr, oppure il mio compito da pedina in qualche diabolico e meschino piano non è stato portato a termine correttamente.

Carica il fendente, e poi sferra il colpo. La spada si ferma, un attimo prima di sfiorarmi.

-       - Il mio nome è Ryoma. Legittimo erede del trono degli Hoshido, nobile famiglia che presiede la pace da anni in questo paese. Ho ereditato dai miei antenati, questo fendente, Rajiinta. Lord Corrin, il tempo scorre e nonostante ci abbia separato, ha voluto ci rincontrassimo. Ognuno di noi è in grado, di plasmare il proprio destino. Quindi, ti prego. Ascolta le mie parole.

Nohr e Hoshido sono due regni da secoli in combattimento. Due facce della stessa medaglia: appartenenti allo stesso paese, ma litiganti perché opposti. Numerosi sono state le perdite subite a causa dei nostri nemici. Una perdita, però, non si riferisce, solamente, allo spezzarsi di quel filo che lega, con sottigliezza, la vita terrena a quella mortale, ma anche a rapimenti. In guerra, ce ne sono stati molti. Quel dolore di cui ti avevo parlato prima, causato a per via della guerra, non è altro che i tuo rapimento. Tu sei un Hoshido. I Nohr ti hanno rapito, da bambino, e noi non siamo stati in grado di ingegnarci a tal punto, sino a trovarti, dandoti per disperso. Ora, le carte in tavola sono cambiate.

Lord Corrin, la guerra fa scontrare due parti in contrasto e la pace, si può raggiungere solo grazie ad un elemento che le congiunga. Fai la tua scelta, Corrin. A breve, lo sento, dovrai fare una scelta: affidarti ai legami di sangue o a quelli affettivi? Sta a te decidere. Solo tu puoi essere l’artefice del tuo destino, tu sei…

-         La chiave. – rispondo, come se nulla di ciò che ha appena detto quel tale mi abbia scosso, come se non mi avesse raccontato nulla di speciale. Come se l’avessi sempre saputo. Come se avessi sempre saputo che, ad un certo punto, il mio percorso si fosse dovuto scindere, ed io avrei dovuto scegliere quale sentiero intraprendere.

Ma, può mai, tutto ciò, esser vero?

-        -  Azura, entra pure!

Qualcuno entra dalla porta.

La lunga veste bianca, candida; lo sguardo innocente, la bellezza incantevole, e i movimenti incantevoli.

-        -  Canta. – le ordina l’uomo.

La voce melodica prende possesso del mio corpo. La mia mente è totalmente incantata dai suoi movimenti.

Prima di essere incantato totalmente dalla sua voce, e a non riuscir più a comprendere nemmeno una parola, odo:

-         -  Canta con me una canzone, di conquista e destino…

Al termine della sua esibizione, l’incanto svanisce. È come se la normalità e la monotonia si fossero impadronite nuovamente di me.

-       -  Allora Corrin, hai ancora dubbi? – mi chiede l’Hoshido.

Eppure, io sono convinto di averla già vista.

Sarò legato veramente ad entrambe le famiglie? Sarà vero ciò che avrà detto quell’uomo?

I miei dubbi sono ancora tanti, ma una cosa è certa.

Sarò io l’artefice del mio destino e, in caso il mio presagio si avverasse, dovrò intraprendere una strada diversa dalla solita, dai risvolti inaspettati!

P.S. Mi scuso per la lunghezza, ma non ho potuto farne a meno.

Spero che i dialoghi siano stati inseriti correttamente, poiché, una volta copiati, i trattini iniziali non sono stati segnati dappertutto.

Buona fortuna a tutti! ;)

 

 

 

 

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